Bretagna – La morte di re Artù

Venuta la sera, a Douvres, mentre re Artù dormiva nel proprio letto, credette di vedere il nipote Galvano venirgli incontro, più bello di come l’avesse mai visto e seguito da una folla di povera gente che gridava: «Re Artù, abbiamo conquistato l’ingresso della casa di Dio per tuo nipote, a causa del bene che ci fece da vivo! agisci come lui, e farai cosa saggia!».
Intanto messer Galvano s’avvicinava al re e dopo averlo abbracciato gli diceva: «Signore, Coëtivy-ruota-fortunaguardatevi dal combattere Mordret con la vostra stessa persona, ché da lui sareste ferito a morte!».
«Bel nipote, dovessi anche morirne, lo combatterò – rispondeva il re – ché sarei inetto se non difendessi la mia terra da un traditore. Per l’anima di mio padre Uter Pendragon, giuro che non indietreggerò!».
A queste parole, messer Galvano s’allontanava menando il più gran duolo del mondo.

Poco dopo, il re addormentato credette di vedere una dama molto bella prenderlo per i fianchi e farlo sedere su un seggio alla sommità d’una immensa ruota.
«Artù – gli diceva la dama – sappi che ora ti trovi sulla Ruota della Fortuna. Cosa vedi?».
«Signora, mi sembra di scoprire il mondo intero».
«Lo vedi. E tu sei stato uno dei più potenti di questo mondo. Ma non v’è alcuno che, per quanto in alto sia posto, non debba un giorno cadere».
Dopo di che, la bella dama faceva girare la ruota e il re cadeva così proditoriamente che gli sembrava d’essersi rotto tutto.

Al mattino, quando si fu svegliato, si fece il segno della croce in viso ed esclamò: «Bel Padre Gesù Cristo che avete concesso che io avessi tanto onore in questo mondo, non permettete, dolce Signore, che io perda questa battaglia, ma datemi la vittoria sui miei nemici spergiuri e sleali!».
Poi andò ad ascoltar messa e a confessarsi di tutti i suoi peccati a un arcivescovo. Dopo di che si mise in marcia con le sue genti.

Due giorni più tardi giunse nella piana di Salisbury; era il posto più bello e più vasto che si potesse trovare per una battaglia, ed egli voleva aspettare là Mordret. Dopo il desinare, mentre i suoi uomini drizzavano le tende, andò a passeggiare nella landa e, passando accanto a una roccia grande e dura, vi vide incise delle lettere che sembravano antiche: «In questa piana avrà luogo la battaglia mortale che lascerà orfano il regno di Logres».
Così dicevano le lettere, e ve le aveva scritte un tempo Merlino. Quando il re le ebbe lette, abbassò il capo, ché ben sapeva che predicevano chiaramente la sua morte; pure giurò che non sarebbe tornato indietro.

battaglia-fuoco

Ora, il racconto dice che i Sassoni, che odiavano re Artù a morte, erano giunti in aiuto di Mordret, e che con lui vi era anche una folla di cavalieri di Scozia, d’Irlanda e del Galles: sì che la sua armata contava due volte più uomini di quella del re.
Quando le sue genti sbucarono nella piana di Salisbury, trovarono i nemici ad attenderli schierati su dieci ranghi i cui pennoni garrivano al vento. Allora avreste visto tutte le lance abbassarsi assieme, e le due avanguardie slanciarsi l’una contro l’altra, e morire molti valentuomini che non l’avevano meritato, ché in pochi istanti la terra fu coperta di cavalieri uccisi, feriti o abbattuti, e molti buoni cavalli galopparono in libertà.

Ah! che duro scontro! E quando le lance furono spezzate, le spade balenarono, fiaccole di guerra, e i cavalieri cominciarono a tranciar spalle, gambe e braccia, e a immergere le lame nei cervelli, attraverso gli elmi.
Fu quello l’inizio della grande battaglia in cui il regno di Logres fu distrutto, ché non vi restavano più altrettanti valentuomini quanti ve n’erano stati un tempo, e quasi tutti quelli che erano rimasti perirono quel giorno. […]

A terza, nella pianura non restavano più di duemila armati: tutti i ranghi erano distrutti, salvo quello di re Artù e quello di Mordret, che non erano ancora intervenuti. Il re fece salire un ragazzo su un albero, e quando seppe che le genti di Mordret erano due volte più numerose delle proprie: «Ah! – disse. – Bel nipote Galvano, fosse piaciuto a Dio che in quest’ora foste stato al mio fianco, con Lancillotto!».
S’avvicinò ai compagni della Tavola Rotonda, di cui ne restavano settantadue, e li pregò Camelot-stendardodi non dividersi, ma di combattere insieme e di assicurare l’onore del regno come meglio potevano.

