Ora, dice il racconto, re Artù aspettava fuori della tenda. E Lancillotto, vedendo il proprio signore, mise piede a terra, prese il palafreno della sua dama per il morso e disse: «Sire, ecco madama la regina. Se io non l’avessi soccorsa, a quest’ora, ella sarebbe morta. E sappiate che, se io l’amassi d’amore folle come certi felloni vi hanno fatto credere, non ve la restituirei, ché questo castello è sì forte che non teme nulla, e abbiamo viveri per due anni».
«Di quel che fate vi sono grato», rispose il re tutto pensieroso.
Allora Galvano s’avanzò d’un passo: «Lancillotto – disse – il re vi è grato per quel che avete fatto per lui. Ma vi chiede di lasciare la terra di Logres e di non farvi ritorno finché egli vive».
«Sire, è questo il vostro ordine?».
«Andatevene nella vostra terra, Lancillotto: quando avete ucciso Agravain, Guerrehes e Gaheriet, che erano miei amici carnali, mi avete fatto pagare i vostri servigi a un prezzo troppo alto».
«E quando io sarò oltremare, signore, cosa dovrò aspettarmi da voi: pace o guerra?».
«Siate sicuro – disse ancora messer Galvano – che il re vi farà guerra, e con tutto quanto è in suo potere, fino a che mio fratello Gaheriet sarà vendicato con la vostra morte. E sappiate che io metto a pegno il mondo intero che perderete ben presto la testa e la vita!».
«Messer Galvano – esclamò Bohor – lasciate le minacce: Lancillotto del Lago non vi teme! Se metterete piede nella Piccola Bretagna, sarete più in pericolo di lui di perdere la testa. Pretendereste che i vostri fratelli siano stati uccisi slealmente? Sono pronto a provare che non è la verità: che ci si metta in campo chiuso, corpo a corpo! Così la guerra sarà evitata e avranno salva la vita molti cavalieri che l’avrebbero persa».
Subito messer Galvano tese il pegno, e Bohor offrì il proprio; ma il re non volle affatto riceverli, e disse che presto si sarebbe presentata l’occasione di vedere chi fosse il più prode, quando egli avesse fatto guerra a Lancillotto.
Sentendo questo, Lancillotto esclamò: «Certo, non sareste in grado di farmi questa guerra se io vi avessi tanto nuociuto quanto vi ho aiutato il giorno in cui Galeotto, signore delle Isole Lontane, divenne vostro uomo ligio! E sappiate che io non dico questo per tema che io abbia di voi, ché, quando avremo mandato a chiamare i nostri uomini e i nostri amici e avremo guarnito le nostre roccaforti, voi non avrete né poco né molto vantaggio su di noi. Quanto a voi, messer Galvano, dovreste ricordarvi del giorno in cui vi liberai dalla Torre Dolorosa: vi trovavate in gran pericolo di morte, prigioniero di Caradoc il Grande!».
«Lancillotto – riprese messer Galvano – quel che un tempo faceste per il re e per me l’avete venduto troppo caro quando ci avete privati di coloro che amavamo di più. E sappiate che, a causa di questo, non vi sarà pace tra voi e me, finché vivrò».
Allora Lancillotto rimontò a cavallo e, seguito dai suoi, raggiunse il castello. E qui […] per tutta la notte menò gran duolo. Ma l’indomani partì con quelli della sua casa, e tanto cavalcarono che giunsero alla riva del mare. E quando la nave che li trasportava si fu allontanata, l’avreste visto mutar di colore e mandare sospiri profondi e terribili, mentre l’acqua del cuore gli colava dagli occhi.
«Ah! – mormorò – terra dolce, piacevole, magnanima, felice, lussureggiante, che tu sia benedetta dalla bocca di Gesù Cristo, ché la mia anima e il mio cuore restano su di te!».
