Kerényi – Il rango di Niobe

O Niobè con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
(Dante, Purgatorio, 12: 37-39)

Dante aveva facile gioco con la figura di Niobe. L’immagine dell’esemplarmente punita non era per lui che un esempio della giustizia divina. Ovidio gli forniva il testo, mentre i rapporti di un cristiano col proprio Dio non gli permettevano di trarne una conseguenza Niobe-velatadiversa.
La superba, che era soltanto una regina sulla terra, eppure pretendeva una venerazione divina; che per nobiltà, potenza e figli visibili si anteponeva agli Invisibili: questa donna invasa dal peccato di superbia, col suo celebre dolore meritato, apparteneva, se non all’Inferno, certo almeno al Purgatorio. E la morte dei suoi figli innocenti non costituiva un argomento contro la giustizia divina più valido della strage degli innocenti a Betlemme.

Facile era anche per i cercatori di antichità che, scavando nella Vigna Tomasini presso il Laterano, riportarono alla luce le statue delle Niobidi, da allora in poi tanto ammirate. Per loro si trattava soltanto di «trovare tutta la storia». Diversi studiosi dell’antichità classica ugualmente non ci vedevano – esattamente come quei «cavatori» del XVI secolo – che una «storia», uno dei mille e mille volte illustrati racconti degli antichi.

Jacob Burckhardt non apparteneva al numero di costoro. Egli prendeva sul serio il racconto e lo trovava sufficientemente importante per fondare su di esso la sua critica storico-universale degli dèi della Grecia. «Guardate la sconsolata Niobe – fa dire a uno degli Olimpici – noi abbiamo distrutto i suoi figli innocenti al solo scopo di recarle indicibile dolore … noi non eravamo buoni ed è per questo che dovemmo scomparire».

Questa interpretazione non gira al largo di fronte alla difficoltà. Tenta invece di farlo ancora il Winckelmann che, in favore [del mito neoclassico] della bellezza, trascura il mostruoso dolore che madre e figli sopportano «in una angoscia indescrivibile, coi sentimenti storditi» e dice: «Tali condizioni, in cui cessa ogni sentimento e ogni ragionamento, sono simili all’indifferenza e non cambiano alcun tratto della figura e della formazione, di modo che il grande artista ha potuto dare forma qui a quella somma bellezza alla quale ha effettivamente dato forma: Niobe e le figlie sono, e restano, le idee supreme di questa bellezza».

Niobe-distesa

Agli occhi del Winckelmann, abituati allo stile patetico del Bernini, perfino l’opera di Skopa, o chiunque fosse l’autore degli originali del gruppo delle Niobidi, appariva soltanto come realizzazione del bello e non come espressione di qualcosa di terribile e di problematico.
Il punto di riferimento privilegiato, dove questa cosa umanamente così difficile da sopportare si rivela veramente sul piano della più alta bellezza che l’arte greca abbia mai raggiunto, è il trono di Zeus, in Olimpia – lo Zeus di Fidia – ornato con la scena della morte dei figli e delle figlie di Niobe. L’immagine del dio supremo, che i Greci consideravano quale la più sublime di tutte … quest’immagine riposava dunque su simili scene [di crudeltà]…

Ma erano, queste scene, prive di significato, scelte per ornare il trono senza alcuna intenzione particolare? Erano cioè puro e semplice ornamento?
Fidia, e l’arte greca nel suo più alto fastigio classico in Olimpia, erano ancora così duri e così inumani, oppure così insensibili e spensierati, da applicare al trono di Zeus, per esaltare il padre degli dèi e degli uomini, il sacrificio di giovinetti e di fanciulle?
Perché è di sacrificio che si tratta, e non di una giusta punizione: la giustizia di Zeus presuppone una precedente lucida «crudeltà» quale suo oscuro fondamento […]

In tutte le versioni della sua storia, Niobe sta molto vicino agli dèi, sia quale figlia di Tantalo, sia quale Prima Donna. Anche in Ovidio la Tantalide si vanta non meno della Fidia-Zeus-Olimpiasua origine divina che del numero dei suoi figli.
Il mito della sua trasformazione in una roccia eternamente lacrimante in Asia Minore era per i Greci una testimonianza del suo originario rango divino: la grande Dea Madre micro-asiatica era troppo collegata a monti rocciosi. Con essa Niobe aveva i nessi più intimi, anche secondo il luogo dove si mostrava la sua immagine pietrificata: il monte Sipilo, dietro a Smirne. E anche il nome, «Niobe», proviene dall’Asia Minore: esso ha la stessa desinenza caratteristica del nome della regina di Troia, «Hekabe» [Ecuba], e della stessa Grande Madre degli dèi che non si chiamava solo Cibele, ma anche «Kybebe».

