Bretagna – La pace tra il re e la regina

assedio-castello

Quando vide il castello della Gioiosa Guardia assediato da re Artù, dall’uomo che aveva amato di più al mondo, che più gli aveva reso onore, e che adesso era suo mortale nemico, Lancillotto si sentì più addolorato di quanto si potrebbe credere.
Chiamò una pulzella: «Damigella – le disse – andate da re Artù e ditegli che mi stupisco che abbia dato inizio a una tale guerra contro di me. Se alcuno gli ha riferito che gli ho fatto onta con madama la regina, sono pronto a provare con il mio corpo e le mie armi contro due dei suoi migliori cavalieri che non sono colpevole. E se mi combatte per la morte dei suoi nipoti, ditegli che coloro che furono uccisi sono stati causa della loro morte. Che sappia che io sono afflitto per la nostra discordia più di quanto si potrebbe pensare, e che certo io aiuterò i miei e combatterò i suoi con tutto il mio potere, ma che lo tengo per mio signore e amico, pur se egli mi tratta come nemico mortale».

La damigella uscì dal castello e andò a riferire il messaggio al re. Ma, non appena ebbe riportato le parole di Lancillotto, messer Galvano esclamò: «Sire, sire, voi sareste disonorato e il vostro lignaggio umiliato, se accordaste la pace a Lancillotto dopo il gran danno che egli vi ha causato!».
«Galvano, qualunque cosa faccia Lancillotto, non avrà mai pace da me! Ditegli, damigella, che gli farò guerra finché avrò vita».
«Sire – riprese la pulzella – i saggi indovini della nostra epoca hanno predetto che la parentela di re Ban avrebbe vinto su ogni nemico. Ma, poiché da voi non ricevo che pulzella-Orleansparole di guerra e di odio, devo tornare dal mio signore e fargli sapere quel che gli mandate a dire».

E la pulzella tornò alla Gioiosa Guardia, dove raccontò a Lancillotto quel che aveva sentito. E fu per questo che l’indomani, al mattino, l’insegna vermiglia sventolò sulla terra principale del castello.
Non appena Bohor, Estor e le loro genti la videro, uscirono dal bosco silenziosi quanto poterono. Tuttavia, i loro cavalli fecero un po’ di rumore, e molti cavalieri di re Artù si misero a gridare: «Alle armi!» e, vedutisi così scoperti, essi dettero di sprone e cominciarono ad abbattere le tende e i padiglioni e a uccidere tutti quelli che incontravano.

Quando il re sentì le grida e il clamore, chiese in tutta fretta le proprie armi, e certo fece bene, ché era appena montato a cavallo che si vide il suo padiglione cadere e il drago che ne sormontava il palo mordere la polvere: era Estor a causare questi guasti, nella speranza di sorprendere il re.
Ma messer Galvano gli andò incontro dal fianco: lo urtò in pieno elmo, e sì rudemente che l’altro dovette abbracciare il collo del destriero per non cadere, poi si inclinò fino all’arcione, allorché messer Galvano lo colpì di nuovo; e forse sarebbe morto, se Lionello, che amava il cugino di grande amore, non si fosse precipitato addosso al nipote del re; gli assestò un colpo così forte che la spada penetrò di due dita nell’elmo, e messer Galvano, tutto stordito, fu trascinato via dal proprio cavallo.

Meravigliosa fu la battaglia davanti alla tenda di re Artù: avreste potuto vedere quelli di Logres vacillare come montoni al mattatoio! Eppure le genti di Bohor e di Estor, poco numerose e che si erano gettate nel mezzo del campo troppo arditamente, sarebbero state distrutte se Lancillotto non fosse uscito dal castello con i suoi.
Presto vi furono tanti uomini uccisi da una parte come dall’altra, che il cuore più duro sarebbe stato toccato da pietà: la terra era rossa di sangue. Bellinor fu ucciso da Bohor, e Vadahan il Nero da Estor, e il figlio del re di Norgalles da Lionello.

