Un indio a cui piaceva andare a caccia di notte, suscitò la collera degli spiriti dei boschi, che decisero di approfittare delle assenze del cacciatore per invadere ogni notte la sua capanna.
Una volta entrati, facevano a pezzi il corpo della moglie e ne rimettevano insieme le membra appena sentivano il rumore che l’uomo era solito fare per annunciare il suo ritorno. Sottoposta a questo trattamento, la donna deperiva.
Il cacciatore cominciò a sospettare qualcosa, e decise di sorprendere gli spiriti. Questi fuggirono abbandonando la loro vittima, ridotta a un mucchio di ossa sanguinolente; la testa, staccata dal corpo, rotolava qua e là, finché saltò sulla spalla dell’uomo e vi si fissò, come disse lei stessa, per punirlo di aver abbandonato la propria moglie alla collera degli spiriti.
La testa continuava a sbattere le mascelle come se volesse mordere. Inoltre affamava l’uomo mangiando tutto il cibo e gli sporcava la schiena di escrementi.
L’infelice tentò di tuffarsi nell’acqua, ma la testa lo morse ferocemente e minacciò di divorarlo se non stava a galla per farle riprendere fiato. Alla fine egli addusse il pretesto di dover sistemare una nassa in fondo all’acqua. Temendo di annegare, la testa acconsentì ad aspettarlo, posata su un ramo.
L’uomo fuggì a nuoto passando dall’apertura della nassa, ma la testa lo raggiunse appena ritornò nella capanna. Qui, sostenendo di essere la donna-fuoco, essa si installò nel focolare, e chiese la spatola da manioca. L’eroe le trasformò entrambe in pappagalli, della specie che si sente cantare al chiaro di luna.
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Ritroviamo qui l’episodio in cui la metà superiore della donna si avvinghia alle spalle del marito, lo affama divorandone il cibo e lo sporca con i propri escrementi (cfr. la storia della quinta e ultima sposa di Monmaneki).
La mitologia sudamericana offre pochi esempi di simili storie. I Warrau, ad es., narrano di un’avventura capitata al loro eroe Kororomanna allorché, per divertimento, conficcò una freccia nell’orbita di un cranio umano che giaceva lungo la strada, e il cranio – che era in realtà uno spirito maligno – esclamò: «Mi hai ferito, d’ora in poi dovrai portarmi!». Kororomanna preparò con della corteccia una fascia da trasporto e vi attaccò la testa, come fanno le donne con la loro gerla. Ovunque andasse, portava con sé la testa e la nutriva. Dato che quella prelevava la sua parte da ogni preda uccisa dall’eroe, la testa divenne così pesante che la fascia si ruppe. Kororomanna ne approfittò per scappare. Dalla testa abbandonata hanno avuto origine le formiche.
Gli Shipaia narrano invece di una donna, la cui testa, di notte, si separava dal corpo. Il marito se ne accorse e sotterrò il corpo dopo averlo avvolto in una amaca. Allora la testa, rimasta sola, si fissò sulla spalla dell’uomo, che non poteva più mangiare perché essa inghiottiva tutto il cibo. Alla fine, egli disse che la testa lo appesantiva troppo per potersi arrampicare su un albero e cogliere i frutti che lei esigeva. Essa lo lasciò momentaneamente, e l’uomo fuggì. La testa tentò con altre cavalcature: prima un cervide, che ne morì, poi un avvoltoio mangiatore di carogne, che volò via e la fece cadere per terra, dove si frantumò. I vari pezzi si trasformarono in uccelli che divoravano le dita di coloro che volevano portarli.
Queste versioni sono interessanti, ma complicano il nostro problema invece di semplificarlo. Esse appartengono infatti a un insieme mitologico [quello della «testa rotolante»] attestato dal Circolo Polare Artico fino alla Terra del Fuoco, e il cui paradigma, soprattutto se include l’origine di sostanze grumose o di esseri brulicanti – formiche, termiti, zanzare, rane, farinata di mais, schiuma alla superficie dei corsi d’acqua, uova di pesce, ecc. – ci costringe a ricorrere a esempi provenienti dalle due Americhe.
Dal momento che non possiamo farne a meno, interroghiamo dunque i miti nordamericani in cui il personaggio-rampone è ben rappresentato, anzitutto attraverso incarnazioni maschili.
