Si potrebbe, a questo punto, trarre la conclusione che ci siano due specie di tempo: il «tempo che abbiamo» di volta in volta (e di cui si è detto che è accennativo, datato, dimensionato e pubblico), e il tempo in quanto mera serie di «ora».
Qualunque cosa possa essere osservato a tale proposito, una cosa nel corso dei nostri seminari dovrebbe essere diventata chiara: nella trattazione e delucidazione dei fenomeni non ci è lecito trarre alcuna conclusione. Ciò che i fenomeni, vale a dire ciò che si mostra, pretendono da noi è solo che noi li scorgiamo e prendiamo quali essi si mostrano. Solo questo. Il che non è meno di una conclusione, bensì di più, e perciò difficile.
Il fenomeno con cui abbiamo qui a che fare, è il nostro «dire» di avere o non avere tempo. E allora noi domandiamo: che cosa significa «avere tempo»? Il tempo qui nominato, non è una cosa come, per esempio, una casa. L’avere non è qui un possedere della specie di quell’«avere», secondo cui il possessore di una casa ha la sua casa, anche qualora non la abiti.
Il tempo nominato non è nemmeno qualcosa come l’angoscia, che noi abbiamo, giacché il tempo non è un sentimento, una tonalità affettiva [Stimmung], un «essere in una tonalità affettiva», sebbene tali stati possano stare in una strana relazione col tempo.
Sia richiamata l’attenzione solo sulla noia, un fenomeno che già nel suo nome rende noto un rapporto – certo ancora a malapena rischiarato – col tempo. Perciò, per il nostro proposito complessivo, potrebbe essere fecondo se potessimo addentrarci in una interpretazione fenomenologica della noia.
Prima però, un’indicazione evidente dovrebbe aiutarci ad andare avanti nel tentativo di determinare più chiaramente l’«avere» il tempo. È da considerare sempre di nuovo il fatto che già il modo di dire «ho tempo» ci inganna facilmente, in quanto esso ci induce a supporre che da un lato ci sia il tempo, dall’altro un avere, che in quanto tale non ha nulla a che fare col tempo. Possiamo, infatti, avere in molti modi, non solo cose, ma anche ciò che concerne immediatamente noi stessi, in quanto ci appartiene. Ho un braccio fratturato, ho zufolii negli orecchi, ho dolori di stomaco, ho angoscia.
L’«avere» intende qui ovunque lo stesso indifferente rapporto con ciò che noi abbiamo? Un rapporto che si mantiene persistentemente come medesimo, in modo che soltanto ciò che di volta in volta è avuto sia qualcosa di diverso?
Si risponderà che nell’avere un braccio fratturato, nell’avere zufolii negli orecchi, nell’avere dolori di stomaco, nell’avere angoscia, ci troviamo situati (emotivamente) in un modo di volta in volta diverso; la situazione emotiva è di volta in volta un’altra – corrispondentemente a ciò che abbiamo.
Perciò, l’«avere» è di volta in volta solo un avere dal tono sentimentale diverso, mentre per il resto sarebbe il medesimo avere, il semplice rapporto con l’avuto, il quale rapporto, cioè l’avere, in sé non ha nient’altro a che fare con ciò che è di volta in volta avuto.
O la cosa sta in modo del tutto diverso?
Scegliamo un caso che ci renda subito un po’ più chiaro il vero stato di cose.
Ho angoscia. Vivo nell’angoscia di qualcosa di minaccioso, di cui non so dire che cosa sia. Mi angoscio, o ancora più precisamente, poiché non sono io che mi procuro l’angoscia, bensì in quanto è essa che pervade me, diciamo: mi viene angoscia, mi angoscia. Come sta la cosa con l’«avere» in tale avere angoscia?
È l’avere stesso, e proprio questo, angosciato. L’angoscia dimora proprio in questo avere. L’avere è il trovarsi situato emotivamente nell’angoscia. Anzi no, l’angoscia è essa stessa questo trovarsi situato emotivamente.