Spinta dal vento, la nave giunse felicemente nella Piccola Bretagna. E là, il giorno di Ognissanti, Lionello fu incoronato re di Gannes, e Bohor, lo stesso giorno, re di Benoic per ordine di Lancillotto che gli cedette la propria eredità. Tutt’e tre passarono l’inverno a mettere in ordine le roccaforti e a rifornirle di viveri.
Ogni giorno, messer Galvano incitava il re contro Lancillotto, così che re Artù giurò di distruggere le fortezze di Benoic e di Gannes, di modo che non ne restasse che pietra su pietra.
Dopo Pasqua, quando il freddo fu passato, il re consegnò il regno di Logres in balia di Mordret: ah! che follia compì! Sappiate che fece giurare a tutti i suoi uomini di obbedire a Mordret come a se stesso e di fare quanto ordinasse; poi incaricò il nipote di mandargli l’oro e l’argento di cui avrebbe avuto gran bisogno quando fosse stato in Gallia, e gli consegnò le chiavi del tesoro, a quel traditore! E gli affidò infine la propria moglie leale raccomandandogli di custodirla come il proprio stesso corpo, e certo di questo la regina Ginevra fu ben dolente.
«Sire – disse ella al suo signore quando lo vide sul punto di salire sulla nave – che Dio vi guidi e vi riconduca! Ma il cuore mi dice che non ci rivedremo più».
«Signora – replicò il re – sarà come piacerà a Nostro Signore. A darvi pena, non potrete guadagnarci nulla».
Dopo di che, i mastri marinai fecero tesare le vele, che la brezza colpì, e le navi guadagnarono gagliarde il mare aperto […].
Ora, quando Lancillotto e le sue genti seppero che re Artù si avvicinava col suo esercito alla città, decisero di attaccarlo prima che si fosse trincerato. E l’indomani all’ora prima i cavalieri si riunirono davanti al palazzo, nella strada, dove Lionello ed Estor, i due re cugini, diedero l’ordine di battaglia. Fatto ciò, quelli della città uscirono, e l’armata di re Artù si abbatté su di loro: e così cominciò la mischia, dura e plenaria.
Non appena messer Galvano scorse Lancillotto, s’assicurò in sella, e sappiate che spinse in tal guisa sulle staffe che pensò di romperne gli staffili. I due si urtarono col fragore d’un tuono di Dio e si rovesciarono vicendevolmente a terra; ma messer Galvano cadde sì pesantemente che poco mancò che si rompesse il braccio.
Quanto a Lancillotto, rimontato sul destriero, si tuffò nella mischia, dove si mise a colpire a gran fendenti, con tale vigore che la spada batteva come ala d’uccello, e per primo uccise Alano d’Irlanda, che aveva preso il suo posto alla Tavola Rotonda.
Lionello, Estor, Bohor ed egli stesso sembrava fossero dappertutto; le loro spade balenavano come la fiaccola del cielo e, a vederli, le loro genti erano confortate quanto confusi erano i nemici; in breve, quel giorno quelli di fuori avrebbero perduto molto, non fosse stato per re Artù che faceva meraviglie nel difendere la propria gente e che tagliava a pezzi quelli che volevano fermarlo come non avessero avuto altra armatura che la propria debole pelle.
Venuta la notte, i cavalieri di Gannes, che erano meno numerosi, ruppero la mischia e si ritirarono nella città.
Tuttavia, la grande e meravigliosa battaglia riprese l’indomani e, per due messi e più, le due armate si combatterono quattro volte alla settimana: così morirono molti valentuomini e buoni cavalieri. Ma, alla fine di questo tempo, il re chiese una tregua di otto giorni, ché cominciava a pensare che da quell’assedio non avrebbe tratto grande onore.
«Galvano, Galvano – disse al nipote – temo che mi abbiate fatto mettere mano a cosa in cui abbiamo più da perdere che da guadagnare, tanto Lancillotto e i suoi parenti sono prodi nelle armi!».
Messer Galvano s’inginocchiò e rispose solamente: «Sire, per l’amor di Dio, concedetemi un dono!».
Il re glielo accordò volentieri e lo fece alzare prendendolo per la mano.
