Cashinawa – L’origine della luna

indio-arciere

Due tribù si facevano guerra.
Un giorno, un indio incontrò un nemico e pensò di fuggire, ma l’altro cercò di lusingarlo offrendogli un grosso pacco di frecce. Lo invitò poi ad accompagnarlo al suo villaggio a far visita alla moglie che, disse, sarebbe certo stata felicissima di accogliere un ospite straniero. Tutto contento, l’indio strinse nel pugno le frecce e si mise in testa il suo ornamento di piume. Per strada, si fermò col compagno a mangiare alcuni frutti che gli annerirono i denti.

Arrivati davanti alla capanna, l’invitato esitò, perché si sentiva intimidito. La sua guida lo incoraggiò, e l’uomo si rassettò: riordinò i capelli con un pettine, si mise i braccialetti e tutti gli altri suoi ornamenti.
Fu attaccata un’ottima amaca perché si riposasse, e la donna servì un abbondante pasto che i due uomini non riuscirono a finire. L’invitato fu invitato a impacchettare i resti e di portarli a casa sua.

Al momento di accomiatarsi, il suo ospite, sempre pieno di premure, insisté per accompagnarlo per un pezzo di strada. Siccome prendeva le armi e un grosso coltello da boscaglia affilatissimo, l’indio cominciò a preoccuparsi.
Gli fu risposto che serviva per tagliare un pezzo di legno e fabbricare un bastone da Caravaggio-testa-Golia-dettaglioscavo. Ma l’indio, carico di vettovaglie, non andò lontano: morì con la testa tagliata; il corpo restò in piedi, vacillò un istante, poi cadde.

Vedendo che la testa continuava a sbattere gli occhi, l’assassino la infilò su un paletto piantato in mezzo al sentiero e se ne andò.
Sopraggiunse un altro indio, compatriota della vittima, che rimase atterrito alla vista della testa coi lunghi capelli che volteggiavano al vento. La testa non era morta: gli occhi brillavano, le palpebre sbattevano, dagli occhi sgorgavano le lacrime, la bocca si muoveva ma non poteva rispondere alle domande di chi la interrogava.

L’indio tornò al villaggio a chiedere aiuto.
Ben armati, i guerrieri andarono in cerca della testa; l’assassino, che non era lontano, si arrampicò su un albero per osservare il seguito degli avvenimenti.
Quando i compagni della testa ne ebbero abbastanza di piangere con lei, inumarono il corpo e la misero in un cesto. Fatica sprecata: la testa rodeva il fondo coi denti e cadeva. Dopo parecchi altri tentativi, qualcuno ebbe l’idea di tenerla stretta fra le braccia, ma quella morse spietatamente il suo portatore.

Scoraggiati, gli uomini la abbandonarono e fuggirono. Essa rotolò dietro di loro senza lesinare rimproveri. Fu necessario attraversare il fiume; anche la testa l’attraversò. I fuggiaschi si arrampicarono su un grande albero da frutto che sovrastava l’argine; la testa li vide e si accostò ai piedi dell’albero. Pretese dei frutti; gliene gettarono di acerbi, ma quella li volle maturi e, appena li ebbe inghiottiti, le uscirono dalla gola tagliata.
Non si lasciò ingannare quando le gettarono dei frutti nel fiume pensando che sarebbe annegata; ma un indio ebbe l’idea di gettarglieli a una certa distanza: così la testa si allontanò quanto bastava perché gli uomini potessero scendere e riprendere la corsa.

Si erano chiusi tutti quanti nelle loro capanne quando la testa, sempre rotolando, arrivò al villaggio.
Piangendo, li supplicò di aprirle e di restituirle la sua roba. Quelli acconsentirono a de-chirico-manichinogettarle i gomitoli di filo attraverso una piccola apertura.

