Un giorno, nella foresta, un cacciatore udì una rana femmina, chiamata Wawa, che gracidava cantando: «wa, wa, wa, wa». Si avvicinò all’animale, rannicchiato nella cavità di un tronco d’albero, e gli disse: «Perché grugnisci così? Sii mia, e così grugnirai per la sofferenza quando il mio pene ti penetrerà».
Ma la rana continuò a cantare, e l’uomo se ne andò.
Appena egli ebbe voltato le spalle, Wawa si mutò in una bellissima giovane vestita di azzurro. Apparve davanti all’uomo, in mezzo al sentiero, e gli chiese di ripetere quello che aveva detto. Nonostante i suoi dinieghi, essa riprodusse esattamente le parole che l’uomo aveva pronunciato e, dal momento che era bella e consenziente, il cacciatore accettò di prenderla in moglie.
Continuarono dunque il viaggio insieme; ben presto l’uomo ebbe voglia di fare all’amore.
«Va bene – disse Wawa – però avvertimi quando starai per godere di me».
Nell’istante in cui egli parlò [per avvertirla], Wawa riprese l’aspetto di una rana e si allontanò saltellando e tirando il pene del compagno, che teneva chiuso nella vagina.
Incapace di reagire, l’uomo guardava il pene che si allungava a dismisura. Quando ebbe raggiunto una ventina di metri, la rana lasciò la stretta e scomparve.
L’infelice avrebbe voluto tornare a casa, ma il suo membro era diventato così pesante che non riusciva né a trascinarlo né a portarlo arrotolato sulle spalle o intorno alla vita.
Alcune lontre che passavano di là lo trovarono al colmo della disperazione. Si informarono del suo stato e offrirono un loro rimedio che consisteva nell’applicazione di un pesce /caratinga/ esposto rapidamente alla fiamma per intiepidirlo.
Il pene cominciò subito ad accorciarsi.
«Basta così», domandarono le lontre.
«No, ancora un po’», disse l’uomo.
La seconda applicazione ridusse il membro alla grandezza del mignolo.
***
L’eroe di questo mito manifesta in senso proprio, di fronte a una donna-rana, doti naturali simili alle disposizioni morali che spingono Monmaneki a cercarsi una moglie perfino fra i batraci.
Se abbiamo designato Monmaneki con l’appellativo di coureur [letteralmente «corridore»] dando a questo epiteto un’accezione metaforica [= «donnaiolo»], il nostro eroe è invece afflitto da un lungo pene [reale], simbolo che il pudore ci impedisce di usare, ma che corrisponde, sul piano sessuale, a un’espressione figurata che noi applichiamo liberamente ai rapporti sociali quando diciamo di un uomo che ha «il braccio lungo» [= arriva dappertutto, gode di molti appoggi].
In quanto al caratinga, i Mundurucu dicono che è nero solo in parte, perché – come si racconta nella nostra storia – è stato arrostito solo a metà [= è stato tolto dal fuoco anzitempo]. Ora, questo pesce possiede nella regione anale un pungiglione assai sviluppato, e potrebbe dunque suggerire l’idea di un pesce dal lungo pene. Ma noi non cercheremo di sfruttare questo aspetto e ci limiteremo a sottolineare due analogie.
Prima di tutto quella con altri miti, il cui eroe (o la cui eroina) non comprende il canto della rana e attribuisce ad esso un significato diverso da quello reale: canzone allegra anziché funebre, annuncio della primavera o invito all’amore.
Poi c’è l’analogia, ancora più interessante col cacciatore Monmaneki che, per il suo temperamento di donnaiolo, finisce tra le braccia di una moglie-rana, come conseguenza di un congiungimento effettuatosi attraverso il getto dell’urina, che allunga simbolicamente il suo pene fino al «buco» della bestia e grazie al quale essa potrà catturarlo.
C’è però una differenza: Monmaneki è un donnaiolo attivo, al quale il lungo pene [immaginario] permette ogni specie di impresa amorosa, mentre l’eroe del nostro mito si trova affetto da un lungo pene reale, che però ne paralizza i movimenti e gli provoca un tale disagio che egli cade nell’eccesso opposto e finisce per avere soltanto un membro di dimensioni ridicole.
Per compiere questa trasformazione, il mito sceglie le lontre, cioè dei signori della pesca, e un pesce [il caratinga], mentre Monmaneki è egli stesso signore della pesca e creatore dei pesci.
Questo insieme di correlazioni è tanto più notevole, in quanto Monmaneki crea i pesci partendo dai trucioli, tema questo che del resto è ben documentato, ma la cui principale area di distribuzione, come quella dell’uomo dal lungo pene, comprende le tribù più settentrionali del Nordamerica: Eschimesi, Indiani della costa nordoccidentale e del bacino del fiume Columbia.
Gli Eschimesi della renna attribuiscono un lungo pene all’uomo che crea i pesci con i trucioli. Gli Eschimesi polari, che lo chiamano Qajungajugssuak, e quelli della Groenlandia occidentale lo presentano afflitto da enormi testicoli, che cadono fino a terra e lo rendono vergognoso e imbarazzato.
Se i lunghi testicoli provocano nei loro possessori un imbarazzo morale, nella mitologia degli Eschimesi polari il lungo pene gode di un’autonomia fisica che ne favorisce l’attività, e questo avviene anche in molte versioni sudamericane.
La maggior parte delle versioni del nord-ovest dell’America settentrionale e delle Pianure attribuiscono al lungo pene un ruolo intermedio: è senza autonomia fisica, perché resta attaccato al corpo del suo proprietario, ma è tale da permettere a quest’ultimo di soddisfare tutti i suoi capricci.
