Il racconto della Dama Laida compare in vari contesti irlandesi, tra i quali può esser considerato tipico quello dei Cinque Figli di Eochaid narrato nel Temair Breg e nell’Echtra mac Echdach Mugmedóin.
I cinque fratelli a turno si recano a una fonte per ottenere un sorso della sua «acqua delle virtù», fonte che però è sorvegliata da una strega dall’aspetto davvero ripugnante che esige un bacio come prezzo per un sorso. Soltanto il fratello più giovane, Niall, che come molti altri eroi era stato allevato in esilio, le getta le braccia al collo «come se fosse da sempre stata sua moglie»; dopo di che essa diviene una bellissima fanciulla e predice il regno di Niall su Tara.
«Come dapprima tu mi hai vista brutta – essa gli dice – ma poi bella, così è anche il potere regale. Senza battaglie, non lo si può conquistare, ma poi è piacevole e bello per ognuno».
Similmente, nella storia di Lughaid Laighe, soltanto colui che osa e acconsente a dormire con la Dama Laida è il re predestinato; quando le vien domandato chi sia, essa risponde che con lei dormono i Grandi Re, e che lei è «il regno di Alba e di Ériu».
In modo del tutto simile la dea indiana Šrî (-Laksmî) è la «personificazione del diritto a regnare … [lo] Spirito della Sovranità … e in particolar modo quando il rapporto con lei è … di tipo coniugale».
Ma questa è un’anticipazione; il mio intento in questo articolo è di richiamare l’attenzione su certi aspetti della storia della trasformazione della «Dama Laida» fino a ora trascurati e, in particolare: 1) addurre un certo numero di paralleli orientali, 2) mostrare come la Dama Laida vada identificata al Drago o Serpente il cui incantesimo è tolto dall’eroe mediante il «fier baiser», e 3) mostrare che la Dama Laida o il Drago-Donna è l’Ondina, l’anima sirena, la Psiche, il cui disincantamento e la cui trasformazione sono determinati dalle sue nozze con l’Eroe.
Iniziamo dalle nozze di Indra, il «Grande Eroe» del Rig Veda, con Apâlâ, la «non-protetta». È Apâlâ la corteggiatrice; essa pensa: «E se andassimo a sposarci con Indra? Forse che non ci favorirà, non lavorerà anzi per noi, non ci arricchirà?».
Recando del Soma, che essa prepara masticandolo, come sua offerta sacrificale, prima si rivolge a Indra con queste parole: «Tu che ti muovi lassù, piccolo eroe, che volgi intorno lo sguardo su ciascuna casa», e poi gli chiede di «far crescere [capelli, erba e peli] sulla testa [calva] e nel campo [sterile] di suo padre, e qui, sotto il mio ventre».
Indra beve il Soma dalle sue labbra; nelle parole del Brâhmana, «egli invero bevve il Soma dalla sua bocca; e se uno, essendo un Comprensore di questo [mito, o dottrina], bacia la bocca di una donna, il bacio diviene per lui un sorso di Soma», cioè di Acqua della Vita, che in quella circostanza fu «bevuta per la prima volta».
Nel breve testo del Rig Veda non si trova detto espressamente che Apâlâ fosse laida, ma lo si può desumere dal fatto che Indra la purifica tre volte facendola passare attraverso i mozzi del suo carro solare, sì da renderla infine «dalla pelle dorata».
Le versioni dei Brâhmana, più lunghe, pongono in evidenza che Apâlâ è in origine «di un colore cattivo», e che le purificazioni servono a rimuovere le sue pelli squamose di rettile, sì che dalla terza lustrazione essa riappare nella più bella delle forme, tale da invitare all’abbraccio. […]
Come Ériu ed Europa nelle tradizioni celtica e greca, così anche Apâlâ porta in quella indiana molti nomi diversi […] che sono, in ultima analisi, tutte forme della dea Terra, e di un’unica e medesima Mâyâ-Šakti, e in quanto tali esse rappresentano la Maestosità: non Sua Maestà, non il Sovrano stesso, ma il Potere, la Gloria e la Fortuna con cui egli opera.
Nel grande inno alla Madre Terra (Atharva Veda, 12: 1), essa è descritta come «Colei il cui trono è Indra», «il cui Signore è Parjanya» (Indra come dio della pioggia); essa è la Madre, Parjanya il Padre, e «io suo figlio»: «adornandosi, scrollandosi di dosso il Serpente, scegliendo [di sposare] non Vrtra ma Indra, essa si serba per Šakra [Indra], il Toro virile»; essa è invocata affinché «ci inviti alla prima libagione» (di Soma) e ci conferisca «forza e vigore, nella suprema sovranità … e fortuna (šrî)».
