Le due triadi: quella femminile (Irma, la moglie di Freud, e l’amica di Irma) e quella maschile (Otto, il dottor M. e Leopold) – ovvero la triade immaginaria e quella simbolica – la triade Rana e la triade Giaguaro.
Tra le due Lacan coglie uno stacco, un passaggio improvviso dall’una all’altra – che verrebbe a cadere proprio nel punto di giuntura tra i due «linguaggi». Lo coglie là dove poteva esserci un «risveglio» dall’incubo dello «spettacolo schifoso», una brusca reazione alla vista della «carne che non si vede mai». Poteva esserci, ma non c’è stata … perché Freud, dice Lacan, vuole sapere oltre che cosa c’è.
Oltre l’orrido, al di là dello schifoso – Freud vuole sentire ciò che l’Altro ha da dire: eccolo allora, all’improvviso, uscire di scena per lasciare il posto ai Tre Dottori. Sarà questo «trio mistico» a dare il responso del sogno, e con esso a «rivelare» la cura.
Freud ha il desiderio (conscio, o al più preconscio) di venire a capo della sua ricetta delle nevrosi: è sulla strada giusta? lo è, quando suppone che questa strada passa per il sogno, e che in sogno «realizza», sia pure in modo allucinatorio, i desideri?
Se è o non è così, non può che essere il sognato stesso a sentenziarlo.
Circolo vizioso: la «ricetta», quale che sia, è fatta di parole. Il «vizio» di ogni desiderio (umano) – ma, più di tutti, specie del desiderio inconscio – è quello di affidarsi alla Parola, di navigare sulla Parola alla volta di chissà quale cielo o rango immaginale – alla volta della luna, dice il Racconto sudamericano.
Bisogna dunque che il sogno lo riporti lassù, perché dalla luna qualcuno risponda di quel «niente», per cui dice di aver fatto «questo» schifoso dispetto al desiderio, facendolo andare a sbattere col muso sull’evidenza della carne, del sangue, delle mestruazioni, delle bassezze nasali o inguinali, della tale o talaltra conca mostruosa del nostro Corpo.
Le parole chiedono ragione di quel «niente»: perché ci hai fatto questo?
E la voce, imperterrita, risponde: «Così, per niente».
È «per niente» che diventiamo nevrotici. Perciò bisogna interrogare chi, questo dispettoso «niente», l’ha enunciato la prima volta sulla nostra bocca.
Per interrogarlo, ci vuole poco. Basta un gomitolo di parole, e poi chiamare un avvoltoio perché, divorata la carogna, fatto sparire di scena il sognatore stesso, vomiti infine le pietre preziose, le parole del Responso.
Il Racconto è sincero: basta, dice, sbrogliare la matassa delle sue parole, per dare la scalata al cielo della luna.
Freud vuole dunque sapere, desidera sentire la Parola che «annienti», che estingua e ponga termine – insomma, che «realizzi» il suo desiderio di una ricetta: qual è il senso della nevrosi? dov’è diretta la cura? da che parte va Psiche, una volta che Eros è fuggito via da lei?
Va a rifugiarsi sulla luna la nostra infantile psiche. Va sulla luna anche il Dottor Freud. E per andarci, prende la strada dei sogni: vuole sapere la chiave dei sogni, perché crede che è là che, se mai è ancora possibile, è dato ritrovare la chiave smarrita dai nevrotici. Crede che solo il sogno, e solo se si arrampica fin sulla luna, può sgomitolare le parole in cui si è avvolto in illo tempore il labirinto di Psiche.
Perciò anche Freud va sulla luna per apprendere, di nuovo, le tre parole dimenticate d’una vecchia filastrocca, di un’antica formula magica, di un remoto incantesimo.
Sono tre – non due, non una – ma tre parole. Tre bocche, tre Teste.
Non una: la Testa sul Collo. Non due: la Testa che rotola per terra. Ma tre: la Testa che s’innalza fino alla Luna … lungo il filo della Parola.
La Parola è sempre la parola di un Terzo – anche quando è parlata tra due.
Anche la parola parlata tra Freud e Irma, è la Parola di un Terzo – e solo perciò anche Otto può metterci bocca, e dopo di lui il dottor M. e Leopold.
Il Terzo, il Soggetto della Parola, il SI dei «si dice», è l’Inconscio – l’Eco senza corpo che entra in scena nel punto di giuntura tra immaginario e simbolico, tra vedere e sentire – tra vedere le voci e sentire i colori, tra vedere i toni delle voci e sentire le macchie di sangue che spruzzano l’arcobaleno dei propri umori.
Il Terzo è AZ, è NN, è Nessuno – l’Altro, l’Oracolo là, fuori da ciascuno di noi.
E C è la Cornice, la Veste, la Maschera, l’Ornamento entro cui ciascuno di noi «finge» l’occultamento della propria intima differenza e si omologa alla moda dell’Altro, si dà una «identità», un «io» per l’Altro.
E dentro la Cornice, dentro, Psiche affresca i suoi sogni, i suoi umorismi, le sue immaginazioni, le sue singolarità irripetibili (H).
Tre sono le parole della Legge dell’Altro. L’Altro prende la parola e parla, quando Freud scompare dalla scena e lo lascia libero di parlare. Quando cioè né il suo «io» (H) né la sua «immagine» (C) gli oppone più resistenza. E allora eccolo, finalmente, lasciato a dire quel «niente» che è la soluzione di tutti i problemi. Quell’insensato dispettoso niente che ciascuno di noi ha ricevuto in risposta dalla luna, quando ha chiesto: perché fai questo ai miei desideri? perché, silenziosa luna?