«Sire – essi risposero – non v’è alcuno tra noi che non vi aiuti fino alla morte».
Allora il re fece issare il proprio stendardo da Keu il siniscalco: poi, vedendo che Mordret s’avvicinava in mezzo al clamore dei corni, dei tamburi e delle buccine, si fece il segno della croce, prese lo scudo e la lancia, e ordinò ai suoi d’avanzare.
I due ranghi s’urtarono con tale fracasso che avreste creduto di sentir crollare la terra intera. Appena il re vide Mordret, si volse verso di lui, e l’altro non si rifiutò; anzi, colpì per primo e trafisse lo scudo. Ma il giaco era di buona qualità e il re ben saldo in sella al punto che non ne fu scosso: al contrario urtò il traditore con tale forza che rovesciò l’uomo insieme al cavallo; pure, le sue genti non poterono impedire che Mordret fosse rimesso in sella dai suoi.

Spezzate le lance, balenarono le spade, e presto avreste visto i cavalieri piegarsi come spighe mature, di modo che verso l’ora nona non ne restavano più di quaranta. Tutti i compagni della Tavola Rotonda erano uccisi, salvo re Artù, Lucano il coppiere, Keu il siniscalco, Giflet figlio di Do e Dodinel il Selvaggio, e tutti avevano piaghe grandi e piccole; soprattutto Dodinel era sì ferito che riusciva a malapena a tenersi in sella. Ma tutti preferivano morire che lasciar la vittoria agli altri; ancora una volta, dalle due parti, i valentuomini allentarono le briglie e diedero di sprone.

Dodinel, benché molto indebolito dalle ferite, si volse verso Mordret; ma l’altro, che era sano e riposato, interpose lo scudo e d’un sol colpo gli fece volare la testa a una distanza maggiore della lunghezza d’una lancia: e certo, fu gran peccato.
E allo stesso tempo un cavaliere del Northumberland affrontava re Artù di lato e lo colpiva allo scoperto al fianco sinistro: l’avrebbe ferito gravemente, ma Nostro Signore volle che non si rompesse alcuna maglia del giaco e che il re rotolasse a terra senza danno. Mentre i suoi uomini lo facevano rimontare in sella, Keu il siniscalco si lanciò all’inseguimento del cavaliere e gli trafisse il viso fino alle orecchie. Ma Mordret irato corse addosso a Keu e, alzata la spada a due mani, gli fece assaggiare l’acciaio attraverso il cervello.

«Ah! glorioso Dio – disse il re vedendo ciò – perché permetti che uno degli uomini più Artù-Mordret-duelvalenti del mondo sia ucciso dal più traditore?».
Prese una lancia grossa e robusta, e di nuovo, a tutta la velocità concessa dal cavallo, si volse contro Mordret. Ora, sappiate che questa volta trafisse lo sleale da parte a parte: tutto il ferro e un buon piede del legno uscirono dalla schiena, e Giflet vide un raggio di sole attraversare il corpo insieme alla lancia, e le genti del paese dissero in seguito che era stato un segno del corruccio di Dio. Ma allo stesso tempo Mordret conficcava il freddo acciaio nel fianco del re Artù: così il padre uccise il figlio e il figlio ferì a morte il padre.

Quando i compagni di re Artù lo videro cadere e il suo sangue sgorgare, lo credettero morto e provarono allora il più gran dolore che cuore mortale possa soffrire. Di nuovo, si gettarono sulle genti di Mordret, e la mischia crudele e fellona durò fino a che, oltre al re, non rimasero nella landa che due uomini vivi: Lucano il coppiere e Giflet figlio di Do.
Essi tornarono nel luogo in cui avevano visto cadere il loro signore, e lo trovarono seduto!
«Sire – dissero stupefatti – come vi sentite?».
«Ahimé! non voglio morire in mezzo ai miei nemici! Andiamo verso il mare vicino».

Essi lo issarono su un cavallo e, sostenendolo come meglio potevano, a vespro giunsero davanti a una cappella che aveva nome la Cappella Nera, vicina al mare. Il re andò a prosternarsi davanti all’altare dove prese a recitare tutte le orazioni che conosceva, e per tutta la notte pregò Nostro Signore d’aver pietà dei suoi uomini che erano stati tutti uccisi.
Al mattino, Lucano il coppiere e Giflet figlio di Do entrarono disarmati, e Lucano, visto il suo signore steso immobile, le braccia in croce, lo credette spirato. Si gettò in ginocchio e: «Ah! re Artù – esclamò – è gran sventura che tu sia morto!».

Ma il re si sollevò a fatica, ché l’armatura che ancora indossava lo appesantiva, e abbracciò il coppiere disarmato, e non per corruccio, ma per angoscia e amore, lo serrò sì forte contro il petto che tutto lo schiacciò senza accorgersene, e gli spaccò il cuore. Così l’anima di Lucano abbandonò il suo corpo; quando il re lo lasciò, egli cadde morto.
«Sire – esclamò Giflet – avete mal fatto!».