Che cosa desumiamo da questa delucidazione provvisoria riguardo al suddetto «avere angoscia»?
Nulla di meno che questo: che in questo caso l’«avere» non è un rapporto indifferente con ciò che abbiamo, bensì che l’avuto qui nominato, l’angoscia, non è affatto l’avuto, bensì propriamente l’avere stesso. Non si dà un’angoscia che si possa avere, bensì si dà un avere in quanto trovarsi situato emotivamente in questo o quel modo, la quale situazione emotiva si chiama nel nostro caso angoscia.
L’angoscia si trova solo nell’ambito del trovarsi situato emotivamente, ha il tratto fondamentale della situazione emotiva, che può essere interpretata in quanto essere, di volta in volta, in una tonalità affettiva.
Il nostro tema conduttore è il tempo, e innanzitutto l’avere tempo. Ed ecco, a questo punto, con un certo diritto, diremo che ciò che abbiamo notato circa l’avere angoscia non si può trasporre all’avere tempo, giacché il tempo non è una tonalità affettiva, né un essere in una tonalità affettiva come l’angoscia.
Dire che un uomo sia temporalmente intonato affettivamente sembra essere senza senso. Ora, neanche noi pensiamo semplicemente a trasporre all’avere tempo ciò che è stato provvisoriamente notato circa l’avere angoscia. […]
Si potrebbe infatti far valere che l’angoscia non ci assale ovunque e sempre, allo stesso modo in cui il tempo ci concerne costantemente e inevitabilmente. Nondimeno, la delucidazione dell’avere angoscia è stata intenzionalmente premessa alla riflessione sull’avere tempo.
Con quale intenzione?
Per far vedere quanto strano e sorprendente possa essere il rapporto, per noi tanto comune, dell’«avere» con ciò che di volta in volta è «avuto».
Ora, però, vogliamo tentare, senza pregiudizi, una riflessione sull’«avere» nel fenomeno dell’«avere tempo».
In generale, avere significa che qualcosa ci appartiene, che lo possediamo, che in qualche modo ne disponiamo.
Un amico domanda: hai tempo domani pomeriggio per una passeggiata?
Dopo breve riflessione, rispondo: sì, ho tempo.
Nel delucidare una tale asserzione, nel nostro approccio alla locuzione «avere tempo», può sembrare che stiamo parlando dei significati delle parole nell’uso linguistico. Nondimeno, noi intendiamo la cosa, il fenomeno, non le parole; sebbene ogni fenomeno si mostri solo nell’ambito del linguaggio. […]
Ora, se dico che «ho tempo», nel detto «avere» il tempo stesso non è reso «oggetto», e non è affatto considerato tale. Semmai, sto pensando a ciò per cui ho tempo. Nell’«avere tempo» per qualcosa, sono rivolto all’«in vista di cui», a ciò che è da fare, a ciò che è imminente. Sono in attesa di esso, e però lo sono in modo tale che, allo stesso tempo, permango ancora presso ciò che mi è direttamente presente, ciò a cui presentemente attendo, laddove inoltre, espressamente inteso o no, nel contempo serbo ciò che poco fa e precedentemente mi occupava.
Il tempo che, in questo caso io ho, ce l’ho che sono insieme «in attesa di», «in presenza di», e «serbante». Questo triplice modo, in cui io sono, è l’avere il tempo per questa e quella cosa. Questo avere, cioè essere in attesa di, essere in presenza di, serbare, è l’elemento temporale.
L’avere, nell’«avere tempo», non è un rapporto indifferente col tempo in quanto oggetto. È, piuttosto, l’elemento temporale, in quanto in esso si temporalizza ciò che chiamiamo il soggiornare dell’uomo. Questo [elemento] è caratterizzato dal fatto che in esso, cooriginariamente, si dà – ma non nella stessa misura – ciò che viene verso di noi, ciò che è presente e ciò che è passato. Questo triplice temporalizzarsi del soggiornare produce sempre un tempo per qualcosa, ha da assegnare un tale tempo, da assegnare il poi, l’ora, il prima, con cui noi facciamo i conti col tempo.
