Dopo la partenza di re Artù, Mordret, vedutosi signore della terra di Logres, prese a tenere grandi corti e ad elargire ricchi doni, sì che in poco tempo conquistò il cuore degli uomini più nobili.
Allora fece scrivere una falsa lettera sigillata con un sigillo simile a quello di re Artù, che per suo ordine fu portata alla regina; e costei la porse a un vescovo scozzese che l’era seduto accanto, perché ne desse lettura davanti a tutta la corte.
Ora, la lettera conteneva quel che segue:
Io, Artù, re di Logres, a tutti i miei uomini, salute!
Essendo io ferito a morte da Lancillotto del Lago, e uccise e sconfitte le mie genti, sono preso da pietà per voi a causa dell’amore e della lealtà che sempre m’avete dimostrati. Per questo vi prego, per il vostro bene e per la pace dei miei regni e delle mie terre, di eleggere re Mordret, che io tenevo per nipote, ma che non lo è. E vi chiedo anche, per i giuramenti che m’avete fatti, di dargli in moglie la regina: altrimenti ve ne verrà gran danno, poiché, se ella non è sposata, Lancillotto verrà a strapparla a voi di forza, e di questo la mia anima sarebbe più dolente che d’ogni altra cosa.
Quando il vescovo ebbe finito, Mordret fece vista di svenire dal dolore e si lasciò cadere tra le braccia d’un cavaliere. Ma la regina, che credeva che la lettera fosse vera, si mise a piangere e a lamentarsi sì tanto che non vi fu persona che non avesse pietà di lei.
E quando la notizia si sparse per il palazzo e per la città, tutti, poveri e ricchi, presero a menar gran duolo; giorno e notte, per una settimana, non vi persona che non piangesse; ché re Artù era stato sempre dolce e indulgente, ed era il principe che il popolo amava di più.
Intanto, i baroni tennero consiglio e decisero che la cosa migliore era di far Mordret re e di dargli in moglie la regina Ginevra. Così mandarono a chiamarli entrambi; e sappiate che, quando ella entrò nella sala, essi si alzarono davanti a lei e la ricevettero con grande amore; poi, colui che era miglior parlatore le disse: «Signora, nostro signore il re, che era sì valentuomo, è morto e trapassato dal mondo e, poiché questo regno non può restare senza governo, dobbiamo eleggere un buon cavaliere che sia degno di reggerlo e che vi abbia in moglie. Ma vogliamo sapere quel che pensate voi di ciò».
La regina dichiarò che non si curava di prendere un barone per marito e che piuttosto avrebbe lasciato il paese. Al che essi risposero che il regno non poteva restare senza un signore che fosse capace di difenderlo e che ella doveva per forza fare a loro volontà e sposare Mordret che essi avevano scelto.
Ah! quando ella udì quel nome, credette che il cuore l’avrebbe abbandonata! Ma non osò palesarlo: «Bei signori – disse – accordatemi una dilazione: tra otto giorni vi darò la risposta».
E si ritirò nelle proprie camere. E là, cominciò a piangere, a graffiarsi il viso, a torcersi le mani e a gemere di tutto cuore. Poi rifletté e mandò una delle sue pulzelle a chiamare Tarquinio: un tempo valletto di re Claudas, era diventato suo scudiero, poi il re l’aveva armato cavaliere, e era uno degli uomini di cui ella si fidava di più, e con ragione.
Quando egli fu entrato, ella fece uscire la pulzella e chiuse la porta; poi disse: «Bello e dolce amico, i baroni di questo regno vogliono maritarmi a Mordret, che è, ve lo dico in verità, il figlio di re Artù, il mio signore, e della moglie di re Lot; e, anche non lo fosse, preferirei essere arsa che sposare quello sleale traditore! Così voglio far guarnire la torre di Logres di cavalieri, di sergenti, di balestrieri e d’ogni sorta di viveri e d’armi; e se mi si chiede perché, dirò che è per la festa che si avvicina. Poi mi ci chiuderò. Cosa ne pensate?».