Hughes-Artù

A tali parole il re si guardò intorno e, quando vide Lucano disteso in terra, si mise a piangere: «Ahimé – sospirò – la Fortuna che finora m’era stata madre amorosa e amica, vuole che io passi nel dolore le ultime ore di vita! Giflet, sellate il cavallo e partiamo da qui».

A mezzogiorno raggiunsero la riva del mare. E là re Artù smontò, poi si tolse la spada, la estrasse dal fodero e, dopo averla a lungo guardata, disse tristemente: «Excalibur, buona spada, la migliore che vi sia mai stata, salvo quella dalle strane cinghie, stai per perdere il tuo padrone e giusto signore! Solo Lancillotto sarebbe degno di portarti. Ah! piacesse a Gesù Cristo che egli potesse averti: la mia anima ne sarebbe più gioiosa! … Giflet, dietro a quella collina troverete un lago: andate a gettarvi la mia spada».
«Sire, farò come ordinate. Ma sarebbe meglio, se tale fosse il vostro piacere, che me ne facciate dono».
«No, certo», rispose il re.

Giflet prese la spada; ma quando fu sulla riva del lago, estrasse la lama per guardarla e, vedendola sì lucente e sì bella, pensò che perderla sarebbe stato danno troppo grande.
«È meglio che io getti la mia e tenga questa», si disse e, posata Excalibur sull’erba, lanciò Giflet-Excaliburnel lago la propria spada; dopo di che tornò accanto al re.
«Sire, ho fatto quel che mi ordinaste».
«E cosa hai visto?».
«Solo cosa buona».
«Giflet, senza motivo mi dai afflizione e pena. Torna al lago e gettavi la mia spada».

Giflet tornò sui suoi passi, pensando che avrebbe fatto affondare il fodero, ma non la lama. E così fece, ma quando fu di nuovo davanti al suo signore: «Cosa hai visto?», chiese il re.
«Sire, solo cosa naturale».
«Vuol dire che non l’hai ancora gettata! Vattene, e fa’ quel che t’ho ordinato: è peccato tormentarmi in tal guisa!».

Allora il figlio di Do, pieno di vergogna, andò per la terza volta sulla riva del lago e, quando ebbe in mano la spada buona e bella, brillante come un carbonchio, si mise a piangere; pure, la gettò lontano quanto poté.
Ora, nel momento in cui stava per toccare l’acqua, egli vide uscire una mano che l’afferrò per l’impugnatura e la brandì tre volte, poi tutto disparve sotto l’onda. Attese a lungo, ma non vide altro che l’acqua increspata.
«Bene – disse il re quando seppe quel che era accaduto. – Ora, dolce e bello amico, dovete partire e lasciarmi. E sappiate che non mi rivedrete mai più».

A tali parole, Giflet ebbe gran duolo: «Ah! sire, come potrei abbandonarvi in tal guisa e non vedervi più! Il mio cuore non potrebbe sopportarlo. Devo vivere o morire con voi».
«Ve ne prego – disse il re – per l’amore che sempre v’è stato tra di noi!».
Allora, con le lacrime agli occhi, Giflet figlio di Do s’allontanò sul suo destriero. E sappiate che, quando fu a un quarto di lega, prese a piovere sì forte che dovette ripararsi sotto un albero. Ma, passato il temporale, guardando verso il mare vide avvicinarsi una bella nave, tutta piena di avvenenti dame, che prese terra non lontano dal luogo dove egli aveva lasciato il re suo signore. Una delle dame, che era Morgana la Fata, chiamò e il re s’alzò, poi, tutto armato, seguito dal cavallo, salì sulla nave che gonfiò le vele al vento e volò via come un uccello.

Artù-Giflet

Il racconto dice che andò diritta all’isola di Avalon, dove re Artù vive tuttora coricato su un letto d’oro: i Bretoni ne aspettano il ritorno. E così si avverò la profezia di Merlino, che aveva predetto che la fine del re sarebbe stata incerta.
Per due giorni e due notti Giflet pianse senza bere né mangiare. Poi, il terzo giorno, al mattino, appena gli uccelli cantarono, mise le briglie al destriero e tornò alla Cappella Nera. E appena vi fu entrato, scorse davanti all’altare una ricca tomba, sulla quale delle lettere dicevano: «Qui giace Lucano il coppiere, che re Artù strinse a morte contro il proprio petto».

Appena le ebbe lette, il figlio di Do cadde svenuto; poi andò a trovare i monaci che facevano servizio nella cappella, e disse loro che non voleva restare nel mondo, poiché non v’erano più né il re né alcuno dei suoi compagni, e li pregò di vestirlo degli abiti sacri. Ma non li tenne molto, ché poi non visse più di diciotto giorni.

(La morte di Artù, 36-39)