Mi si può opporre: «Ma come mai non ti venne in mente, povero Moscarda, che a tutti gli altri avveniva, come a te, di non vedersi vivere; e che se tu non eri per gli altri quale finora t’eri creduto, allo stesso modo gli altri potevano non essere quali tu li vedevi, ecc. ecc.?».
Rispondo: Mi venne in mente. Ma scusate, è proprio vero che sia venuto in mente anche a voi?
Ho voluto supporlo, ma non ci credo. Io credo anzi che se in realtà un tal pensiero vi venisse in mente e vi si radicasse come si radicò in me, ciascuno di voi commetterebbe le stesse pazzie che commisi io.
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Che se poi qualcuno vi fa notare che il naso vi pende un pochino verso destra… no? che ieri avete detto una bugia… nemmeno? piccola piccola, via, senza conseguenze… Insomma, se qualche volta appena appena avvertite di non essere per gli altri quello stesso che per voi; che fate? (Siate sinceri). Nulla fate, o ben poco. Ritenete al più al più, con bella e intera sicurezza di voi stessi, che gli altri vi hanno mal compreso, mal giudicato; e basta. Se vi preme, cercherete magari di raddrizzare quel giudizio, dando schiarimenti, spiegazioni; se non vi preme, lascerete correre; scrollerete le spalle esclamando: «Oh infine, ho la mia coscienza e mi basta».
Non è così?
Signori miei, scusate. Poiché vi è venuta in bocca una così grossa parola, permettete ch’io vi faccia entrare in mente un magro magro pensiero. Questo: che la vostra coscienza, qua, non ci ha che vedere. Non vi dirò che non val nulla, se per voi è proprio tutto; dirò, per farvi piacere, che allo stesso modo ho anch’io la mia e so che non val nulla. Sapete perché? Perché so che c’è anche la vostra. Ma sì. Tanto diversa dalla mia.
Scusatemi se parlo un momento a modo dei filosofi. Ma è forse la coscienza qualcosa d’assoluto che possa bastare a se stessa? Se fossimo soli, forse sì. Ma allora, belli miei, non ci sarebbe coscienza. Purtroppo, ci sono io, e ci siete voi. Purtroppo.
E che vuol dunque dire che avete la vostra coscienza e che vi basta? Che gli altri possono pensare di voi e giudicarvi come piace a loro, cioè ingiustamente, ché voi siete intanto sicuro e confortato di non aver fatto male?
Oh di grazia, e se non sono gli altri, chi ve la dà codesta sicurezza? codesto conforto chi ve lo dà?
Voi stesso? E come?
Ah, io lo so, come: ostinandovi a credere che se gli altri fossero stati al vostro posto e fosse loro capitato il vostro stesso caso, tutti avrebbero agito come voi, né più né meno.
Bravo! Ma su che lo affermate?
Eh, so anche questo: su certi princìpi astratti e generali, in cui, astrattamente e generalmente, vuol dire fuori dei casi concreti e particolari della vita, si può essere tutti d’accordo (costa poco).
Ma come va che tutti intanto vi condannano o non vi approvano o anche vi deridono? È chiaro che non sanno riconoscere, come voi, quei princìpi generali nel caso particolare che v’è capitato, e se stessi nell’azione che avete commessa.
O a che vi basta dunque la coscienza? A sentirvi solo? No, perdio. La solitudine vi spaventa. E che fate allora? V’immaginate tante teste. Tutte come la vostra. Tante teste che sono anzi la vostra stessa. Le quali a un dato cenno, tirate da voi come per un filo invisibile, vi dicono sì e no, e no e sì; come volete voi. E questo vi conforta e vi fa sicuri.
Andate là che è un giuoco magnifico, codesto della vostra coscienza che vi basta.
(Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 2: 1)
***
È ragionando «a modo dei filosofi» che ci siamo ridotti a non capirci più niente di io, di voi, e soprattutto di quella certa cosa «misteriosa» che tutti diciamo di «avere», e che chiamiamo coscienza. Continuiamo «a modo dei filosofi», da Cartesio in qua, a fondare ogni «inizio» sul cogito o sulla psiche di un «io», e da questo cogito individuale, da questa «anima» personale passiamo (alquanto frettolosamente) a prendere contezza, e certezza, del nostro «ergo sum». Fondiamo così ogni convincimento su questa certezza di «esistere», senza però mai darci la pena di domandarci che cosa voglia dire questo «esistere» che, cogitando, ci attribuiamo.
Gli alberi, le stelle, le nuvole, le onde del mare – esistono anche loro? e se così è, che razza di «esistenza» è mai quella che conducono se neanche sospettano d’esistere?
Si dice che non «hanno» coscienza. Come i bambini e gli uomini primitivi, o come gli ignoranti – ci teneva a precisare Leopardi.
E Leopardi aggiungeva: essi, gli incoscienti, sono felici. Il guaio, diceva, non è essere felici. Il guaio è sapere di esserlo. Il guaio è la coscienza di coloro che cogitano a proposito della loro felicità.
Perché Leopardi così la vedeva. Anche se non aveva ancora le parole di un Lacan per dirlo, vedeva che è la Coscienza, è l’Infelice ad «avere» (al proprio servizio) l’io di noialtri – era cioè abbastanza «fuori dal gioco», abbastanza escluso dalla Festa, da poter vedere il mondo alla rovescia dei comuni festaioli.
Lo vide, di là dalla «siepe»… ma poi lo perse nell’indefinito.
Lo vide, di là dalle «parole». Lo colse nell’eco. Nella ripetizione del «già detto». Ecco perché, poveraccio, finì anche lui, com’era stato già detto, per prendersela con la Natura che l’aveva fatto nascere brutto e storpio!
D’averlo «escluso» dal gioco erotico del dì di festa.
Si vide dunque «eccentrico» alla Piazza dei giochi, comprese che erano stati i libri, il Sapere, la Coscienza, a sciupare il suo mondo immaginario, ma se la prese lo stesso con la Natura.
Si levò – come molti di noi – per rinfacciarle: è colpa tua, se sono brutto!
Mancò il bersaglio. E si aggrovigliò in un labirinto senza vie d’uscita! In un tormento del proprio corpo.
Guarda invece Pirandello come, nello stesso labirinto, si diverte!
Io e voi – dice – spuntiamo insieme, e se tutti cogitiamo, non cogitiamo però tutti gli stessi pensieri. Io – dice – ho le mie pazzie. E voi le vostre. Solo che voi, a differenza mia, non avete coscienza della vostra pazzia. No, voi continuate a pensare che tutti vi vedono come vi vedete voi, che senza vedervi mai con gli occhi dell’Altro, ma sempre e solo coi vostri occhi, vi trovate belli e buoni, e bravi anziché no.
Pirandello si tiene ambiguamente tra la pazziella e la questione seria. Ma non per questo è meno profondo del «tragico» Leopardi.
In fondo, anche l’«infelicità» di Moscarda comincia il giorno in cui prende atto che il suo corpo non è all’altezza della sua propria immaginazione. Pure lui, come Leopardi, ha un problema di «immagine». Solo però che non si va a impelagare in una filosofia (pessimistica) della Natura. Ma si limita a contorcersi nei suoi pensieri. Si costringe a pensare pensieri da cui gli altri, lui crede, si tengono alla larga – perché sono pensieri di pazzo.
Sono costruzioni folli, fatte soltanto di parole. E una parola dopo l’altra, il filo della pazzia si perde nella moltiplicazione di vicoli e vicoletti nel labirinto di un’«inezia» qualsiasi: un difettuccio al naso.
Perché la Coscienza «s’impossessa» di noi, approfittando anche della minima debolezza. Si aggrappa per esempio al naso del povero Moscarda, e non lo lascia più.
Da questo momento in poi, Moscarda e tutto il suo immaginario non sarà che un «funzionario», un «io» appunto, al servizio della Pazza.
L’io è solo il «malato immaginario». La Coscienza, lei sì, che è una Macchina Impazzita. Da un bel po’!