Confesso senz’altro che questi semplici fenomeni sono difficili da scorgere, e ciò per l’unico motivo che noi da lungo tempo, e oggi perfino più di prima, perseveriamo nell’abitudine di rappresentare il tempo solo come il susseguirsi constatabile di una sequenza di «ora».
Ora, tuttavia, Loro capiscono anche perché venne premessa la breve interpretazione dell’avere angoscia – nell’intenzione, cioè, di allentare lo sguardo fisso al tempo in quanto serie di «ora», e di renderlo libero per riuscire a comprendere che, come nell’avere angoscia l’angoscia risiede nell’avere, così anche nell’avere tempo, se pure non allo stesso modo, ma in un certo modo simile, il tempo si svolge nell’avere, nel senso di quella temporalità «essente in attesa di», «essente in presenza di», «serbante». […]
Una cosa però dovrebbe essere diventata chiara: che non cogliamo affatto il fenomeno «ho tempo per», se ci limitiamo a trascriverlo nella proposizione: c’è tempo, del tempo semplicemente presente. Con ciò, infatti, perdiamo di vista proprio il fenomeno dell’avere e supponiamo il tempo soltanto come semplicemente presente, quasi che il tempo per qualcosa giacesse dinanzi a noi come un oggetto, e come una cosa qualsiasi, semplicemente presente, noi potremmo non prenderlo in considerazione, per assumerlo in concreto, pure occasionalmente e incidentalmente, come un ovvio «essente semplicemente presente».
Il rapporto che di volta in volta abbiamo col tempo, non è affatto un rapporto tenue, di poco conto, bensì è proprio il rapporto che sorregge il nostro soggiornare mondano. Il tempo che di volta in volta abbiamo o non abbiamo, sacrifichiamo o sciupiamo, è ciò di cui noi in un certo modo disponiamo, ciò che possiamo ripartire secondo la nostra convenienza o ordinare in questo o quel modo, e però beninteso in quanto tempo.
Noi dunque riuniamo insieme di volta in volta in questo e quel modo ciò che è passato, ciò che è presente, ciò che è imminente. Congiungere significa: riunire insieme ciò che passa avvolgendosi nelle sue stesse pieghe, e così formare e produrre la commettitura temporale di volta in volta attuale, e in tal modo temporalizzare il soggiornare.
Ci prendiamo e ci lasciamo tempo, in quanto nell’«essere in attesa di» lo serbiamo, ne siamo in presenza e attraverso ciò lo teniamo a disposizione in quanto quello di volta in volta attuale.
Il tempo, di volta in volta disponibile e disposto per qualcosa, si forma in quanto tale nell’«essere in attesa di», «serbare», «essere in presenza di».
Ciò, nella sua triplice unità, costituisce la temporalizzazione del tempo, che noi abbiamo o non abbiamo. Qui però resta ancora del tutto oscuro in che modo sia da determinare l’unità di questo elemento triplice della temporalizzazione.
(Heidegger, Seminari di Zollikon)
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Avrai notato che Heidegger, appresso alla questione del Tempo, o con la scusa del Tempo, ci ha condotto all’incirca dalle stesse parti di Agostino: dalle parti della Parola. Meglio ancora: dalle parti del Soggetto Parlante.
Il Tempo, dicono entrambi, è nel «dire». Finanche l’orologio «dice» il Tempo: vabbè, dice solo quanto tempo, ma in ogni caso dice per conto dell’uomo. E proprio perciò, in quanto ovunque è «detto» (o espressamente dalla bocca di un uomo, o indirettamente attraverso i mezzi artificiali, le appendici tecniche, del suo «dire»), il Tempo è un fenomeno che, come tutti fenomeni, «si mostra solo nell’ambito del linguaggio», dice Heidegger. Il Tempo si mostra solo perché lo diciamo. E, ovviamente, solo a chi lo dice.