«Sire, il dono che mi avete fatto è di permettere che io accusi Lancillotto di tradimento: se egli osa sostenere di non aver ucciso a tradimento i miei fratelli, io proverò contro il suo corpo che egli l’ha fatto e, se potrò colpirlo, non chiederò di più, e neanche voi; ma se sarò vinto, gli accorderete una buona pace per sempre, così come al suo lignaggio».
A tali parole, il re sentì che gli sgorgavano le lacrime; avrebbe di buon cuore dato le proprie migliori città perché il nipote non ingaggiasse simile battaglia! Ma già messer Galvano aveva mandato a chiamare uno dei suoi scudieri e l’aveva incaricato di portare il messaggio a Lancillotto.
«Signore – disse piangendo il valletto – se piace a Dio io non consegnerò affatto questo messaggio! Desiderate tanto andare alla morte? Abbiate pietà di voi stesso: non siete giovane e nella vostra vita avete fatto abbastanza d’armi!».
Ma messer Galvano gli rispose che simili parole non servivano a nulla, e il valletto dovette obbedire al proprio signore. Al mattino si presentò dunque davanti alla città e fu accompagnato da Lancillotto che, dopo averlo ascoltato, cominciò a sua volta a menar gran duolo.
«Ah! bell’amico – disse al valletto – non avrei voluto combattere contro monsignor Galvano che considero gran valentuomo e che sempre, da che son cavaliere, m’ha fatta sì buona compagnia! Ma come non rispondere, quando mi accusa di tradimento, che è la cosa più vile al mondo? Più di lui, preferirei incontrare i due più prodi compagni della Tavola Rotonda! Su, andate a dire a monsignor il re che vorrei parlargli».
Il valletto obbedì all’ordine e il re, appena ebbe saputa la risposta di Lancillotto, mandò a chiamare monsignor Galvano, re Carados e re Ion, e tutt’e quattro si avvicinarono disarmati alla porta della città.
Lancillotto si affrettò a uscir loro incontro e salutò re Artù: ma questi non gli rese il saluto, pensando che, se l’avesse fatto, il nipote se ne sarebbe dispiaciuto.
E infatti messer Galvano s’affrettò a parlare per lui: «Lancillotto, messere il re, mio zio, è venuto a darvi garanzie che, se mi vincerete in combattimento, abbandonerà l’assedio e tornerà nel regno di Logres».
«Messer Galvano – disse Lancillotto – se voleste, rinunceremmo a questa battaglia, benché dopo la vostra accusa di tradimento io non possa recedere senz’onta. E sappiate che non parlo affatto per codardia ché, armato e montato sul mio destriero, saprò, se piacerà a Dio, difendere il mio corpo contro il vostro. Ma io tanto spero di aver pace con voi che, per questo, volentieri vi renderò omaggio con tutta la mia parentela, salvo i miei cugini, che sono re; domani partirò da Gannes, a piedi nudi, in camicia, e se necessario resterò in esilio per dieci anni, solo; e se durante questo tempo dovessi morire, vi perdonerei la mia morte, purché al mio ritorno io abbia la vostra compagnia e quella di monsignore il re come un tempo l’avevo. E vi giuro su tutti i santi che io non ho ucciso a sangue freddo Gaheriet, vostro fratello, e che la sua morte m’è stata causa di grande dolore».
Udendo Lancillotto così parlare, tutti i presenti sentirono l’acqua del cuore salir loro agli occhi.
«Galvano – disse il re – bel nipote, fate ciò di cui vi prega Lancillotto, ché mai valentuomo offrì tanto a un altro per riscattarsi!».
«Le preghiere sono inutili – rispose messer Galvano. – Preferirei aver il cuore strappato dal petto che rinunciare alla mia battaglia. Che sia per me morte, o vita! Ho sì gran dolore della morte di Gaheriet, che mi è più dolce morire che vivere senza averlo vendicato».
E tese il pegno.