L’espressione «scrollandosi di dosso il serpente», cioè gettando la sua spoglia, è già di per sé una prova della natura originariamente ofidica della Madre Terra; ciò è però chiaro in Rig Veda, 10: 22.14, dove essa è «apoda» (apadî), cioè un serpente, mentre invece in 3: 55.14 «essa sta dritta, ha i piedi ed è adorna di molte bellezze»; e questo è pure chiaro dal fatto che la Terra è la «Regina dei Serpenti», rappresentata ancor oggi in Bengala dalla «Dea-Serpente», Manasâ Devî. […]
Con o senza piedi: in altri termini, la forma in cui essa appare come Sorte, Buona o Cattiva (di per sé la parola è indeterminata), è quella che è appropriata alla situazione data: la persona del Dominio appare nella sua forma bella soltanto a coloro che la meritano; l’espressione «soltanto il prode (o il buono) merita la bella» assume qui un significato più pregnante, e a nessuno si addice più che all’eroe di un fier baiser.
È proprio a causa della sua fondamentale polarità e mutevolezza o incostanza che noi possiamo riconoscere tanto chiaramente il principio che sta alla base delle trasformazioni della Dama della Terra nei contesti celtici, e che possiamo renderci conto che anche nelle storie che rappresentano la Fortuna e la Sfortuna come parenti, tale parentela indica che esse sono aspetti intercambiabili di un’unica e medesima fée o Fata.
Nel Jâtaka, n.382, l’eroe Bodhisattva è un mercante ricco e generoso; Kâlakannî (Alaksmî) e Sirî (Šrî), ancora in cielo, rivendicano ciascuna la preminenza, e viene stabilito che scenderanno e appariranno al Bodhisattva, il cui giudizio porrà fine alla loro controversia.
Kâlakannî appare per prima in una veste nero brunito (il colore delle tenebre e della morte), e spiega che essa vaga per il mondo, fuorviando gli uomini e conducendoli alla rovina; il Bodhisattva la respinge. Appare quindi Sirî raggiante di luce dorata e, rispondendo alla domanda circa la sua identità, spiega di presiedere a quei comportamenti che conducono alla Signoria. Il Bodhisattva la accoglie a braccia aperte, ed essa passa la notte con lui, condividendone il letto.
Abbiamo visto che Šrî è la «personificazione del diritto a regnare … [lo] Spirito della Sovranità … e in particolar modo quando il rapporto con lei è … di tipo coniugale». Tale rapporto coniugale del Sovrano con la Terra è espresso in modo diretto nella parola Bhûpati, «Signore della Terra», cioè re.
L’idea che il re sia «sposato al suo Regno» è sopravvissuta in Europa almeno fino al XVII secolo. […]
Nel folklore e nel rituale cambogiano, essa traspare in particolare attraverso l’obbligo, vincolante per il re, di dormire con la Signora della Terra ogni notte prima di accostarsi ad alcuna delle sue spose umane.
Un autore cinese riferisce, nel XIII secolo, che nel palazzo ad Angkor Thom esisteva una torre d’oro in cima alla quale dormiva il re: «Tutti dicono che in questa torre abiti lo spirito di un Serpente a nove teste, Signore di tutta la Terra, e che ogni notte vi appaia sotto forma di donna. È con lui che il re dorme e convive prima … Se lo spirito del Serpente non appare, è giunto per il re il momento di morire; se il re trascura di venire, ne segue una calamità».
È possibile che vi sia un poco di confusione in questa versione cinese, nella quale occorre intendere che la Signora della Terra è figlia di un Serpente o di un Drago a nove teste, e però appare al re sotto forma di una bellissima donna.
D’altronde, Šrî-Laksmî è l’«Afrodite» indiana, nata dalla schiuma dell’Oceano durante il suo Rimestamento primordiale; essa è altrimenti nota col nome di Padmâ, «Loto», o «Dama-Loto», e iconograficamente è rappresentata seduta o stante nel fiore di un loto; d’altra parte, la Terra è immaginata come un’isola navigante sulla superficie dell’Oceano primordiale, e pertanto in genere è simboleggiata con la foglia o il fiore di un loto.
