Ci fu un tempo in cui la terra non era ancora del tutto terminata, quando le montagne e i fiumi, e molte specie di animali e di piante, si stavano ancora formando. A quell’epoca uomini e animali parlavano una stessa lingua, e gli uomini sapevano trasformarsi in animali, e gli animali in uomini.
In quei giorni lontani, nascosti al nostro sguardo come in una bruma, viveva un coniglio, un coniglio molto vivace, giocoso e di buon cuore. Un giorno, mentre stava passeggiando, inciampò all’improvviso su un grumo di sangue.
Come e perché fosse là, nessuno lo sa. Assomigliava a una pustola, a una piccola vescica piena di liquido rosso.
Bene, il giocoso coniglio cominciò a giocarci, con quel grumo di sangue, scalciando lo menava di qua e di là, come se fosse un palloncino. Ma, così facendo, senza saperlo, il coniglio finì per essere posseduto da Takuskanskan, la potenza misteriosa del movimento, quella che anima e fa vivere le cose. Agitandosi di qua e di là per prendere a calci quel grumo di sangue, il coniglio finì per infondervi vita e movimento.
Ed ecco, quello cominciò a prendere forma: dapprima quella di un piccolo intestino. Il coniglio lo scalciò ancora un po’, e cominciarono a spuntare braccia e gambe sottili. Il coniglio continuò a colpirlo, e improvvisamente comparvero gli occhi e un cuore che batteva.
Così, senza volerlo, con l’aiuto della potenza misteriosa del movimento, il coniglio aveva creato un essere umano, un bambino. Il coniglio lo chiamò We-Ota-Wichasha – Ragazzo Sanguinolento, ma è meglio conosciuto come Ragazzo Coniglio.
Il coniglio lo portò a sua moglie, ed entrambi amarono quello strano bambino come se fosse il loro unico figlio. Gli fecero indossare un bel vestito di pelle di daino, che avevano dipinto col sacro colore rosso e decorato con ornamenti fatti di aculei di porcospino.
Il ragazzo crebbe felicemente tra i conigli. Ma quando fu quasi uomo, il vecchio coniglio disse: «Figlio, devo dirti che tu non sei quello che pensi di essere, cioè un coniglio come me. Tu sei un essere umano. Noi ti amiamo e ci dispiace immensamente lasciarti andare, ma tu devi partire e raggiungere la tua gente».
Ragazzo Coniglio si mise in cammino e raggiunse un villaggio di esseri umani, e là vide ragazzi che gli assomigliavano. Entrò nel villaggio. La gente, curiosa, non poteva fare a meno di guardare quello strano ragazzo che indossava un così bel vestito di pelle di daino.
«Da dove vieni?», gli domandarono.
«Vengo da un altro villaggio», rispose Ragazzo Coniglio, benché ciò non fosse vero. A quei tempi, infatti, in tutto il mondo non c’era che quel solo villaggio umano, perché allora, come detto, la terra era ancora al suo inizio.
Nel villaggio c’era una bella ragazza che presto si innamorò di Ragazzo Coniglio, non solo per il suo bel vestito, ma anche per il suo bell’aspetto e la sua gentilezza. Anche la gente del villaggio desiderava che lui si sposasse, perché voleva che un uomo con un così grande potere misterioso restasse tra di loro.
E Ragazzo Coniglio ebbe una visione. Vide se stesso levarsi alto nei cieli e, una volta lassù, lanciare una sfida al sole e gareggiare con lui, ora in questa, ora in quell’altra prova sempre più difficile, e ogni volta era lui che aveva la meglio sul sole.
La cosa non piaceva però a Iktome, il malvagio Uomo Ragno, lo spregevole imbroglione, burlone e stregone, dal momento che anche lui desiderava quella bella ragazza, e perciò cominciò a dire cose cattive sul conto di Ragazzo Coniglio.
«Guardatelo – diceva Iktome. – Guardate come ostenta il suo vestito di pelle di daino a noi che siamo troppo poveri per possedere qualcosa di così bello. Come potete, uomini, permettere che sposi una ragazza del vostro villaggio? Ma vi avverto: nel caso foste così sciocchi da lasciarlo fare, io possiedo un collare magico che posso lanciare su Ragazzo Coniglio e renderlo impotente».
Alcuni ragazzi che erano gelosi di Ragazzo Coniglio per via del suo strano potere, della sua saggezza e generosità, dissero allora: «Iktome ha ragione».
