Nietzsche – La storia è un equivoco

Il nostro mondo sensibile non esiste affatto in modo reale, si contraddice: è un inganno dei sensi. Ma che cosa sono, allora, i sensi? Le cause dell’inganno debbono essere reali. Ma dei sensi noi sappiamo solo mediante i sensi, e ciò rientra quindi nel mondo Picasso-Arlecchino-gioiosodell’inganno. Sicché, qualcosa, che non conosciamo, inganna, e il suo primo inganno sono i sensi.

Anche la nostra pluralità rientra in ciò: ma come potremmo noi, immagini fallaci, giungere a sapere qualcosa sull’inganno? Come potrebbe un’immagine onirica sapere di appartenere al sogno?
Perciò, dobbiamo essere anche quel che inganna: cioè noi dobbiamo anche essere reali, e in verità la nostra coscienza che il mondo è un inganno deve avere le sue radici laggiù, nella pura logica: questo siamo noi stessi, in qualche modo.

Dunque, come può il vero, verace, essere la causa del mondo fallace?
Deve averne la necessità: forse il vero è tormentato come un artista e cerca una redenzione, una evasione, in rappresentazioni e immagini piacevoli; la verità, forse, è il dolore, e la parvenza è una mitigazione, l’alternanza è l’aggirarsi di chi soffre profondamente e cerca una condizione migliore.

Ma forse il vero è anche pieno di piacere, e dilaga in fantasie come un artista (nascita della tragedia).
Il mondo è un fenomeno estetico, una serie di stati nel soggetto conoscente: una fantasmagoria che segue la legge di causalità.
Che il processo intellettuale emerga dapprima nel regno animale e che senza animale non potrebbe esservi il mondo, questo fatto rientra nella commedia per la quale il soggetto recita se stesso: è un delirio.

La storia è un equivoco – niente di più; la causalità è il mezzo per sognare profondamente, l’artificio per ingannare se stessi sull’illusione, l’apparato più sottile dell’inganno artistico.

(Nietzsche, Frammenti postumi, 10.E93)

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Primo: i sensi ci ingannano – i nostri sensi ingannano noi per primi, tramite i nostri sensi noi ci auto-inganniamo. Siamo perciò «ingannatori domestici», ingannatori «della Casa», inganniamo noi stessi, dobbiamo per primi ingannare noi stessi … a proposito della realtà del mondo reale.

Secondo: la nostra «pluralità», il nostro stare assieme, il nostro essere noi, popolo, tribù, società, famiglia o quant’altro, in ogni caso più persone tutte insieme prese nello stesso inganno, o nello stesso modo di ingannarsi a proposito della realtà del mondo reale, tutte a bazzicare gli stessi Paesi illusori – insomma questo nostro ingannarci a vicenda, questo inganno «esogamico», plurale, collettivo, sta all’inganno «singolare», privato, solitario, domestico, di ciascuno di noi, come un sogno alle immagini che sogna.
O anche, detto più volgarmente, come una gallina alle sue uova.

Chi viene prima? l’uovo o la gallina? la singola immagine fallace o la Falsità Collettiva? Insomma: chi è il Soggetto dell’inganno? chi è che realmente s’inganna a proposito della realtà? chi prende l’iniziativa, chi comincia, chi guida, chi trascina alla volta dell’Inganno?
È laggiù, dice Nietzsche, è «nella pura logica» in cui è radicata la nostra «coscienza», è nel logos allo stato puro, nel «dire» a prescindere di quel che dice, che riposa l’Inganno. Riposa nella nostra stessa costituzione umana: ovvero in questo (incomprensibile e irreversibile) rimettersi del Soggetto alla Parola per evadere dal suo chissà-dove.

Perché, dice, «questo siamo noi stessi, in qualche modo»: noi siamo quelli in cui questo Gomez-ritratto«primordiale» gesto evasivo del Soggetto Ingannatore si ripete.
In questo gesto a fuggire da, a scappare dalle grinfie di – il Soggetto ha dalla sua la Parola, e più in generale, l’Astuzia di ricorrere al Segno e, pur sapendo che è un Segno, la Bravura artistica a confonderlo con ciò che significa: a prendere cioè per reale ciò che sta al posto della realtà da cui il Soggetto (lo sa Lui perché, ammesso e non concesso che ci sia un perché, una ragione per cui) continua a evadere.

Il Soggetto inganna Se Stesso. E ripete l’Inganno dentro e fuori casa, perché non vuole essere messo al corrente dell’Inganno che perpetua a proposito di Se Stesso. Teme di fare la fine di Narciso: che il giorno che saprà di Se Stesso, sarà l’ultimo della sua messinscena esistenziale.
Solo a un Ingannatore di questo genere può venire in mente l’idea, o piuttosto la paura, di scoprire la «verità» che gli sarà letale. Solo a chi dice le bugie e, sciocco, pensa di essere il solo a dirle, può accendersi la lampadina di un’intuizione «giuridica» atta a secernere la parola vera dalla falsa testimonianza.