I Blackfood narrano di un giovane che acconsentì a ricondurre al campo, portandolo sulla schiena, un compagno che aveva perduto entrambe le gambe in combattimento. Ogni volta che veniva dato da mangiare all’infermo, il cibo usciva dalla parte bassa del suo corpo mutilato. Quando fu necessario attraversare un fiume a nuoto, l’uomo-tronco venne messo su una zattera per essere rimorchiato, ma i guerrieri si stancarono e abbandonarono la zattera, che se ne andò alla deriva.
Gli Irochesi (Seneca) narrano di un eroe che incontrò un giorno sulla sua strada un infermo che giaceva coi piedi nell’acqua. Impietosito dai suoi lamenti, cercò di metterlo all’asciutto. L’uomo salì con fatica sulle spalle del suo salvatore e rifiutò di scendere. Per liberarsi, l’eroe tentò dapprima di strofinare le spalle contro un tronco di hictory [noce bianco americano], e poi di esporre il suo torturatore al calore di un braciere, rischiando così di bruciare se stesso; infine, si gettò in un precipizio con il fardello. Disperando di ritrovare la libertà, decise di impiccarsi, e di impiccare anche l’altro, infilando i due colli in uno stesso nodo, fatto con una corda di corteccia attaccata al ramo di un tiglio americano, ma non vi riuscì. Finalmente un cane magico lo liberò.
Ecco ora alcuni personaggi-rampone femminili.
I Cree (Sweet Grass) narrano di un fanciullo nato da un grumo di sangue. Il racconto dice che, al tempo in cui gli esseri umani non si distinguevano dagli animali, un orso grizzly, voracissimo, affamava la moffetta e suo marito il tasso. I due sposi decisero di fuggire. L’orso non aveva lasciato loro che un po’ di sangue di bisonte. Moffetta lo mise nella pentola, dove si trasformò in un fanciullo miracoloso che crebbe rapidamente e uccise l’orso e i figli di quest’ultimo.
Più tardi, in una gara magica, egli riportò la vittoria su un altro orso che affamava la popolazione di un villaggio. Come premio, ricevette in sposa una delle figlie della belva. L’altra figlia, gelosa, persuase una vecchia ad arrampicarsi sulla schiena dell’eroe che, per liberarsi, non poté far altro che ritrasformarsi in sangue coagulato. La vecchia si trasformò subito in «pig vermilion» [un composto indigesto] e in fungo fosforescente. Tutti gli altri abitanti del villaggio diventarono orsi, lupi, volpi, linci e coyote. E quando l’eroe tornò dai suoi, li trovò mutati in sassi, puzzole e altri animali commestibili.
In un’altra versione, un primo piano passa il problema dell’unione matrimoniale. L’eroe non riesce a sposarsi. Solo una vecchia acconsentirebbe. Furiosa per essere stata disdegnata, essa gli si avvinghia sulle spalle, lo schiaccia sotto il suo peso e non gli permette di nutrirsi.
L’eroe è ormai mezzo morto, quando uno sconosciuto lo libera. Benché quest’ultimo porti abiti da pelliccia col pelo fuori e benché sia pesante e sgraziato, egli lo chiama «cognato» e gli fa sposare la sorella. In seguito, tutti i membri della famiglia si trasformano in topi.
Gli Assiniboine raccontano che un tempo c’era un bel giovane che non si interessava alle ragazze, benché tutte andassero pazze per lui. Una di esse, che era particolarmente carina e viveva sola con la nonna, gli fece delle profferte, ma egli la respinse come aveva respinto le altre.
La ragazza se ne lamentò con la vecchia. Questa spiò il giovane e, quando egli le passò vicino, gli disse di non poter camminare. Il ragazzo acconsentì a portarla sulle spalle per un breve tratto, ma quando volle deporre il suo carico, non poté più liberarsene, neppure correndo e sbattendo contro gli alberi. Egli scoppiò in lacrime, e tuttavia, quando alcune donne gli vennero in aiuto, la vecchia urlò: «Lasciatemi in pace! Sono sua moglie!».
Il padre dell’eroe promise solennemente che il figlio avrebbe sposato chiunque fosse riuscito a liberarlo. Tutte le donne tentarono senza successo. Due belle ragazze, che se ne stavano in disparte, si avvicinarono allora all’eroe, che giaceva coricato sul ventre, tanto era sfinito, e si misero a tirare una di qua e una di là. Al quarto tentativo strapparono via la vecchia e la uccisero. La schiena del ragazzo puzzava di urina. Lavato e curato dalle sue protettrici, egli si ristabilì prontamente e le sposò.
Secondo gli informatori, questo racconto evocherebbe l’amplesso nuziale prolungato della rana. Senza soffermarci su versioni intermedie meno ricche, passiamo subito all’altra estremità delle Pianure, dove si riscontra in prevalenza la stessa interpretazione.