Ma colui che quel giorno fece più gesta d’armi fu messer Galvano: era sì dolente della morte dei fratelli, che uccise trenta cavalieri con le proprie mani. Fino a sera la sua spada volò più veloce del falco sulla preda, e davanti a lui le fila si scioglievano come cera.
Ma, quando cadde la notte, le genti di Lancillotto rientrarono nel castello e gli uomini di re Artù nel loro campo; tuttavia, una parte di questi ultimi dovette far la guardia per tutta la notte, ché si temeva una sortita dei cavalieri della Gioiosa Guardia.

battaglia-cavalieri

Dopo aver desinato, Lancillotto parlò ai compagni: «Signori, quelli di Logres non hanno molto di cui rallegrarsi: benché più numerosi, non hanno avuto, grazie a Dio, alcun vantaggio su di noi. Io faccio conto di uscire ancora domani e di attaccarli. Ma se è vostro avviso che sia preferibile restare nel castello, farò a vostra volontà».
Furono tutti d’accordo nel dire che preferivano il lavoro al riposo. E per questo, ancor prima che il sole avesse ripreso vita, essi si armarono e discesero in buon ordine nella pianura, dove le genti del re s’avanzavano a incontrarli. E la mischia, nei prati, sulle rive del Fiume dell’Ombra, durò dall’alba alla notte: sappiate che a sera non v’era più una sola armatura intatta.

Quel giorno re Artù indossò le armi, e certo nessun uomo della sua età avrebbe compiuto le prodezze che fece lui, ché allora aveva già settantacinque anni. Verso l’ora nona, incontrò Lancillotto e subito gli si precipitò addosso a spada levata.
Lancillotto non volle colpire: si contentò di coprirsi con lo scudo, di modo che il colpo scivolò e cadde sulla schiena del cavallo che ne rimase ucciso.
Ma Estor, crucciato al vedere il fratello a terra, si slanciò e, con un primo colpo di taglio sull’elmo, stordì il re, poi con un secondo lo fece cadere dal destriero; dopo di che urlò a Lancillotto-re-ArtùLancillotto: «Signore, tagliategli la testa. Ecco, la nostra guerra è terminata!».
«Cosa dite, Estor? Troppo spesso mi ha fatto bene e onore perché io non lo protegga con tutte le mie forze».

E, poiché lo scudiero gli aveva portato un destriero, egli lo porse al re.
«Sire – disse – spesso mi avete fatto dono di bei cavalli. Montate questo, se vi aggrada, e un’altra volta state meglio in guardia».
Grazie a ciò, il re se ne andò sano e salvo, pensando in cuor suo che Lancillotto aveva così superato in cortesia tutti i cavalieri presenti e a venire.
Pur tuttavia, la battaglia riprese l’indomani, e così l’assedio della Gioiosa Guardia durò due mesi e più.

Al termine di questo tempo, l’apostolo di Roma seppe che il re Artù aveva lasciato la moglie e si proponeva di farla morire, benché non l’avesse colta sul fatto. Così mandò a dire ai vescovi e agli arcivescovi di interdire e di scomunicare la terra di Logres fino a che il re avesse ripreso la regina Ginevra e si fosse risolto a trattarla come deve fare un marito con la sua donna onesta, e sposa.
Quando venne a conoscenza di tali ordini, il re ne fu ancora più dolente, ché amava ancora la regina: per questo dichiarò davanti a tutti i suoi baroni che avrebbe ben volentieri fatto pace con lei in obbedienza al papa.

E subito il vescovo di Rochester montò sul palafreno e andò a parlamentare.
«Signora, signora – egli disse alla regina Ginevra quando fu condotto innanzi a lei – bisogna che torniate dal vostro signore: lo ordina nostro padre il papa. Il re giurerà davanti alla sua corte di trattarvi come la sua signora».
Ma la regina gli chiese una dilazione per rispondere e, chiamati Lancillotto, Estor, Bohor e Lionello, riferì loro quel che le aveva detto il vescovo.
Allora avreste potuto vedere Lancillotto del Lago chinare la testa!
«Signora – egli disse infine – se dovessi fare quel che il mio cuore desidera, vi supplicherei di restare qui. Ma, poiché io valuto di più il vostro onore che il mio amore, vescovo-manoscrittovi consiglio di mandare a dire al re che domani tornerete presso di lui. Ahimé! se non accettaste l’offerta che egli vi ha fatta, tutti parlerebbero della vostra onta e della mia slealtà!».