Dunque, come può il vero, verace, essere la causa del mondo fallace?
Come sfuggire all’evidenza che è il Falso a ideare il concetto di «verità»? il Falso a sognare una «realtà vera»? il Falso a mettere in scena il meglio del meglio del suo repertorio simbolico, del suo «dire» preso allo stato puro, colto alla radice della sua pazzia – là dove il Soggetto ha la necessità di mentire, e di dare credito alle sue proprie menzogne.

Questa «necessità» del Soggetto, questa «curvatura ad angolo» lungo la linea di fuga del suo venire qui e ora a mentirsi a proposito del suo «mondo», questo venire a rifugiarsi in quest’altro mondo – in questo Paese degli Spiriti che è il Mondo Simbolico, il Mondo dei Segni e delle Parole, il Mondo logico, il Mondo meta-psicologico, il Mondo dell’Inganno Ontologico – è insieme la sofferenza di Prometeo, il tormento di sentirsi rodere il fegato giorno per giorno, e il piacere di Niobe, la gioia di fecondare fantasie su fantasie, Wareham-famiglia-maschereimmagini dopo immagini fino a «dilagare» nella sua propria tragedia – e perciò questa «necessità» è anche il dolore, il travaglio di Madre Niobe, e il piacere di Prometeo di scippare il «fuoco» al Mondo da cui è in fuga.

Il Soggetto dunque «evade» perché è in fuga dal dolore, e cerca così soltanto una «mitigazione». Chissà. Forse è il contrario: forse il Soggetto è cacciato via, espulso da un certo posto pieno di piacere, da un Paese di Cuccagna, da una piena straripante abbondanza. Forse sono state proprie le sue «eccessive» fantasie a metterlo nei guai.
La Commedia e la Tragedia non sono che «forme» recenti del dire di un Soggetto che è, in un caso, «in fuga dal dolore» e perciò più facile a illudersi, ad attaccarsi ai balocchi del mondo reale (vuole ridere per dimenticare), e che, nell’altro, è «in esilio dal piacere» di cui godeva nel suo paradiso immaginale, e perciò più restio a credere alle bugie che pure dice (vuole piangere e disperarsi per la miseria del mondo in cui realmente è decaduto).

Sappiamo i gusti di Nietzsche. Sappiamo che è alla Tragedia che egli dà la preferenza: de gustibus.
Eccolo perciò ad accennare al suo disgusto per la favoletta facile facile che il Soggetto si racconta quando è comico e arriva a macchinare l’idea d’essere stato lui a prendere in mano il suo destino, d’averlo fatto quando ancora era un animale, intelligente già allora, molto prima di giungere a umanizzarsi. L’idea prometeica che, senza il fuoco rapito dalla sua Intelligenza ai Celesti, il mondo neanche sarebbe mai venuto alla luce. Così, «il soggetto recita se stesso: è un delirio».

Così, comicamente (secondo i gusti di Nietzsche), il Soggetto elude il nodo tragico, inconscio, del suo trovarsi – come un asino in mezzo ai suoni – sperduto in quest’altro mondo, che è il Mondo della Parola.
Gettato là, per via di un certo eccesso, per colpa di un certo moltiplicarsi delle immagini che facevano insuperbire la loro madre Niobe. Eccolo ora: pietrificato nel lutto di una Arno-uomo-robotperdita, e – come se non bastasse – nella certezza che niente e nessuno mai la potrà «colmare».
Ai suoi occhi, agli occhi del Tragico, la «realtà», la storia, non è che «un equivoco» – qualcosa che ci passa per la voce, che «pareggia», «accoppia» due voci diverse, e che tra le voci «differenti» istituisce rapporti di vario genere (temporale, causale, finale, consecutivo, ecc.): primo fra tutti, quello di causalità.

Questo succede per via di quello, questo è causa di quello: semplice, no?
Dicono che fu con questo trucco che i Grandi Prestigiatori dello Spirito ingannarono infine l’ingannatore.
Il principio di causalità spiega talmente tante cose che la sua «logica» ci mette poco a equivocare Se Stessa con l’ontologia e la «realtà». E più equivoca, e più ci aiuta a sprofondare nell’illusione che il Logos è la Realtà.
La tragedia, in fondo, è questa: è che, a volte, il Soggetto è restio a credere alle sue proprie fesserie. A volte, il Mago ha voglia di confessare a qualcuno il segreto, questo sì facile facile, dei suoi trucchi linguistici. Ma proprio allora, proprio a chi lo confessa, il Soggetto non fa certo un favore.
Gli ha tolto la sua prima illusione. Gli ha tolto la fede nella realtà.