Ciò detto, cominciarono ad aggredirlo; e l’Uomo Ragno lanciò il suo magico cerchio su di lui. Sebbene non avesse alcun effetto su Ragazzo Coniglio, questi finse lo stesso di essere indifeso, per divertirsi un po’.
I ragazzi del villaggio legarono Ragazzo Coniglio a un albero con rozze cinghie di pelle, e per tutto il tempo Iktome li incoraggiò: «Su, presto – diceva. – Prendiamo le asce e facciamolo a pezzi!».
«Amici, kola pila – disse Ragazzo Coniglio – se intendete uccidermi, lasciate che prima io canti il mio canto di morte». E cominciò a cantare:
Amici, amici,
ho combattuto col sole.
Egli ha cercato di bruciarmi,
ma non è riuscito a farlo.
Perfino alla potenza del sole
ho resistito.
Come il canto di morte fu terminato, i ragazzi del villaggio uccisero Ragazzo Coniglio e lo fecero a pezzi con le asce; quindi gettarono quei grossi pezzi di carne in una pentola.
Ma non era facile sopraffare Ragazzo Coniglio. Una tempesta si sollevò, grandi nubi oscurarono il sole e ogni cosa all’intorno fu avvolta nel buio di una notte fonda. E quando infine le nubi diradarono e la tempesta cessò, quando di nuovo il sole tornò a illuminare la pentola, i ragazzi la trovarono vuota: Ragazzo Coniglio non c’era più.
Quelli di loro che si trovavano più vicini alla pentola, affermavano di aver visto i molti pezzi del corpo di Ragazzo Coniglio riunirsi e dar vita a un nuovo corpo, che era poi salito in cielo su un raggio di sole.
Allora, un vecchio e saggio sciamano disse: «Questo Ragazzo Coniglio possiede realmente un potere magico: è salito per vedere il sole da vicino. Presto ritornerà più forte di prima, perché lassù gli sarà dato il potere del sole. Lasciate che sposi quella nostra ragazza».
Ma il Ragno, il geloso Iktome, disse: «Perché preoccuparsi di lui? Guardatemi: io sono molto più potente di Ragazzo Coniglio! Orsù, legate anche me, e fatemi a pezzi! Siate svelti!».
Iktome credeva di ricordare il canto di Ragazzo Coniglio. Pensava che in esso ci fosse un potere, una forza magica. Ma Iktome non ricordava le parole giuste, e perciò cantò:
Amici, amici,
ho combattuto con la luna.
Essa ha cercato di lottare,
ma io ho vinto.
Perfino combattendo con la luna,
ho avuto successo.
Come aveva detto loro, i ragazzi lo fecero a pezzi, ma Iktome non tornò mai più a rivivere. Il Ragno aveva finalmente fatto male a se stesso. La maledizione che aveva lanciato, gli si era rivoltata contro.
Questo è il destino di ogni malvagio briccone. La malevolenza finisce sempre per volere il male di Se Stessa.
***
La trafila «iniziatica» è sempre quella: il corpo del neofita dev’essere fatto a pezzi – per poi ricomporsi. Questa è la via stretta per cui il neofita deve passare per trasformare il suo in un «corpo umano». In un corpo «abitato» dal cogito dell’Uomo. In un corpo «preso» nell’incantesimo di Anima, oltre che – come il mito ancora una volta qui ci ricorda – nel miraggio della più bella del Reame.
Non basta l’allucinazione di Narciso: per diventare uomini, bisogna dare ascolto e rispondere all’eco della Parola di Anima. Dare udienza e credenza al linguaggio simbolico della Macchina Umana.
Lo vedi? in principio non è che un grumo di sangue, uno schizzo di sperma confuso nel sangue d’un mestruo. Il coniglio (e chi se non la luna?) si diverte a «fare l’amore» da solo! Comprendi l’allusione! Ha una moglie a casa, e lui se la spassa a rincorrere e a prendere a calci una pallina rossa.
Fantasie – che dovrebbero rimanere sterili, e invece … danno vita al primo germe di un essere umano.
Questo germe, però, non sa di essere destinato all’umanità. Lui crede di essere un coniglio, come suo padre, come tutti i conigli della sua Gente. Lui vorrebbe, forse, vivere una vita da coniglio, e invece … no, caro mio, gli dice il Padre, tu hai quel certo potere misterioso, ce l’hai nel sangue!, il Possibile che farà di te un essere umano. No, gli dice, tu non resterai, come me e come noialtri tutti, un animale qualunque. Va’ tra la tua Gente! Apprendi la loro lingua! Diventa uomo! Il tempo del tuo linguaggio animale è scaduto!