Il Terzo, il Parlante, dice Lacan, è al di là dell’ego – altro da Colui che crede di essere il solo soggetto in scena. Al di là di Freud, al di là delle sue triadi immaginarie, al di là del suo Narciso, c’è il Terzo, l’Eco incorporea che parla. A parlare è la Metafora Umana – la potenza illusoria, trascendente, della Lingua Umana.
Illusoria quanto vuoi, insensata quanto ti pare, e tuttavia essa è la sola che sa e può «curare» le ferite di Narciso.
L’abbiamo fatta tutti da bambini questa scoperta. Là dove abbiamo trovato chiusa la via alle nostre immaginazioni (a quei tempi, ancora senza parole) – là dove le tre «fiere» ci hanno sbarrato il cammino: di qui non passerai – abbiamo bussato alla porta del Palazzo della Casa in fondo al mare della nostra mente, e abbiamo chiesto aiuto: da che parte si esce?
L’abbiamo chiesto a parole. Abbiamo parlato. E a parole ci è stato detto: no, da qui non si esce! Non ne siamo più letteralmente usciti, da quella disperazione … se non scoprendo la chance di ambiguità che ci offrivano le parole, nell’atto stesso in cui pure noi prendemmo a parlarle. La scoprimmo dentro di noi – la udimmo, la Voce, la sorprendemmo a fare eco a ciò che il Terzo, in una filastrocca qualunque, aveva detto là fuori.
Non si esce dal niente, se non infilandosi nel cuneo lunatico dell’insensata Risposta originaria. Non se ne esce, se non facendo il solletico alla lettera di ciò che ci fu risposto allora.
Guai a prenderla alla lettera. Cos’altro è la nevrosi? Cosa, se non un essere rimasti invischiati nella lettera di una parola dell’Altro? La stessa parola «niente» che, presa alla lettera, è così spaventevolmente tragica – udita dalla luna, è la parola più ridicola. E ogni bambino che si trovi prigioniero nella Caverna di Polifemo può, come Odisseo, avere l’astuzia di attribuire a se stesso il nome di Nessuno, anziché rispondere ingenuamente alle domande che l’Altro, strafottente e ubriaco, gli fa per bocca del Ciclope.
Non si può uscire dall’insensatezza se non in modo insensato. Se non cogliendo la comicità di chi dalla luna dispettoso risponde: se ti mangio è senza una ragione.
La capacità a ciascuno di noi congenita, di simboleggiare – di parlare per simboli, tramite segni di Cornice (C): eccola la Luna!
Ecco fin dove rotola la Testa di Roland. Dall’agguato di Roncisvalle, rotola per tutta la chanson de geste, lungo tutto il filo del suo gomitolo di parole – fino a che non trova la sua ampolla che fuma lassù (AZ o N) dove s’infumano tutti i narcisi acerbamente recisi nel cuore vivo della loro immaginazione.
S’arrampicano, che sono ancora sanguinanti. Teste rotolanti … una delle quali lo porta ancora scritto nel nome: Roland – anche se solo Ariosto seppe capire perché.
Perché non c’è via d’uscita dalla tragedia, se non tornando là dove la tragedia ebbe inizio «per niente», per dare ascolto, là sul posto, alle risonanze comiche della lettera di questo «niente».
Il che vuol dire tornarci sì, ma non in cerca di una soluzione sensata, di un significato letterale, di una definizione ultimativa della propria o altrui nevrosi – ma per avere l’occasione di scoprire la comica, la goffa, spiritosa insussistenza delle pretese del Terzo … inscritta alla radice della nostra stessa attitudine alla parola – della nostra geniale e congenita tendenza a prendere la «via di fuga» aperta dalla Parola.
Se, dunque, il Terzo è là fuori – se davvero è l’Avvoltoio ai cui artigli ogni bambino ha, innata, l’astuzia ad aggrapparsi per sfuggire allo smarrimento del suo Narciso (dico: agli artigli dell’Avvoltoio che ha divorato il suo Passato narcisistico) – nondimeno esso è dentro ciascuno di noi.
Ogni «io» lo è, e non lo è – il Soggetto di ciò che dice. È Se Stesso e l’altro: se stesso e il SI stesso dei «si dice». È così dacché ha scoperto in Se Stesso la facoltà di simboleggiare, l’«anima loquente» come la chiamavano i Dottori nel Medioevo. È così dacché si è vestito di segni e di parole.
Da allora la Parola fa e disfa le sue tragedie – le sue nevrosi, le sue fissazioni, insieme dentro e fuori di noi. Sempre dislocata nella distanza che separa Odisseo da Penelope. Lui troppo «donnaiolo», lei invece troppo «scontrosa».
A Penelope gli spasimanti hanno chiesto: perché non sposi il migliore di noi?
Ho da terminare l’interminabile tela delle mie immaginazioni – ha risposto lei. Ha detto che, la sua ragnatela, lei vuole continuare a essere libera di farla e di disfarla.
Ma perché fai così? – gli ha domandato quello che credeva di essere il migliore dei Proci tra i Dottori della nevrosi.
Così, per niente – ha risposto lei.
Comprendi? Il niente è tutto ciò che la mantiene legata al suo sposo: Nessuno.