La parte di Lancillotto

Ora, credo, lo possiamo dire: giusto o sbagliato che fosse, un tempo era così che si raccontava l’Inizio dell’avventura umana. Si raccontava di un Corpo «tagliato» in due metà – una di sopra (letteralmente: con la testa tra le nuvole e le piume di neve iperborea), e una di sotto, in principio tardiva e imbranata (che impara a camminare Dalì-Madonna-con-bambinosolo quando l’altra ha già mille e mille ore di volo a registro nel suo curriculum «visionario»).

Lo possiamo dire, spero: u guagliuncielle in carrozza di Parmenide, come la Volpe di Pinocchio, non cammina sulle sue gambe fino al giorno in cui quel diavolo d’un Gatto, o – nel nostro caso – «le cavalle», non lo menano sulla pubblica piazza. E là, sulla pubblica piazza, ma sì: nel Campo dei Miracoli, esattamente (si fa per dire) al numero 13 di via Polifemo – a lui sperduto in un mare di chiacchiere o, se preferisci, spaesato in un labirinto di segni, – venne un demone e lo iniziò a un altro Paese: al Paese Umano.
Simm’e Naple, paisà. Tu non sei di qui, tu sei fatto per parlare ben altra lingua: la Lingua che si parla nel Villaggio Umano.

Venne un demone e gli illuminò gli occhi o, come direbbe Rilke, glieli rivoltò nelle orbite, e là – dove fino a un istante prima il suo sguardo si perdeva nella Luce – ne apparve (elettrico?) un miraggio.
Là, sulla pubblica piazza, dentro la Chiacchiera – che fino a un istante prima il suo orecchio trovava «insensata» – ecco, d’un tratto, secondo come a ogni sguardo «detta» il demone della sua propria immaginazione, apparirgli da uno spicchio di mondo il Mondo, e insieme le sue città, e le sue vie …

la via che a ciascuno un demone illumina
e che di paese in paese mena
chi quelle {mille} voci
alla luce dei suoi occhi
se le traduce

Vi ricordate della stranezza che Carmelo Bene dice essergli capitata mentre declamava i versi di Mastro Dante da un’altana addossata alla Torre degli Asinelli? Gli successe – dice – di saggiare un istante di estatica solitudine, un po’ di sana follia visionaria, e questo: nientemeno proprio mentre arringava la Folla.
E di Moscarda, vi ricordate? dice che vorrebbe provare quella solitudine un po’ speciale Pryor-pulpitoche non consiste nell’essere da solo, bensì nello stare in compagnia di sconosciuti, e possibilmente in luogo a lui ignoto.

Sono due pazzi scatenati, a pensarla così. Due pazzi che hanno spezzato o che vorrebbero spezzare la catena a cui sono incatenati.
Oh, no – niente di «psicologico». Una buona volta, è lo stesso Mastro Freud che ce lo dice. Lasciate perdere i freudiani, perché questa «catena» non ha niente a che vedere con la «psicologia»! Qui siamo oltre. Qui siamo in pieno Oceano. Presi nelle vertigini dei suoi flutti «metapsicologici». Presi, ciascuno di noi, a tu per tu nei lacci della Lingua che gli parla in bocca. E che gli è divenuta, da tempo ormai, così familiare, così intima, così solita, così facile e a portata di voce, che neanche più si ricorda, a meno che non è pazzo come Carmelo Bene o Moscarda, che è essa, la Lingua, la Straniera.

Non so se, per essere re Artù, bisogna essere così vergognosamente fesso da sposare Ginevra che ama Lancillotto. So però che la via regia alla Fesseria è lastricata delle adulazioni della Moltitudine – Carmelo Bene ha bisogno della Folla, e Moscarda non può fare a meno di provare l’ebbrezza di estraniarsi a se stesso, giusto per saggiare quell’attimo – come chiamarlo, se non di sonnambulismo?