Detto ciò, egli si mise a piangere, e la sua dama con lui, e anche Estor e Lionello. Infine la regina si asciugò gli occhi e andò a dire al vescovo che avrebbe acconsentito a tornare presso il re suo signore, purché egli promettesse di lasciar che Lancillotto raggiungesse la Gallia senza fargli il minimo torto. Cosa che il re concesse di buona grazia, non appena il vescovo gliel’ebbe chiesto.
«Per l’amor di Dio – pensava – se Lancillotto amasse la regina d’amore folle come hanno voluto farmi credere, certo non la lascerebbe partire in questa guisa, ché io ben intendo che egli potrebbe continuare la guerra ancora per mesi e che il suo castello non teme un assalto!».

Quella notte alla Gioiosa Guardia non vi fu cuore sì duro che non si commuovesse nel vedere il gran duolo che menavano Lancillotto del Lago e la sua parentela.
E, quando per la volontà di Dio l’alba apparve, Lancillotto rese alla regina – che mai più avrebbe rivisto! – l’anello che ella gli aveva donato quando egli per la prima volta si era accordato con lei, e la pregò di portarlo per amor suo.
Dopo di che, seguito dai suoi, tutti vestiti molto riccamente e montati su cavalli coperti di seta, ricondusse la sua dama al re.

(La morte di Artù, 22-25)

***

No, Lancillotto non ama Ginevra «di folle amore». La pensa così, e a ragione, re Artù: non c’è follia in Lancillotto, ché se così fosse non farebbe la fesseria di cedermi l’Amata. Egli l’ama, non c’è dubbio – ma non d’amore così «folle» come il mio. Sono io, infatti, il solo che pretende di amare Ginevra di amore esclusivo. Sono io il re che regna nel nome di questa «folle» gelosia.
No, non c’è follia in Lancillotto – ma nella Regola vigente nel mio regno che gli proibisce di amare la mia sposa: non desiderare la donna dell’altro, così sta scritto, e perciò è amore-libriaddirittura il papa a scomodarsi.
Che ne facciamo di Francesca e Paolo? Li mandiamo all’inferno?

Sulla riva del Fiume dell’Ombra, non distante dalla Gioiosa Guardia, Artù e Lancillotto si combatteranno fino alla fine del mondo, fino al giorno in cui non si riconosceranno vittime della «follia» della Legge. Non è forse la Legge che istiga a «desiderare» quel che alla lettera «proibisce»? Non è la Legge a sancire di chi è la «desiderata»? Non è Essa a imporre il suo statuto al regime immaginale dei desideri? A decretare: questa donna, è roba mia, e non si tocca?
C’è tanta Ombra sulla riva del Fiume del «tutto scorre». La Legge vieta, la Legge impedisce a re Artù di scordarsi di Ginevra. A settantacinque anni, pensate un po’, lo costringe a gettarsi nella mischia: sta scritto che Ginevra è sua, e il papa gli manda la sua benedizione.

Su, fate pace!
Che Paolo si rassegni a inseguire la sua Amata all’inferno, ma che almeno Lancillotto – sì, almeno lui che è leale – scampi alle fiamme della nostra follia!
Che pense? – domanda Virgilio a Dante. – Cosa ne pensi di questo amore?
Penso che Paolo non fu Lancillotto, avrebbe potuto rispondergli. Penso però che ogni amante giunge prima o poi sulla riva di questo Fiume infernale che scorre nelle vene delle parole d’amore.
Penso che amore è una parola, e desiderio un’immaginazione. Penso che amore è un vestito, e desiderio un corpo. Penso che amore è cultura, e desiderio natura. Penso che Lancillotto ama Ginevra, dacché ha abdicato alle aspirazioni del suo desiderio.

Narciso non ama la sua immagine allo specchio. La desidera.
Non c’è amore che nelle parole di Eco. Amore è il ritornello di molti desideri trascorsi e discorsi nel Fiume dell’Ombra. Rimossi e/o repressi. Di desideri destinati a ripetersi, per rimanere immemori, all’oscuro di se stessi.
Il desiderio non ha parole. L’immagine che dallo specchio riguarda Narciso è muta. Eppure tra Narciso e la sua immagine c’è qualcuno che parla!