A seconda che il pene sia reale o metaforico, si capisce come esso possa assumere nei vari casi funzioni antitetiche: mezzo attivo per cercare avventure, oppure fardello passivo che paralizza e umilia il suo portatore.
In questa seconda funzione il lungo pene si trasforma per gli Eschimesi in lunghi testicoli (ma rimane nel registro del basso), mentre a est, fra gli Irochesi, che conoscono anch’essi il tema del lungo pene, i testicoli si trasformano in lunghe palpebre, passando così nel registro dell’alto.
La presenza di un pescatore dai lunghi testicoli in un mito Warrau e di uomo dal naso pendulo fra i Guarayu conferma che il Sudamerica segue regole di trasformazione dello stesso tipo.
La disavventura del nostro eroe Mundurucu ricorda quella di un indio Tacana che volle fare all’amore con la luna e il cui pene si allungò tanto che dovette intrecciare una gerla per portarlo.
I Tumupasa, confinanti con i Tacana, raccontano che il sole sorprese Madama Luna accompagnata dalla sorella minore, il pianeta Venere, mentre saccheggiava il suo orto. Il sole costrinse la luna a diventare la sua amante, e il pene gli si allungò tanto che dovette portarlo in una gerla.
Un giorno Venere ricominciò i suoi furti a spese del sole. Questi puntò il pene contro di lei, ma la ragazza lo scambiò per un serpente e lo divise in due col coltello. Il sole morì, e raggiunse la volta celeste.
Non è impossibile che presso questi Indios della bassa Bolivia la trasformazione lungo pene >> lunghi testicoli ricompaia indebolita dietro il personaggio del tapiro, dotato non solo di un lungo pene ma anche di tre testicoli.
I Tumupasa dicono infatti che queste particolarità anatomiche si spiegano col fatto che il tapiro ha copulato con la moglie nel momento in cui quest’ultima, com’era sua abitudine, aveva appena finito di divorare la luna in fase calante, e quindi senza aspettare che l’astro venisse liberato per ricominciare a crescere dall’altra parte dell’orizzonte.
Esistono anche alcuni riti meridionali che confermano il legame fra l’uomo dal lungo pene e la luna: «Quando c’è il plenilunio … i ragazzi mocovi si tirano il naso e chiedono alla luna che glielo allunghi». Gli antichi Araukan veneravano insieme il sole, la luna e i batraci; e questo sicuramente perché il figlio del sole, detto anche «dodici soli», era egli stesso una rana o un rospo.
La luna personificava nelle sue fasi successive una ragazza, una donna incinta e una vecchia emaciata. Quando la luna era piena, racconta un cronista, «i danzatori si attaccavano alle parti impudiche un filo di lana dello spessore di un dito e le donne e le ragazze lo tiravano». A questo rito seguivano scene di promiscuità.
Conseguenza del coito in certi miti, il lungo pene ne è la condizione in altri: la luna si trova a una distanza così grande dalla terra che il suo amante umano non potrebbe unirsi a lei se essa non si fosse preoccupata di fornirgli un membro sufficientemente lungo.
Ora, la luna è lontana in maniera fisica, mentre la nostra rana simboleggia, per effetto di una metafora, una donna socialmente troppo lontana.
Ancora una volta, ci troviamo dunque rinviati al paradigma astronomico. Prima di affrontarlo, dal momento che è necessario, riassumiamo i passi compiuti finora.
Una comparazione estesa alle due Americhe ci ha permesso di saldare certi miti che sembravano provenire da due gruppi distinti: quelli che hanno per eroina una donna-rampone e quelli in cui questo ruolo spetta a una donna-rana. Infatti, i due gruppi di miti trasmettono lo stesso messaggio, che riguarda ogni volta una donna appiccicosa, benché quest’ultima possa essere tale in senso figurato o in senso proprio.
Ma, nello stesso tempo, otteniamo un altro risultato, in quanto saldiamo anche tre diversi motivi: quello dell’amante della rana, quello dell’uomo dal lungo pene, e quello del creatore dei pesci.
Infatti, i Mundurucu associano il primo e il secondo, i Tukuna il primo e il terzo (e contemporaneamente fanno posto al secondo, dandogli però una accezione metaforica), e gli Eschimesi, da parte loro, associano il secondo e il terzo.
Da questo sistema di equivalenze, un’ultima tappa del ragionamento permette di inferire che, messi in correlazione e in opposizione negli stessi miti, l’uomo dal lungo pene e la donna-rampone hanno valori simmetrici [inversi]: lui può raggiungere l’amante a distanza, lei non può essere moglie se non aderendo al corpo del marito.
Come la donna appiccicosa, il suo corrispondente maschile ammette una accezione propria e una accezione figurata. Di conseguenza, le due operazioni successive che abbiamo eseguito per fissare certi miti o certe parti di essi, ci permettono di unificare questi gruppi, che in un primo tempo avevamo saldato separatamente.
Insomma, alcuni miti che sembravano eterogenei per il loro contenuto e per le loro diverse origini geografiche, appaiono ora tutti riducibili a un unico messaggio che essi si limitano a trasformare su due assi, uno stilistico, l’altro lessicologico.
I primi si esprimono in senso proprio, i secondi in senso figurato. E il vocabolario che utilizzano rimanda a tre ordini separati: quello reale, quello simbolico e quello immaginario.
È infatti un dato dell’esperienza che vi siano donne appiccicose e uomini donnaioli, mentre gli involucri uncinati e i peni serpentini non sono altro che simboli; infine, il matrimonio di un uomo con una rana o con un verme può essere solo un frutto dell’immaginazione.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)