Il suo cuore batte ancora, è vivo. Il cuore di un vecchio pazzo ha tramandato a noialtri posteri la formula segreta d’un incantesimo.
Carmelo Bene lo sogna, Moscarda lo delira, tutti quanti abbiamo i nostri  incantamenti, le nostre solite follie. Le follie che ci servono a rinsavire. Specie nei sogni, è a esse che ci lasciamo andare. E ogni volta che, più o meno languidi, ci ricadiamo, finiamo per restarne di nuovo allucinati. Ecco perché poco o niente importa se siamo noi a essere così disperati da dover sognare d’essere farfalle, o viceversa se non siano le farfalle a non poter fare a meno di popolare i nostri sogni. Non importa, dice Freud, quello che il sogno vuol dire. Conta solo la domanda: a chi lo vuole dire?

Morski-farfalle

Vorrei qualcuno a cui poterlo dire. Uno sconosciuto a cui poter dire, in un luogo a entrambi sconosciuto, la mia fesseria. La fessura, passando per la quale entrai (eccomi! ci sono pur «io») nel Villaggio Umano – il paradosso di dover dire mille fesserie, pur di parlare di Lei, pur di far parlare Lei, la Signora del mio dire.
Vorrei uno Straniero a cui in lingua straniera parlare della Straniera – un «io» vorrei che, come il mio, si senta «eccentrico» alla Piazza, e tanto più «distante dal centro», se – come Carmelo Bene – da un palco ne presiede il Centro.

Vorrei l’altra «metà» del mio essere. La cerco perché l’ho perduta. Non mi appartiene. Sono io, semmai, che appartengo a Lei.
Come? non vedi che la porto sul groppone? mi sta appiccicata addosso! giusto o sbagliato che fosse, un tempo era così che si raccontava l’Inizio dell’avventura umana. Si raccontava di due «vicinissimi» (l’occhio e l’orecchio), ovvero di due «coinquilini» del piano di sopra che, un bel dì, come ammonisce la Pizia, si trovarono es polýphemon: in una «confusione» reciproca, e invece di soccorrersi l’un l’altro, si rimisero alla sentenza di una Straniera.
Si rimisero a Dikê. Che fosse Lei a dire il «destino», Lei a «destinare» chi la interpellasse – quale Terzo.

La puoi chiamare come ti pare: Lei è la Nutrice di tutte le nostre chiacchiere, la Chioma di Berenice di tutti i nostri cieli immaginali, ma ha bisogno di un «io» da lei dissociato, ha surreal-fessurabisogno di un «separato», di una «macchina celibe» con cui assieme «macchinare» la terzietà del suo dire.
Ha bisogno di un «cuore solitario» che si sia già cimentato, e più d’una volta, in un desiderio nuziale, e a cui ogni volta sia fallita la «fidanzata esogamica». Ha bisogno cioè che questo «cuore» volga il suo desiderio all’interno della Tribù: che non insegua più femmine «animali», che la sua «donna» se la cerchi della nostra Specie «umana», e che venga a cercarsela qui – sulla nostra Piazza. Perché l’Altrove è qui che abita, in via Polifemo. Abita nei «si dice». L’Altrove è il Libro, il suo Racconto, la Legge del suo Discorso.

Beato, dunque, quel pazzo che giunse, lui, ad apparire alla Madonna. Lui che, per un momento di sana follia visionaria, giunse a dare la sua voce al Pulpito, per provare – nascosto dietro il lettore dei versi danteschi – a ribaltare i ruoli, così giusto per dire alla Chiacchiera: guarda, che sono io a nutrire Te!
Io sono quell’altro – quello che una volta quassù, dalla Torre, «rivede» i suoi miraggi infantili e che, nel rivederli, «rivive» la follia di san Giuseppe da Copertino, la follia di un altro che a sua volta, eccetera ecc. lungo una stessa catena, tutti a passare per la fessura di una stessa trafila «linguistica», tutti cioè a imparare fesserie, e tutto questo solo per perdere il diritto a dire che il nostro Re è fesso e non vede che la Regina ha messo sotto scacco un altro. Sempre e di nuovo, un altro «io». Un altro pronto a fare di nuovo la parte di Lancillotto!