Perché serbo entro me tante parole,
nomi di cose lontane:
mucca, elefante, cane –
appresi ormai da tanto tempo – ed anche,
anche zebra – perché?
Colui che m’ha con sé,
e mi porta, sta come una marea
sopra il tutto. È la pace,
ora, sapere ciò che si era, quando
attraverso le cose e dure e tenere
non si arriva a un volto che comprenda?
Queste mie mani incominciate appena …
Voi dicevate, a volte: «Egli promette …».
Sì, promettevo. E quello che promisi
allora a voi,
non mi fa più paura.
Sedevo, a volte, presso casa, a lungo,
e seguivo un uccello nel suo volo.
Oh, se avessi potuto essere, intero,
in quel mio sguardo! Mi portava in alto
in alto: mi levava; e le mie ciglia
aperte, aperte. – Che mi fosse caro
non avevo nessuno. Aver qualcuno
era ancora un’angoscia. Io – tu comprendi –
non ero noi: comprendi? Ero qualcosa …
grande, più grande, più di un uomo. Io ero
come se fossi io stesso il mio pericolo.
Ed ero, dentro, dentro a quello, un seme.
Piccolo seme: e nelle strade e al vento
io lo gettavo. Lo spargevo. – Allora
che, sedendo, noi fossimo vicini,
non l’ho creduto mai. Parola. Voi,
voi parlavate, ridevate, e intanto
non c’era in quelle voci, in quelle risa
nessuno. E tutti ondeggiavate, come
non ondeggiava quel bicchier di vino,
non ondeggiava quella zuccheriera.
Anche la mela era ben ferma: a volte
era bello toccarla, salda e piena.
E il tavolo massiccio: e le tranquille
tazze del latte mattutino, buone
tanto che n’era buono tutto il giorno.
Era bello talora anche il giocattolo:
poteva, quasi come le altre cose,
essere fido e caro: anche se, forse,
non così quieto: sempre all’erta, sempre
lì, fra capo e cappello. Eccoli: c’era
il cavallo di legno, il gallo: c’era
la Pupa, zoppa sulla gamba sola.
I miei balocchi! E quante cose, quante
feci per loro. Io mi restrinsi il cielo,
piccolo, breve, come era per loro.
Perché presto capii quant’è deserto
un cavallo di legno. Oh, si può fare
un cavallo di legno, anche in qualunque
grandezza: e poi lo si dipinge: e poi
si salta in groppa e, via, per la diritta
strada, al galoppo. Ma perché non era
bugia, quand’io dicevo: Il mio cavallo?
Perché cavallo mi sentivo anch’io,
un poco; ed ero già su quattro zampe,
vigoroso, crinito … (e poi, di nuovo,
tornare ad essere uomo)? Anzi, per questo,
non mi facevo un poco anch’io di legno,
e, misteriosamente irrigidendo,
facevo un viso ossuto e lungo? E quasi,
ora, penso che sempre ci scambiammo.
E se ho visto un ruscello, ho gorgogliato;
se ne udivo il gorgoglio, io saltellavo;
dove ho visto un tintinno, ho tintinnato;
e quand’esso tinniva, io lo muovevo.
Così mi insinuai dentro le cose,
e tuttavia le cose erano liete
senza di me: se a me legate, tristi.
Ora, d’un tratto, me ne son diviso.
Comincia un nuovo apprendere? Comincia
un nuovo interrogare? O dovrò dire
ormai che tutto è là da voi? M’angustia
questo. E la casa? Io non l’ho mai capita.
Le stanze? Ah, questo sì: questo esisteva.
Mamma, cos’era veramente un cane?
S’andava al bosco a cogliere le bacche …
Oggi pare una fiaba, una scoperta.
Dovrei trovare altri bambini morti,
che giochino con me. Sempre vi sono
bambini morti. Andati a letto, e poi …
poi, come me, non più guariti. Strano
suono: Guariti! Ha qualche senso? Io credo
che qui, dove mi trovo ora, nessuno,
mai nessuno si ammali. E quanto tempo
è ormai passato da quel mal di gola!
Qui siamo, ognuno, come un fresco sorso …
Ma non ho visto chi ci beva, ancora.
(Rilke, Requiem)