Perciò, se cerchi il Tempo, non c’è altro luogo a procedere che nel «dire» del Soggetto Parlante. Ma in questo «dire», se dai ascolto al consiglio del nostro fenomenologo, non farti catturare dai significati delle parole per cui dovrai comunque passare. Tieni di mira, egli dice, la «cosa»! Non perdere di vista il «fenomeno» così come e, attenzione!, dove si mostra. Si mostra, s’è detto, solo nel dire, solo nel Linguaggio Simbolico: questo è il «dove» dell’apparire del «fenomeno» Tempo. In quanto al «come», è presto detto: si mostra confuso con tutti gli altri fenomeni, per i quali il nostro dire si trova a dire «avere».
Avere non si dice solo del tempo. Dobbiamo perciò passare per i significati di «avere», per gli usi e i modi di dire «avere» (che non sono mai gli stessi da una lingua all’altra), ma senza farci distrarre dal fenomeno in questione, per metterci in cerca del presunto Significato originario della parola «avere». Bensì – dall’uso differente che in concreto ne facciamo, di questo strano «avuto» che si chiama Tempo – cominciare a coglierne la differenza rispetto a tutti gli altri «avuti», siano essi «oggetti» o «sentimenti», cose o stati emotivi.
Il Tempo non è né un oggetto, né un sentimento. Non lo si possiede, né mantiene sempre lo stesso colore, lo stesso tono, la stessa Stimmung.
Il «dire», nel dire «avere tempo», lo confonde con gli oggetti e i sentimenti che di volta in volta diciamo di «avere». È da questo groviglio che bisogna dunque stanarlo, e costringerlo a presentarsi al nostro cospetto. Costringerlo a venirsi a dire nelle nostre parole, a farci perlomeno una strizzatina d’occhio se per caso ci ascolta, di là dalle parole.
Heidegger, hai visto come se ne esce. Mentre Agostino, attraverso il dire, risale alla Memoria – Heidegger evoca insieme, per ogni «ora», tutta quanta la trinità del Tempo (passato, presente e futuro) e, quindi, tutta quanta la scala «emotiva» del Soggetto Parlante, del Soggetto, cioè, che «soggiorna» nella Parola, nel dire. Il solo che dice di avere tempo per … e che, mentre lo dice, lo assume allo stesso tempo in tutt’e tre le dimensioni – della Memoria, della Presenza, e dell’Attesa.
Non si tratta di dimensioni «oggettive» misurabili e quantificabili, e nemmeno di sentimenti o emozioni – ma delle tre dimensioni attraverso le quali si estende la nostra Parola, delle tre dimensioni che costituiscono e fondano la nostra Parola.
La nostra Parola non fa che rispondere a chi gliela rivolge. La nostra Parola non fa che dire secondo come ascolta. Se l’ascolta, ed è in grado di udirne i tre Richiami simultanei, essa allora soltanto può «dire» la sua, perché ha trovato le tre dimensioni entro cui estenderla.
La nostra Parola porta il tempo là dove e come ciascuno di noi l’ha udita. Lo riceve in consegna, uno e trino, Memoria Presenza Attesa, e da quel momento è in grado di «dire». In grado cioè di temporalizzare il suo soggiorno nel dire del Mondo Umano. Tutte le nostre emozioni, e quant’altro ci passa per la testa, i pensieri, Gedanken, come li chiama Freud, le sintesi a priori come pretende Kant, coscienza e inconscio, ma anche le patatine fritte e gli alberi coperti di neve, insomma tutto il «dicibile», il Soggetto Parlante lo «dice» perché ha trovato il luogo non-luogo dove poterlo «scrivere». Il tempo non è lo spazio, e tuttavia è solo spaziando nel tempo che egli giunge a «dire» parole.