L’uomo ha preso vita, così dice il Racconto, da un autoerotismo della luna. Se la luna, quel giorno, non si fosse masturbata … non sarebbe mai venuto al mondo un essere così lunatico, così capricciosamente legato ai cicli e ai nodi delle sue proprie fantasie, fino al punto di spingersi a dire addio al suo vecchio mondo animale, per avventurarsi nel Villaggio Umano.
È dunque la Luna a gareggiare, per interposta persona, col Sole. La gara è a chi è più bravo a sedurre. A chi è più bravo a fecondare la terra della propria luce. Alla Luna non tocca che un grumo di sangue mestruale. Eppure, la Luna riesce lo stesso a farne spuntare un essere umano.
Ne spunta un «visionario» che nient’altro vede (signori, ecco a voi Narciso!) che Se Stesso a rivaleggiare col Sole, al posto e nel colore della Luna quando è rossa. Ne spunta, voilà, un … pellerossa che tutto quello che fantastica se lo «scrive» sul corpo. Un pellerossa che «crede» ai Segni che si tatua sul corpo, e che ad essi si affida per sedurre «la più bella» che lo riguarda dallo specchio.
Al miraggio aggiunge così il canto. Agli occhi feriti dall’allucinazione ripara con le parole lunatiche che Anima gli suggerisce. È ricorrendo a queste parole, è cantandole fino alla morte, fino a farne il canto della sua propria morte al mondo animale, che Ragazzo Coniglio «crede» di vincere il Sole e la potenza seduttiva della sua luce.
Ma la «vittoria» che riporta in nient’altro consiste che in una trasformazione del suo corpo – da animale a umano, da corpo carnale (non era che un grumo di sangue) a corpo sottile d’immaginazione. Da corpo qual era in sé, a Forma che cade sotto lo sguardo altrui, a Forma per l’Altro.
Morte e risurrezione del Corpo, attraverso la doppia porta dell’autoerotismo di Narciso e il lamento con cui Eco si congeda dalla sua «carne». Miraggio e piagnisteo della Macchina (resa) «celibe» passando per l’iniziazione al linguaggio umano.
Quelli (supponiamo i Titani) che erano più vicini alla pentola (in cui stavano cuocendo i pezzi del corpo di Zagreo) hanno potuto «vedere», a dispetto dell’oscurità incombente e del frastuono di tuoni e fulmini nella (traumatica) tempesta, «vedere» coi loro occhi la metamorfosi.
Hanno «visto» il Corpo sottile, come sottile è la superficie dell’acqua in cui si specchiava, ricomporre taumaturgicamente i propri pezzi in un’Immagine, e quest’Immagine l’hanno «vista» arrampicarsi al cielo sopra un raggio di sole.
Il Sole, dunque – il Signore della luce – ha vinto. Ma la sua «vittoria» ha finito per fecondare un’immaginazione in principio immaginata dalla Luna.
Atena ha vinto Aracne. Il Sole ha umiliato il Ragno – e con lui l’illusione umana di poter impunemente competere con l’Arte degli dèi. Ha mortificato l’illusione di poter padroneggiare la trama delle proprie immaginazioni.
Quest’illusione, la Luce l’ha smontata pezzo per pezzo. Ne ha mostrata la vanità. E tuttavia – se non le sue singole molteplici fantasie, almeno una Forma non è riuscita a distruggerla, e quella Forma è sopravvissuta, aggrappandosi al canapo d’un raggio di sole.
I tentacoli, no. I molteplici tentacoli del Ragno, essi no, non hanno potuto prendere il sentiero celeste. Il Sole li ha «visti» e la sua luce li ha «vinti». Ciò che invece gli è rimasto «invisibile» (coperto dalle nubi della tempesta) e che, a sua insaputa, e forse suo malgrado, il Sole feconda e tiene in vita, è il filo di trama sottile dell’Immaginazione che la Luna «tesse» giocando a palla con ogni germe umano.
Sottile e trasparente, solo la Forma immaginale nell’Uomo sopravvive alla distruzione del suo linguaggio animale.
Se il mondo è adesso popolato di ragni, se al mondo ci sono tanti insetti è perché il Grande Ragno non seppe «formalizzare» le parole dell’uomo: né Aracne né Iktome seppero cantare l’incantesimo proprio dell’Uomo. La loro «macchina linguistica» si bloccò in una «maledizione».