«Che cosa posso diventare? – si chiese la testa. – Se divento verdura o frutta, mi mangeranno. Se divento terra, cammineranno sopra di me. Se divento un orto, lo semineranno e mangeranno le piante quando saranno cresciute. Se divento acqua la berranno. Un pesce? Lo mangeranno. Veleno da pesca? Se ne approprieranno per diluirlo, e grazie a esso mangeranno i pesci catturati. Selvaggina? La uccideranno e la mangeranno. Un serpente? Ma gli uomini mi odieranno, così io li morderò ed essi mi uccideranno. Un insetto velenoso? Pungerò gli uomini, e mi uccideranno ugualmente. Un albero? Mi abbatteranno, e quando sarò secco mi taglieranno a pezzi ottenendo legna da ardere per cucinare e nutrirsi. Un pipistrello? Vi morsicherò nell’oscurità, così mi ucciderete. Il sole? Ma in questo modo potrò riscaldarvi quando avrete freddo. La pioggia? Cadrò, i fiumi ingrosseranno, e voi pescherete il pesce buono da mangiare, oppure farò crescere l’erba di cui si nutrirà la selvaggina. Il freddo? Ma allora, quando farà troppo caldo, potrò rinfrescarvi. La notte? Ma in questo caso potrete dormire. Il mattino? Ma così sarò io a svegliarvi affinché possiate attendere alle vostre occupazioni. Cosa sarò dunque? Ho un’idea! Col mio sangue farò l’arcobaleno, sentiero dei nemici; coi miei occhi, le stelle; con la mia testa, la luna. E allora le vostre mogli e le vostre figlie perderanno sangue».

«Perché mai?», chiesero le donne spaventate.
E la testa rispose: «Così, per niente».

La testa raccolse il proprio sangue in una coppa e ne spruzzò il cielo: il liquido, colando, tracciò il sentiero degli stranieri. Poi si cavò gli occhi, che diventarono innumerevoli stelle. Infine, consegnò all’avvoltoio i gomitoli di filo, e quello se ne servì per farla salire fino allo zenit.
Gli Indios uscirono tutti dalle capanne per contemplare l’arcobaleno e, quando sopraggiunse la notte, la luna piena e le stelle che brillavano per la prima volta.
Allora le donne cominciarono ad avere le mestruazioni, fecero all’amore coi mariti e rimasero incinte.

***

Tarasova-luna

Si conoscono altre due versioni di questo mito: una racconta brevemente come la testa di un guerriero decapitato durante un attacco notturno si trasformò in luna: essa precisa che le donne ottennero il potere di generare soltanto dopo la simultanea comparsa della luna e delle mestruazioni. Al momento della nascita, tutti i bambini (o forse quelli concepiti durante il plenilunio – il testo è di difficile interpretazione) avranno «il corpo nerissimo».
Dobbiamo vedere in questo particolare un riferimento alla macchia pigmentaria congenita (detta «mongolica»), che è frequente in Sudamerica e che il pensiero indigeno avvicinerebbe così alle macchie lunari?

L’altra versione innesta l’episodio della testa trasformata in luna su un intreccio a prima vista diverso.
Un tempo, dice, non c’erano né la luna, né le stelle, né l’arcobaleno, e la notte era completamente oscura. Questa situazione mutò a causa di una ragazza che non si voleva sposare. Si chiamava /jaça/ [cfr. tupi /jacy/, «luna»].
Esasperata dalla sua ostinazione, la madre la cacciò via.
La ragazza errò a lungo piangendo, e quando volle rientrare in casa, la madre si rifiutò di aprirle: «Non ti resta che dormire fuori – gridò. – Così imparerai a non volerti sposare!».

Disperata, la ragazza correva su e giù, batteva alla porta e singhiozzava. La madre si infuriò talmente per questo comportamento che prese un coltello da boscaglia, aprì alla bimba-piangefiglia e le tagliò la testa che rotolò per terra. Poi andò a gettare il corpo nel fiume.
Durante la notte la testa rotola gemendo intorno alla capanna. Dopo essersi interrogata sul suo avvenire (come l’indio del nostro mito), essa decide di trasformarsi in luna.
«Così – pensò – mi vedranno solo da lontano».

Promette alla madre di non serbarle rancore a patto che le dia i suoi gomitoli di filo. Con questo filo si fa trasportare fino al cielo dall’avvoltoio, tenendo un capo coi denti. Gli occhi della donna decapitata diventano le stelle, e il suo sangue l’arcobaleno.
D’ora in poi le donne perderanno sangue ogni mese, poi il sangue si coagulerà e nasceranno bambini con il corpo nero. Ma se si coagulerà lo sperma, i bambini nasceranno bianchi.