L’indomani, al mattino, Lancillotto non mancò di uomini nobili che lo armassero e, quando fu pronto, montò un destriero forte e vivace, coperto di ferro fino agli zoccoli. Tutti gli altri si misero a cavallo per accompagnarlo al prato, sotto le mura, ove la battaglia doveva aver luogo: dopo di che si ritirarono nei barbacani della città; ché era stato convenuto tra re Artù e re Lionello che nessuno si sarebbe avvicinato, qualunque cosa fosse accaduta.
Giunse a sua volta messer Galvano, scortato da una folla di conti e di baroni; ma tanto sembrava allegra la compagnia di Lancillotto, quanto cupa pareva la sua. Re Artù, tutto dolente, lo prese per mano e l’accompagnò al campo; allo stesso modo, re Bohor condusse Lancillotto. Poi i due re si allontanarono e i campioni, dopo essersi segnati, dettero di sprone e si slanciarono con tutta la velocità dei destrieri.
Il giorno era bello e chiaro, e il sole brillava sulle loro armi; ma, quando si incontrarono, si credette di udire il tuono: le lance si spaccarono all’altezza dell’impugnatura, e i pezzi furono scagliati fino al cielo, ed essi si urtarono sì rudemente coi corpi che poco mancò che si schiantassero: li avreste visti volare in aria! Allora i cavalli, alleggeriti del peso dei loro padroni, fuggirono ciascuno dalla propria parte, senza che alcuno pensasse nemmeno a fermarli.
Il primo a rialzarsi fu Lancillotto; ma era ancora stordito per la caduta e non sapeva dove fosse. E messer Galvano, dopo aver raccolto lo scudo che gli era saltato via dal collo, fece risplendere la sua buona spada Excalibur, che re Artù gli aveva prestata per quel combattimento e con la quale assestò a Lancillotto un tal colpo sul capo che l’elmo ne fu tutto ammaccato.
Sappiate però che l’urto fece tornare in sé Lancillotto: egli rispose senza turbarsi e le lame lucide e taglienti cominciarono a balenare più veloci del vento, andando, venendo, salendo, scendendo. Così, per lungo tempo, l’acciaio morse l’aria: gli scudi caddero in pezzi, gli elmi persero le pietre preziose che erano di grande valore, le maglie dei giachi saltarono e spesso le spade toccarono la carne nuda, facendo scorrere il sangue: di modo che a terza, se i due campioni fossero stati in forze come all’inizio, non sarebbero rimasti a lungo in vita, tanto le armature erano spaccate; ma erano stanchi al punto che le spade ruotavano loro in mano quando si colpivano.
Allora messer Galvano, per primo, indietreggiò e s’appoggiò sui resti dello scudo per riprendere fiato. Lancillotto l’imitò.
Vedendo ciò, Lionello disse a bassa voce a Estor: «Bel cugino, ho paura e temo per Lancillotto! È la prima volta che lo vedo riposare durante una battaglia!».
«Sire – rispose Estor – lo fa per amore di monsignor Galvano; so bene che non ne ha bisogno!».
Intanto, i due cavalieri restavano immobili, appoggiati agli scudi. E messer Galvano, certo, aveva ragione ad aspettare in tal guisa, ché egli era sì fatto che, a misura che si avvicinava l’ora del mezzogiorno, le sue forze aumentavano, per diminuire poi poco a poco, finché tornavano al loro normale vigore. Ma dirò come aveva ricevuto questo dono: infatti questo racconto non lascia nulla di oscuro, tanto è ben informato.
Quando egli nacque re Lot d’Orcanie, suo padre, lo fece portare da un eremita che conduceva vita sì santa che spesso Nostro Signore compiva miracoli per suo tramite. Il valentuomo lo battezzò volentieri e lo chiamò Galvano.
«Bel signore – disse uno dei cavalieri che avevano portato il bambino – fate che il regno di Orcanie si vanti di voi e che questo bambino, quando sarà in età di portare le armi, sia più abile di chiunque altro».