Tutto ciò è come dire che Šrî è «Flora», e quindi «Rosa Mundi»; in Paradiso, 23: 88, «bel fiore» = Vergine Maria; e ciò non è senza rapporto con quanto andiamo dicendo perché, come dice Loomis, «faremmo bene a ricordare la concezione di quella fanciulla, chiamata Sovranità d’Irlanda, che coi suoi amplessi conferisce l’immortalità, che offre la sua coppa all’eroe, e i cui nomi floreali non sono privi di un loro significato»; a questo stesso riguardo Loomis menziona i nomi di altre figlie di dèi, Blathnat («Piccolo Fiore») e Scothniamh («Splendore di fiori»), e incontriamo anche altri nomi significativi, quali Blanchefleur, Flore de la Lunel, e Rosa España.
Tutto il motivo della trasformazione della Donna Laida, o Serpente, nella Sposa Perfetta è riflesso nella periodicità lunare della vita della donna, ed è probabilmente soltanto da questo punto di vista che è possibile interpretare correttamente i tabù tradizionali legati al ciclo mestruale.
Durante le mestruazioni la donna è considerata pericolosa e funesta, tanto per gli uomini come per i raccolti, e spesso viene segregata in luoghi ove la luce del sole o della luna non può raggiungerla (la luce è la potenza procreatrice, e in questo periodo essa non deve concepire).
Questa segregazione implica un temporaneo ritorno alla sua condizione primordiale, che è, per così dire, non umana, inquietante e misteriosa. Le mestruazioni sono state sovente considerate come una forma di contaminazione o di invasamento; la successiva purificazione, a cui segue il rapporto sessuale, è la rigenerazione della sua umanità e una ripetizione del rito nuziale per mezzo del quale essa fu per la prima volta «fatta donna», dopo essere stata una «ninfa».
Pertanto: «Ecco, è certo questa la Šrî fra le donne [la Fortuna incarnata] quando si toglie i sudici indumenti: che l’uomo si accosti quindi a questa donna Gloriosa, pronunciando la benedizione; oppure, se essa non si concede, la colpisca con un bastone o con la mano, pronunciando la maledizione: “Io, con la mia potenza e con la mia gloria, prendo per me la tua gloria” – ed essa diviene priva di gloria. Ma se essa si concede, la benedica: “Io, con la mia potenza e la mia gloria, ti conferisco la gloria” – ed entrambi sono così glorificati» (Brhadâranyaka Upanisad, 6: 4. 6-8).
Tutto questo riflette le nozze archetipiche di Sûryâ, Figlia del Sole e paradigma della sposa umana. Alle sue nozze: «Abbandonata è la Potenza (malefica d’incantamento) che a lei aderiva: i suoi [nuovi] parenti prosperano; il marito è vincolato dagli obblighi. “Getta via la veste sudicia, distribuisci ricchezza ai brahmani!”. Ora la Potenza ha ricevuto dei piedi, e come moglie si unisce al marito» (Rig Veda, 10: 85. 28-29).
Dal fatto che «ha ricevuto dei piedi» è evidente che la forma originaria della moglie, che ad essa aderiva, era ofidica e, se confrontiamo i due contesti, è chiaro che la purificazione mensile, dopo la quale la donna non è più pericolosa ma anzi bene accetta, è una rigenerazione concepita come un abbandono della vecchia spoglia, seguita da una riapparizione gloriosa, da una parte analoga a quella di Apâlâ, e dall’altra a quella di chiunque «liberandosi» del vecchio uomo si sia rinnovato.
In quanto precede abbiamo visto che il tema eroico della trasformazione di una sposa laida e misteriosa in una donna bellissima non può essere considerato specificamente celtico, ma rappresenta anzi un modello mitico universale, che sta alla base di ogni matrimonio e che, di fatto, è il «mistero» del matrimonio.
In più d’un caso si dà evidenza al fatto che la rottura dell’incantesimo è compiuta per mezzo di un bacio; così è, per esempio, nella storia dei figli di Eochaid, come pure nell’episodio delle Nozze di sir Gawain e di Dama Ragnell, dove, allorché egli si mostra riluttante, essa lo scongiura: «Per Re Artù, baciami almeno!». E non c’è dubbio che questi siano propri casi di fier baiser.
In una versione tipica del fier baiser, l’eroe raggiunge l’Aldilà, «Sotto l’onda». La popolazione è sotto un incantesimo. Egli entra in un castello. Entra un grande serpente che lo supplica: «Baciami», ma egli rifiuta.
La sera seguente egli sogna cosa sarebbe accaduto, se avesse dato il bacio, e quindi decide di darlo. Il serpente ritorna, stavolta con un aspetto ancor più terribile, con due teste, e lo supplica: «Baciami», ma egli rifiuta.
