Un dì del mese azzurro di settembre
quieto all’ombra di un giovane susino
tenevo il quieto e pallido amor mio
fra le mie braccia come un dolce sogno.
E su di noi nel bel cielo d’estate
c’era, ed a lungo la guardai, una nuvola.
Era assai bianca e alta da non credere
e quando la cercai non c’era più.
Dopo quel giorno molte e molte lune
con tante acque sono corse via.
Sono i susini già tutti recisi,
e dell’amore, mi chiedi, che fu?
E ti rispondo: non me ne ricordo.
Eppure, credi, so che cosa intendi:
ma quel suo viso, io, non lo so più.
Questo soltanto so: che la baciai.
E anche il bacio, l’avrei dimenticato
non fosse per la nuvola che passava.
Quella so ancora e sempre la saprò:
era assai bianca e mi veniva incontro.
Sono forse i susini ancora in fiore,
forse il settimo figlio già quella donna avrà.
Ma pochi istanti fiorì quella nuvola
e quando la cercai era già vento.
(Brecht, Poesie e canzoni)
***
Me lo ricordo ancora. La prima volta che lessi questa poesia (è passato quasi un secolo), ricordo che m’indispettì: non mi pareva un semplice oltraggio alle sdolcinerie d’amore, ma qualcosa di più irritante: dai, come si può dimenticare il volto di un’amata? e poi, com’è che il nome [Marie A.] te lo ricordi?
Oggi che la «rileggo», mi fa tutt’altro effetto. Oggi, tanto per cominciare, so che dimenticare è più «originario», a noi più intimamente «arcaico», del ricordare. So che addirittura non c’è nulla di più «esistenziale», ma sì – nulla di più «erotico» della dimenticanza. So che ricordiamo solo ciò che siamo impotenti a dimenticare. E che per dimenticare, non c’è che un modo: ripetere il gesto, o detto volgarmente: ritornare sul luogo del delitto. Insomma: rifare la scena. Ricominciare, punto e a capo – eterno ritorno sulla Stessa Incompiuta.
La baciai? Bene. Ne bacerò un’altra.
La dimenticherò baciando quest’altra, ripeterò all’infinito il «bacio», amerò così fino all’ultimo dei miei baci, sempre dimenticando le labbra che avrò baciate.
Di nessuna ricorderò altro che quella Nuvola Bianca che, di lassù, a ogni bacio, indiscreta mi spia – e forse m’invidia. Quella Nuvola, proprio non me la riesco a scordare. Quel suo «biancore» (che dire? la sua «immacolata» auto-sussistenza) ancora mi perseguita. Ed eccola qua. Come la macchia che avrei voluto macchiare coi volti delle Amate. Le baciavo apposta, perché le loro labbra mi distogliessero lo sguardo dalla Nuvola, e invece … la Nuvola è ancora qua, sfuggente come la prima volta.
È una «forma» più antica di ogni volto amato.
Una forma in cui ancora non ha preso forma nessun volto. Una Madonna che ancora non ha inviato nessuna Beatrice agli occhi di Narciso.
Una Matrice immaginale, una Datrice di Forme – che, per quanto «arcaica», è già essa una ripetizione che viene a dimenticare il suo «passato», passando ad altro, alterandosi – trasformandosi e presentandosi «a volo» tra una presenza e l’altra, senza mai «incarnarsi», o stabilizzarsi una volta per tutte, in una delle sue maschere di transizione.