«Signora, io vi procurerò la guarnigione. Tuttavia, se volete credermi, manderete un messaggero in Gallia per sapere se il re è morto, ché il cuore mi dice che non lo è. E se messere è trapassato, manderete a dire a Lancillotto che venga in vostro soccorso: mai Mordret oserà affrontarlo in battaglia campale».
Così fu fatto: guarnita molto bene la torre di viveri e d’uomini, tutti prodi e devoti, la regina vi si ritirò e, quando Mordret giunse con i baroni, al giorno stabilito, a ricevere la sua risposta, ella fece alzare il ponte e da una feritoia gli gridò: «Mordret, Mordret, per vostra disgrazia avete voluto avermi in moglie che io lo volessi o no. Questa slealtà vi condurrà a morte!».
Subito Mordret irato fece assalire la torre da tutte le parti con macchine e scale; ma quelli di dentro si difesero sì rudemente che presto egli ebbe più di venti morti nei fossati, di modo che l’assalto ebbe termine. E così fu più volte per la durata di due mesi.
Ora, quando Lancillotto [dopo il duello con Galvano] fu tornato nel palazzo di Gannes e i medici ebbero guardato le sue ferite, si meravigliarono che non fosse morto. Intanto quelli di Logres correvano a sollevare monsignor Galvano che non riusciva più a sostenersi, e lo riportarono nella tenda del re, che piangendo di pietà gli disse: «Bel nipote, la vostra follia vi ha ucciso, ed è gran peccato, ché mai uscirà dal vostro lignaggio un cavaliere come voi».
Messer Galvano era così malconcio che non poté rispondere parola, e a vederlo tutti si misero a piangere e a lodare come egli, ferito in quella guisa, si fosse così ben difeso dal miglior cavaliere del mondo, che era in tutto il vigore dell’età: ché a quel tempo Lancillotto aveva appena cinquant’anni, mentre messer Galvano ne aveva quasi settanta.
Tutta la notte il ferito si lamentò: si temeva che non giungesse all’indomani. I medici trovarono le piaghe che aveva sul corpo talmente orribili che ne furono tutti turbati; dicevano che le avrebbero curate, ma che temevano di non poter guarire la profonda ferita che egli aveva in testa. Di modo che, nel sentirli, le lacrime del re e di tutti i presenti scendevano in grosse gocce fino a terra.
Al mattino, un valletto entrò nel padiglione: era il messaggero della regina Ginevra. Dopo aver salutato il re e i valentuomini, raccontò tutto quel che era accaduto nella Grande Bretagna: come Mordret si fosse astutamente fatto incoronare re e avesse ricevuto l’omaggio di tutti, e come tenesse la regina assediata nella torre di Logres.
«Ah! Mordret – disse allora il re – mai un padre trattò il figlio come farò io, ché t’ucciderò con le mie stesse mani!».
Molti uomini nobili udirono queste parole: così seppero che Mordret era il figlio di re Artù.
Intanto, il re faceva bandire per tutto l’esercito che ci si preparasse a partire l’indomani, e subito si cominciò a smontare le tende e i padiglioni.
Poi fece approntare una lettiga molto bella per il monsignor Galvano, ché non voleva in alcun modo abbandonarlo, dicendo che, se il nipote fosse morto, si augurava di essergli vicino e che, se fosse vissuto, ne sarebbe stato ben più felice e gioioso. E, appena il giorno divenne chiaro, l’armata si mise in marcia.
Tanto cavalcò, che giunse sulla riva del mare. Il re fece coricare monsignor Galvano nella propria nave; poi si imbarcarono i baroni con gli uomini e i cavalli e, poiché il vento era buono, forte e portava bene, i marinai si misero alla vela.
Poco dopo, messer Galvano, che era molto debole, aprì gli occhi e mormorò: «Dio! dove sono?».
«Signore, siamo in mare – rispose un cavaliere – torniamo nel regno di Logres».