Egli sogna nuovamente e ode una voce: «Non avresti fatto che il giusto se tu avessi baciato il serpente». Egli si risolve a farlo, e questa volta, quando il serpente entra, con un aspetto ancora più terrificante e tre teste, e avvolgendolo lo supplica: «Baciami», egli lo bacia, e «non appena l’ebbe baciato, il serpente si trasformò in una bellissima fanciulla, la più bella che fosse mai stato dato di vedere. Il serpente era la figlia del castellano. Dopo il bacio, tutti coloro che appartenevano al castello, e l’intero paese, furono sottratti all’incantesimo».
In questo caso, il matrimonio vero e proprio viene rimandato per l’umano desiderio dell’eroe di rivedere i propri genitori in questo mondo, ma quando egli ritorna in sé, è per tornare alla sua sposa e al regno che lo aspetta. […]
Il motivo del fier baiser è troppo conosciuto perché sia necessario citare altri esempi. Il nostro obiettivo principale era di mostrare che la Dama Laida e il Serpente o Drago, la Sirena, l’Ondina o la Ninfa dell’Acqua, non sono che una sola e medesima «Signora della Terra».
La Sposa è sempre in qualche modo una servitrice delle Acque Vive, che l’eroe le sottrae, con la forza o col suo consenso: e il principio rimane lo stesso anche quando (come nella storia dei Figli di Eochaid) si tratta di un sorso dal Pozzo (dell’Acqua di vita) che la Strega concede soltanto a chi la bacia, o quando lei (come in molte altre versioni della storia) gli offre la coppa nuziale.
È attraverso questa libagione che l’eroe «mortale», il Dio che muore, l’Eros divino, figlio d’un Padre sovrannaturale e di una Madre terrena, il quale ha assunto un corpo mortale e soggetto alle passioni al fine di salvare la Sposa promessa – e che per far questo «si imprigiona da sé, come un uccello nella rete» – è reintegrato nel suo regno oltremondano dove l’Amante e l’Amata vivono insieme «per sempre felici e contenti».
D’altra parte, questa è una conclusione che può subire dei rinvii; e in questo caso la coppa nuziale va considerata più come una promessa che come un compimento.
Accade infatti molto spesso che l’Eroe non sia ancora del tutto libero dai lacci che lo legano a questo mondo. Egli, per esempio, può voler tornare sulla terra per visitare, consolare e dire addio ai genitori o ai compagni.
È un’impresa pericolosa a cui la Sposa fairy consente riluttante. Essa gli fornisce un talismano, oppure un prudente consiglio; ma il talismano viene rubato, o il consiglio ignorato, col risultato che la Sposa fairy è dimenticata e l’Eroe viene con l’inganno indotto a sposare una sposa malvagia, antitesi dell’Amata immortale da cui viene salvato soltanto all’ultimo momento.
Dal canto suo, lei si sottopone a innumerevoli prove e vive travestita fino a che, grazie a qualche ingegnoso stratagemma, oppure mediante un segno di riconoscimento, non le riesce di far ricordare all’Eroe la sua dimenticata avventura: una lêthê e un’anamnêsis che non sono senza rapporto con la dottrina platonica e indiana della Reminiscenza.
O ancora, se l’Eroe non l’ha dimenticata ma perde la sua Sposa immortale infrangendo un tabù (sia che tale infrazione sia conseguenza della sua sconsideratezza, o dell’umana debolezza, oppure ancora provocata da un avversario), non gli resta che cercarla in quell’Altro Mondo o in quella Città sconosciuta donde essa venne in principio, e il cui stesso nome e luogo sono ignoti a tutti coloro a cui domanda la via – perché chi sa dove sia l’Oltremare o Sotto l’onda, il luogo che è «a est del sole» o «a ovest della luna», o «quando» sia stato «c’era una volta»?
La storia è sempre quella di una separazione e di un ricongiungimento, di un incantesimo e della sua rottura, di una caduta e di una redenzione.
L’Eroe e l’Eroina sono i nostri due sé – duo sunt in homine – lo Spirito immanente («l’Amata dell’anima», «il Sé immortale di questo sé») e l’anima o sé individuale: Eros e Psiche.
Questi due, l’Uomo interiore e quello Esteriore conviventi, sono in guerra l’uno contro l’altro, e fra loro non vi può essere pace fino a che la vittoria non sia stata riportata e l’anima, il nostro sé, questo «io», sottomessa.
Non è senza motivo che l’Eroina è spesso descritta come altera, sdegnosa, «Orgogliosa» [Fiera come il bacio che richiede].
Filone e Rûmî paragonano più volte quest’anima, il nostro sé, al Drago, ed è questa l’anima che ci vien detto di «odiare» se vogliamo essere discepoli del Sole dell’Uomo.
(Coomaraswamy, Il grande brivido)