Deleuze – Abitudine e ripetizione

È proprio noioso infilarsi sempre prima la camicia e poi i calzoni e di sera a letto e di mattina trascinarsi fuori di nuovo e mettere sempre un piede davanti all’altro; e non c’è assolutamente nessuna speranza che tutto ciò possa mai cambiare. Molto, molto triste, è che milioni l’hanno già fatto e che milioni lo faranno e che noi oltretutto consistiamo di due metà, che fanno tutt’e due la stessa cosa, sicché tutto accade due volte; triste, molto triste.
(Büchner, La morte di Danton, atto II, scena 1ª)

A che servirebbe la legge morale, se essa non santificasse la reiterazione, se essa non la rendesse possibile, conferendoci un potere legislativo da cui ci esclude la legge di natura?
Accade allora che il moralista presenti le categorie del Bene e del Male sotto le seguenti specie: ogni volta che noi tentiamo di ripetere secondo la natura come esseri della natura surreal-creazione(ripetizione di un piacere, di un passato, di una passione), ci lanciamo [a suo dire] in un tentativo demoniaco, già maledetto, che non ha altro esito che la disperazione e il tedio.
Il Bene, al contrario, ci darebbe la possibilità della ripetizione, e del successo della ripetizione, poiché esso dipenderebbe da una legge che non sarebbe più quella della natura, ma quella del dovere, e di cui non saremmo soggetti senza essere anche legislatori, come esseri morali. E ciò che Kant chiama la prova più alta, che cos’è se non una prova del pensiero chiamato a determinare ciò che può essere riprodotto di diritto, vale a dire ciò che può essere ripetuto senza contraddizione sotto la forma della legge morale?

L’uomo del dovere ha inventato una «prova» della ripetizione, ha determinato ciò che poteva essere ripetuto dal punto di vista del diritto. Egli ritiene dunque di aver vinto a un tempo il demoniaco e il tedioso.
E come un’eco delle preoccupazioni di Danton, come una risposta a tali preoccupazioni, non c’è forse una punta di moralismo persino nello stupefacente reggicalze che Kant si era confezionato, in quell’apparecchio a ripetizione che i suoi biografi descrivono con tanta precisione, come nella fissità delle sue passeggiate quotidiane (nel senso in cui la negligenza del vestire e l’assenza di esercizio fanno parte dei comportamenti la cui massima non può senza contraddizione essere pensata come legge universale, né dunque costituire l’oggetto di una ripetizione di diritto)?

Ma è proprio questa l’ambiguità della coscienza: essa non può pensarsi se non ponendo la legge morale come esteriore, superiore, indifferente alla legge di natura, ma essa può pensare l’applicazione della legge morale solo restaurando in se stessa l’immagine e il modello della legge di natura.
Sicché la legge morale, lungi dal darci una vera ripetizione, ci lascia ancora nella generalità. La generalità, questa volta, non è più quella della natura, ma quella dell’abitudine come seconda natura. È vano invocare l’esistenza di abitudini immorali, di cattive abitudini; ciò che è morale essenzialmente, ciò che ha la forma del bene, è la forma dell’abitudine o, come diceva Bergson, l’abitudine di prendere delle abitudini (tutto il pacchetto di obbligazioni). […]

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L’abitudine non dà mai luogo a ripetizione vera e propria: ora è l’azione che muta, e si perfeziona, in quanto un’intenzione resta costante; ora l’azione resta uguale, nell’ambito di intenzioni e di contesti diversi. Qui ancora, se la ripetizione è possibile, essa non appare che tra queste due generalità, di perfezionamento e d’integrazione, sotto queste due generalità, salvo poi a rovesciarle, testimoniando una potenza ben diversa.
Se la ripetizione è possibile, lo è tanto contro la legge morale quanto contro la legge di natura.

Si conoscono due maniere di rovesciare la legge morale. O, risalendo ai princìpi, si contesta l’ordine della legge come secondario, derivato, mutuato, «generale»; si denuncia nella legge un principio di seconda mano, che devia una forza o usurpa una potenza originali. Oppure, al contrario, la legge è tanto meglio rovesciata quanto più si discende verso le conseguenze, a esse sottomettendosi con una minuzia troppo perfetta: è a forza di sposare una legge che un’anima falsamente sottomessa giunge ad aggirarla, e a Gore-ironiagustare quei piaceri che si supponeva dovesse proibire, come ben si vede in tutte le dimostrazioni per assurdo, negli scioperi bianchi, ma anche in taluni comportamenti masochisti di derisione per sottomissione.

La prima maniera di rovesciare la legge è ironica, e l’ironia vi appare come un’arte dei princìpi, del ritorno ai princìpi, e del rovesciamento dei princìpi. La seconda è l’«humour», che è un’arte delle conseguenze e delle discese, delle sospensioni e delle cadute.
Si deve forse concepire la ripetizione che sorge in questa sospensione e in questo ritorno, nel senso che l’esistenza si riprende e si «reitera» in se stessa, dal momento che essa non è più costretta dalle leggi?
La ripetizione appartiene all’«humour» e all’ironia; essa è per natura trasgressione, eccezione, esibizione di una singolarità contro i particolari sottomessi alla legge, un universale contro le generalità che fanno legge.