(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)

***

Finché la testa (la Chioma di Berenice) è sul collo, è per così dire in posizione relativamente alta. Ma dal momento in cui viene tagliata via dalla metà inferiore del corpo (le viscere: Pleiadi; gli arti inferiori: Orione), essa cade in basso e può, al più, rotolare per terra e disperarsi.
Che ne sarà di me? – è il lamento che accomuna la testa dell’indio del primo racconto a quella, altrettanto rotolante, della ragazza scontrosa della seconda variante.

Rotolano, come si può ben vedere, in un’incertezza sul loro avvenire: «cosa diverrò [da grande]?» (si chiede ogni bambino appena «decapitato» del suo linguaggio immaginario).
Presa nel gorgo delle parole, la testa mozzata prende in esame mille e mille possibilità «esistenziali» (diverrò un frutto, un fiore o chissà che cosa), ma dopo averle tutte – una per una – elencate, finisce subito per scartarle, in quanto poco o per nulla nocive agli uomini, ma soprattutto perché alla loro portata.

Una volta traumaticamente infranta la sua Immagine, la testa si trova a vivere una lunga stagione d’indecisione, fino a quando non prende la sola via che le parole le lasciano funambolo-luna«aperta», la via che la porta lassù, in cielo – più in alto, molto più in alto di quanto si trovasse prima, allorché era attaccata all’altra metà del suo corpo.
Ed eccola, la Testa [infantile], che si arrampica sulle parole svolgendo il «filo d’un gomitolo» [del Discorso]. Eccola che, per dispetto, si va a situare fuori della portata dei suoi «persecutori», in una posizione, dunque, assolutamente alta. In una lontananza «irraggiungibile». La Testa (lo sa bene Astolfo) va a rifugiarsi sulla luna.

Non sarà l’ippogrifo a darle una mano. I sudamericani sono troppo realisti per non chiamare in causa l’Avvoltoio: essi ci tengono a dire che sì la Testa è impazzita, ma che questa «pazzia» non è che il risvolto eufemistico della sua «morte».
Il bambino è morto al suo (originario) linguaggio immaginale: perciò andate a chiamare l’Avvoltoio – sta a lui finirlo, a lui raccogliere il «canto delle sue ossa». A lui, l’ultimo lascito di quel «linguaggio senza parola», a cui si appella il Poeta!

Andarsene sulla luna, per fare dispetto al prossimo! Ecco la via, secondo quanto dice, alla lettera, il racconto dei Cashinawa. A chi alla Testa Rotolante domanda: perché ci fai questo? – lei risponde: «Così, per niente».
Non c’è infatti nessuna «ragione» perché la Testa del Bambino faccia questo. O, a voler essere pignoli, se una Ragione c’è – è nel Discorso che non le offre altra soluzione che l’artificio surreale delle sue parole.
Il Discorso le apre, anzi le spalanca dinanzi la via degli indovinelli: «cosa vuoi fare da grande?». O anche: «Cosa vuoi, cosa desideri diventare?».

Orione-Pleiadi-Chioma-Luna

Mia cara (lunatica) Testa, sei staccata dal mio Corpo. Mia Chioma di Berenice, se vuoi ricongiungerti con le tue Pleiadi e il tuo Orione – d’ora in poi hai da passare per la Stazione irraggiungibile alla tua propria immaginazione.
Il tuo senno, come il senno di tutti i bambini decapitati e impazziti, non è più qui, ma lassù sulla luna, in una di quelle infinite ampolle fumose … che sono le parole.
Succede così a tutti i Narcisi, a tutti i fiori recisi traumaticamente – di cercarsi cioè un futuro al di là del loro linguaggio immaginale. Sicché, agli eredi postumi di Narciso tocca questa «necessità» tutta e solo umana, questa «seconda natura» che li obbliga, per andare dalla Chioma di Berenice fino al tallone di Orione, a passare per la Luna. Per andare da un’immagine all’altra della loro perduta immaginazione senza parola, li obbliga d’ora in avanti a passare per la non-costellazione dei simboli e delle parole.