«Signore, non è da me che vengono tali grazie, ma da Nostro Signore. Pregherò Dio per lui. Restate qui fino a domattina».
E l’indomani, dopo aver cantato messa, il valentuomo andò a dire al cavaliere: «Sappiate, bel signore, che questo fanciullo sarà più valoroso dei suoi compagni, e che a mezzogiorno, che è la stessa ora in cui ha ricevuto il battesimo, il suo vigore e la sua forza saranno sì grandi che, per quanta pena e fatica abbia patito sin dal mattino, egli si sentirà fresco e leggero come se non avesse fatto cosa alcuna».
Per questo, quando messer Galvano combatteva un cavaliere di grande prodezza, lo tormentava e l’incalzava quanto poteva fino a mezzogiorno: in quel momento, egli si sentiva più fresco e vigoroso di quanto fosse stato all’inizio della battaglia, e non aveva pena a vincere il nemico stanco.
Ora, parve abbastanza chiaro che egli possedeva questo dono il giorno in cui combatté il figlio di re Ban di Benoic, ché a mezzogiorno d’improvviso gli si precipitò addosso e si mise a colpir sullo scudo, il giaco e l’elmo come su un’incudine, tanto che lo ferì in più di dieci punti.
Lancillotto si riparava del proprio meglio, ma soffriva molto, e re Bohor non poté impedirsi di dire ad alta voce: «Dio! cosa vedo! Prodezza, cosa ne è di voi? Ah, bel signore, siete forse preso da un incantamento, per aver la peggio contro un solo cavaliere?».
E così fu fino all’ora sesta. Ma, in quel momento, Lancillotto che aveva ripreso fiato si precipitò a sua volta contro monsignor Galvano e cominciò a colpirlo con fendenti sì forti, che lo fece vacillare e gli riprese molto terreno. Di modo che l’altro si vide ben presto in gran pericolo di morte: già il sangue gli colava dalla bocca e dal naso.
A vespro, i due cavalieri erano feriti in tanti punti che altri al posto loro sarebbero già morti. Lancillotto colpiva ancora, ma messer Galvano, per dure che avesse le ossa e solidi i nervi, aveva appena la forza di sollevare lo scudo.
Vedendo ciò, il figlio di re Ban indietreggiò di qualche passo, e: «Signore – disse – sarebbe ben giusto che voi mi consideraste libero, ché colui che accusa di tradimento, se non ha vinto prima di vespro, ha perduto la disputa. Abbiate pietà di voi stesso!».
«State certo – rispose messer Galvano – che uno di noi deve morire in questo campo».
Così dicendo, agguantò Lancillotto per la vita, ma costui, che ben sapeva lottare, gli fece lo sgambetto e l’abbatté rudemente sul ventre; poi andò davanti al re.
«Sire – disse – vi prego di chiedere a monsignor Galvano che desista da questa battaglia, ché, se continuiamo, gliene verrà sventura».
«Lancillotto – rispose il re colpito da tale magnanimità – Galvano farà come vorrà; ma voi potete lasciare il combattimento, ché l’ora dei vespri è passata».
«Sire, se non temessi il vostro rimprovero, lascerei questo campo».
«Non potreste far nulla di cui possa esservi più grato».
«Dunque, me ne vado col vostro congedo».
«Siate raccomandato a Dio come il migliore dei cavalieri e il più cortese».
Dopo di che, Lancillotto uscì dal campo e tornò verso i suoi.
«Cosa fate, bel signore? – gli gridò Estor mentre egli si avvicinava. – Vi lascereste sfuggire il vostro nemico mortale che vi accusa di tradimento? Vi avrebbe fatto morire, se avesse potuto! Tornate indietro, bel signore, e tagliategli il collo: così la nostra guerra sarà finita».
«Che Dio mi aiuti! Preferirei aver ricevuto un colpo di lancia in petto che uccidere un uomo sì valente!».
«Tanto peggio! – disse re Lionello. – Credo che vi pentirete della vostra magnanimità».
(La morte di Artù, 26-28; 31)