Sofocle allude ancora a questo rango divino, facendo pronunciare a Elettra l’invocazione:

E, Niobe, tu che tanto di dolore
peso sostieni, ahi,
io ti venero dea, che piangi eterna
dalla tomba rupestre.

Antigone che viene sepolta viva, sulla sua strada verso la tomba, si paragona a Niobe:

Della più triste fra le morti – udivo –
perì l’esule Frigia,
Niobe la Tantalide,
sulla vetta del Sipilo.
Com’edera tenace il vivo sasso
a sé l’avvinse, né le piogge lasciano
– com’è voce tra gli uomini –
di macerarla mai, né mai le nevi
dalle palpebre in pianto rifluenti
su quel dorso rupestre.
Come lei sarò io
sul pietroso giaciglio ove il mio demone
vuole che mi distenda.

Ma il Coro protesta contro queste parole e venera Niobe come un essere superiore:

Ma dea, ma stirpe di dèi,
fu Niobe: mortali nature
di padri mortali
siamo noi.

Boeckhorst-Niobe

Ci è pervenuta la notizia secondo cui la tribù micro-asiatica dei Cilici venerava Niobe come dea. Derivasse la coscienza della sua divinità dalla configurazione rocciosa del Sipilo o dal suo culto nella Cilicia, fatto sta che essa viveva ancora nella tragedia greca.
Ed è perciò tanto significativo il fatto che Eschilo, il plasmatore-poeta del materiale, più affine all’altro grande plasmatore, Fidia – nel destino di Niobe coglie ugualmente la condizione generalmente umana, anziché esemplificare una punizione giusta.

Su un papiro è stato ritrovato un frammento della sua tragedia Niobe: in esso la nostra affermazione trova un’esplicita conferma. Il personaggio che pronuncia quelle parole è una divinità. Le sue parole sono rivolte al pubblico, in un momento quando Niobe già da tre giorni siede muta presso la tomba dei figli.
Quale divinità poteva essere questo personaggio? Doveva essere Ermes, il messaggero degli dèi, presente in più di una tragedia di Eschilo. Sarà stato lui a impartire quell’insegnamento che Socrate respinge nella Repubblica di Platone:

Lo dico a voi che non siete insensati:
l’occasione, ai mortali, la crea il dio,
quando vuol rovinare una casa.

L’entrata in scena di Ermes si spiega probabilmente in questo modo: l’immenso muto dolore di Niobe, durando già da tre giorni, inquietava gli dèi e perciò Zeus ha mandato da lei il suo messaggero. Anche quando Demetra piangeva sua figlia e non voleva più toccare cibo, gli dèi erano costernati e facevano di tutto per far cessare il lutto e il digiuno.
L’ultimo canto dell’Iliade menziona la storia di Niobe proprio per dire che alla fine anche lei ha smesso di digiunare:

ma, sazia infin di pianto, del cibo ebbe anch’essa ricordo.

[…] Accanto a questa tradizione che ne ricordava l’originario rango divino, ci sono documenti di ordine ben diverso che fanno di Niobe la «Prima Donna», e come tale Niobe-roccia-lacrimantel’accostano al «Primo Uomo» greco.
Nelle varie regioni greche varie erano le tradizioni intorno a un Primo Uomo. In Argo, questi si chiamava Foroneo: egli ha fondato la prima città, egli ha portato il fuoco, egli ha sacrificato per primo – esattamente come Prometeo.
Assieme a questo Foroneo, Platone nomina Niobe (Timeo, 706b), come i Primi Uomini vissuti prima del Diluvio di Deucalione. Secondo una tradizione Niobe era considerata come madre di Foroneo, secondo un’altra come figlia e come la prima donna amata da Zeus. […]

Ma che vuol dire, nella mitologia greca, che Niobe è una «Prima Donna» – un «prototipo umano» – la «madre primordiale del genere umano»?
Vuol dire anzitutto lo scioglimento del paradosso insito nel fatto che Niobe è una dea e tuttavia porta il grave destino umano – l’essere puniti per una colpa umana. Così era anche Prometeo: un dio, anche lui, uno degli dèi più antichi, i Titani; e immortale, come gli dèi, egli portava, come qualcosa di eterno, la forma umana dell’esistenza.

I Greci consideravano mortali solo le singole persone umane: la maniera umana di esistere era per loro eterna – come il genere umano stesso.
Se mai un «mondo», è il mondo greco, coi suoi dèi, che può essere definito un «mondo dell’uomo». L’umano, astuto e sofferente, è in esso smisuratamente punito delle sue astuzie. L’umano è così inerente a questo mondo, che l’uomo si riconosce perfino in cielo: si riconosce, tra gli astri, in quello che è il più mobile, il più mutevole, il più partecipe dell’oscurità … la luna.

(Kerényi, Miti e misteri)