«Che sia benedetto Nostro Signore, poiché fa che io muoia nella Bretagna Azzurra!».
«Ah! bello e dolce signore, pensate dunque di morir così presto?».
«Sì; sappiate che non vivrò altri due giorni. E sono meno addolorato per la mia morte che del fatto di spirare senza rivedere Lancillotto: se avessi potuto chiedergli mercé per averlo trattato con sì grande follia, credo che la mia anima sarebbe stata più gioiosa dopo il trapasso».
«Bel nipote – disse il re che era sopraggiunto – la vostra follia mi ha arrecato gran danno, ché vi toglie a me, voi che io amavo più d’ogni altro uomo, e mi toglie allo stesso tempo Lancillotto. Ah! Mordret non sarebbe mai stato tanto ardito da commettere sì grave fellonia se il miglior cavaliere del mondo fosse restato presso di me!».
«Mio fratello Mordret è stato dunque sleale verso di voi?».
Il re gli raccontò quel che era accaduto. Del che messer Galvano fu più stupefatto e addolorato di quanto si potrebbe dire.
«Ahimé! ho dunque troppo vissuto! – mormorò. – Se potessi combattere ancora, sarei il nemico più mortale di mio fratello, ma alcuno mi vedrà mai più portare le armi».
A tali parole svenne, e il re cominciò a menare sì gran duolo che alcun uomo avrebbe potuto vederlo senza averne pietà. Tuttavia messer Galvano riprese fiato e, facendo segno al re di avvicinarsi, gli mormorò a voce bassa: «Bello zio, io muoio. Vi prego in nome di Dio di non battervi con la vostra persona contro Mordret, ché, se sarete ucciso da mano d’uomo, quella sarà la sua. Salutate da parte mia madama la regina e i vostri valentuomini, nessuno dei quali rivedrà Lancillotto. Che Dio lo conservi: con lui crollerà il pilastro della cavalleria! Mandategli a dire che lo saluto e lo prego di venire a visitare la mia tomba quando sarò trapassato, ché certo egli non ha tanta durezza in cuore da non aver pietà di me. Sire, vi chiedo di farmi seppellire nella chiesa di santo Stefano di Camelot, vicino ai miei fratelli e nella stessa tomba di Gaheriet; e sulla lapide farete scrivere: “Qui giacciono Gaheriet e Galvano, che Lancillotto del Lago uccise per loro colpa”. Ché voglio essere biasimato per la mia morte come ho meritato. Ah! Gesù Cristo, Padre, non giudicarmi secondo i miei misfatti!».
Così disse, e mai più da allora pronunciò parola. Ricevuto il Corpus Domini, trapassò dal mondo, le mani incrociate sul petto.
Il re svenne sul suo corpo più volte, una dopo l’altra, poi cominciò a strapparsi i capelli e la barba che erano bianchi come neve appena caduta, gridando: «Ah! re meschino e sventurato! Ah! Artù, tu puoi ben dire che sei spogliato di amici carnali come l’albero delle foglie quando viene la gelata! Ah! Fortuna, incostante e multiforme, fosti un giorno mia madre e ora mi sei matrigna: tu che mi avevi posto in alto nella tua ruota, come in poche ore la fai girare e mi poni nel punto più basso! Morte crudele e fellona, non avresti dovuto assalire mio nipote: se avessi saputo che avresti avuto un campione, t’avrei accusata di tradimento!».
Così dicendo, si percuoteva il petto e si graffiava il viso, di modo che il sangue gli colava a fiotti, e tanto che i baroni, temendo di vederlo morire, lo allontanarono affinché non vedesse più il corpo del nipote.
Intanto, non vi era persona sulle navi che non piangesse e non si lamentasse come se messer Galvano fosse stato il proprio cugino germano, ché era il cavaliere più amato da tutte le genti; in verità, tale era il lutto nelle navi, che si sarebbe creduto che Nostro Signore facesse tuonare il fulmine sul mare.
(La morte di Artù, 29-30, 32)