(Deleuze, Differenza e ripetizione)

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La morale santifica l’abitudine: la rende praticabile e la innalza a comma di legge. Fa, dunque, di noi dei «legislatori» a dir poco presuntuosi: ci attribuisce cioè un potere che presumiamo congenito alla nostra natura, ma che è in realtà la nostra «seconda natura». Quella «natura» che è la pelle di cui ci vestiamo (la foglia di fico del Pudore) all’uscita dal paradiso inconscio, una volta partoriti «dalla coscia di Zeus» alla nostra «seconda nascita», a quella che ci inizia all’umano.

Circolo vizioso. Il vizio di non uscire più dal circolo del bene e del male. Di non riuscire più a immaginarci senza leggi, al di là della Legge – non contro la Legge a praticare i desideri «proibiti», ma prima che la Legge ci acciuffasse nella sua rete di tabù e proibizioni. Prima che la Lingua di una Gente ci catturasse nelle sue abitudini – nei suoi conformismi e nelle sue mode. Al di là di ogni legge, di quella morale come di quella di natura – prima dunque d’essere iniziati all’Umano e a una sua lingua «sociale».

Ma chi c’era a quei tempi, là dove adesso «legifera» un io?
Non c’era nessun «io», fino al tempo della «seconda nascita»: fino a quando Narciso non venne a sapere di se stesso.

Narciso-affogato

Là dove Narciso annega, là dove tramonta il suo linguaggio immaginale (il linguaggio della sua immaginazione ancora vergine di segni e di parole), là dove il suo desiderio «naturale» è irrimediabilmente offeso – là nasce l’«io». Nasce nella presunzione (che la «seconda natura» gli dà) di legiferare il suo destino, la sua mitologia – di poterlo fare grazie al nuovo linguaggio a cui è iniziato: il linguaggio simbolico, questo o quel dialetto di segni e di parole, il tale o talaltro «pacchetto di obbligazioni».

Un’obbligazione, quale che sia, è sempre morale: dovuta, cioè, a un’abitudine che si eredita sin dai tempi, dice Nietzsche, in cui eravamo ancora animali.
Tempi remoti e rimossi – tempi, egli dice, al di là del bene e del male: non immorali, ma non ancora morali, in via di moralizzarsi. Tempi non colpevoli, ma neanche così innocenti come i nostalgici amano rappresentarselo. Tempi che ci videro in cammino verso la Legge – animali abitudinari: animali che già allora avevano l’abitudine di sentire la fame. E come «corollario» avevano l’istinto a mimetizzarsi per «sedurre» il cibo.

Quell’istinto aveva già il suo piacere – la sua libido. Per soddisfarlo, però, bisognava andare a caccia o a pesca della Preda, reale o immaginale che fosse. Come esseri naturali non facevamo altro che prendere l’abitudine che più e meglio ci consacrava alla sazietà.
La nostra bocca «si sposava» a quei tempi con tutte le seduzioni possibili e immaginabili: cfr. le nozze esogamiche di Monmaneki. Senza fare distinzioni, essa si esponeva così al dispiacere dei cibi «tossici», o perlomeno troppo «forti» per il suo palato. Narciso però voleva a ogni costo fare all’amore con la sua immagine – con la Matrice di tutte le Salazar-specchioseduzioni che gli sarebbe mai capitato d’incontrare. Non fu un dispiacere. Fu un tragico dispiacere – dover fare i conti con l’impossibilità di realizzare il suo sposalizio «onnipotente».

Perciò, dice Freud, l’«io», l’erede di Narciso, impara a spostare la sua libido su un altro «oggetto di desiderio», su un altro «idolo», che non è più la sua propria immagine … destinata, poi col tempo, a divenirgli ripugnante (a buon intenditor basta qui la parola).
Le nozze immaginali impossibili a realizzarsi, trovano adesso un altro altare dove celebrarsi: il linguaggio simbolico. Il simbolo apre la via (linguistica) di fuga dall’impotenza immaginale di Narciso: a parole è facile sposare tutto quel che si vuole. Il Racconto, a chiacchiere, può permettere all’Erede di compiere l’Incompiuta narcisistica. Di dare un termine all’Interminabile.

Se il problema è di ricostruire il «punto di giuntura» (di fatto, però di rottura) tra l’immaginazione (delusa) di Narciso e il «dire» (senza corpo) di Eco, tra i due linguaggi – di Nessuno e dell’«io» che gli subentra – allora la risposta di Deleuze è all’incirca questa: è l’onda di una ripetizione fuori da ogni legge, che ci sospinge, uno per uno, nell’ingorgo di una Segnaletica Sociale.
Un’onda che si propaga fin dentro le nostre più viete abitudini morali – senza però mai approdare a una legge. Un’onda irregolare che non risparmia dal naufragio nessun idolo che incontra – che rifiuta ogni sostituzione simbolica del suo piacere.

Un’onda senza parole, immagine e segno solo di se stessa, che dà solo vaghi cenni della sua presenza – quando, per es., dice Deleuze, nel Discorso si aprono buchi ironici e umoristici.
Traduco: quando il Discorso è fatto a pazziella, quando nella sua spiritualità s’apre la breccia di una spiritosaggine, o quando le cose sono talmente serie, così disperatamente tragiche (per i dettagli, rivolgersi a Kierkegaard) che, come quella volta là – quando fu messa in scena la Tragedia di Narciso – di botto al suo Erede scappa di bocca una risata.
Nessuna legge, ricorda, permette ai suoi «obbligati» di ridere di Lei. La legge è permalosa. La legge è rigorosa. Ma non potrà mai impedire all’Erede di Narciso di ridere, naturalmente, come rideva il suo antenato remoto.