Ad es., i Wichita hanno questo racconto della donna-rampone:
C’era una volta un giovane capo guerriero che decise di organizzare una spedizione contro i francolini delle praterie. A quell’epoca questi uccelli costituivano una popolazione di cacciatori tanto più temibili in quanto erano ambidestri e usavano l’una o l’altra mano per tirare con l’arco.
Al ritorno da una spedizione di caccia, l’eroe, prima di attraversare un fiume, aspettò, com’era sua abitudine, che tutti i compagni fossero al sicuro sull’altra sponda.
Sopraggiunse allora una vecchia che gli chiese aiuto. Egli acconsentì di buon grado a caricarsela sulle spalle. Ma quella insisté per essere portata fino al villaggio, dove arrivarono che era già notte. Ancora una volta la vecchia si rifiutò di scendere e spiegò all’eroe che aveva deciso di sposarlo allo scopo di punirlo per non aver mai acconsentito a prendere moglie. Rassegnato, il giovane accettò, a patto che essa lo liberasse. La vecchia non ne volle sapere e disse che gli sarebbe rimasta avvinghiata per sempre.
L’eroe cercò di mangiare e di dormire col suo fardello. La vecchia orinava e defecava su di lui, e l’uomo era certo di essere condannata a una prossima fine se qualcuno non l’avesse liberato.
Tentarono tutti invano, finché la testuggine acconsentì a organizzare una cerimonia nel corso della quale staccò pezzo per pezzo la vecchia a frecciate. La vecchia fu finita a colpi di clava, e si provvide a medicare la schiena dell’eroe. Il nome della vecchia significa: «ciò che si attacca a qualsiasi cosa». Oggi designa la rana verde arboricola.
Temendo un altro disastro, le famiglie degli Indiani si dispersero e si mutarono o in volatili o in quadrupedi di diverse specie. Quella del capo diede origine alle aquile.
I Sanpoil, che sono Salish della regione del fiume Columbia, raccontano anch’essi la storia di una donna-rampone. Quando il suo portatore riuscì a sbarazzarsene esponendola alle fiamme che la coprirono di vesciche, essa si trasformò in rospo.
Disponiamo dunque di parecchie testimonianze, provenienti dalle più diverse regioni del Nordamerica, che considerano la donna-rampone un batrace (oppure un ragno che porta i piccoli sul dorso).
Ritorniamo brevemente nella Guayana, per accertare che, avventurandoci nella mitologia nordamericana, non ci siamo arrischiati su un terreno estraneo al nostro problema.
In kalina, l’anuro, grande rana comune, è chiamato /poloru/. Presa in senso figurato, questa parola significa «crampo»: /poloru yapoi/ «ho dei crampi alle gambe», letteralmente: «la rana mi ha afferrato, mi ha avuto»; /ëseirï yanatai, ëseirï polorupe na/ «la mia gamba è rigida, intirizzita», letteralmente: «la mia gamba è una rana».
Non si dimentichi che la donna-rampone del mito di Monmaneki incarna l’ultima variazione di un personaggio apparso dapprima sotto l’aspetto di una rana. Questa donna-rampone è anche una donna-tronco.
Sembra dunque che il pensiero degli Yabarana, tribù dell’interno del Venezuela, segua una traccia assai vicina alla nostra quando, in un mito, evoca una prima umanità composta da un uomo-tronco e da una donna-tronco, che mangiavano con la bocca e che, attraverso la gola, eliminavano degli escrementi che diedero origine ai gimnoti. È noto, infatti, che la scarica elettrica di questi pesci provoca crampi e talvolta perfino paralisi.
Consideriamo ora il motivo della donna-rana secondo un’altra angolatura.
Si ricorderà che quella del mito di Monmaneki rapisce un bambino, che poi è il suo. Nel Nordamerica questa curiosa iniziativa parte anch’essa da una donna-rana, che all’inizio è completamente muta, ma che parlerà per metà dell’anno dopo aver ripreso la sua forma animale.
Grazie a numerose versioni intermedie, sarebbe possibile dimostrare che questo rapimento del proprio bambino da parte della rana rappresenta, nel Nordamerica, la forma limite di un rapimento di cui è nuovamente colpevole la rana: ma si tratta allora di un rapimento di bambini altrui che il batrace desidera perché sono più belli dei suoi.
Narrano gli Assiniboine di un indiano che aveva alcuni bei bambini. Quelli della rana, che viveva non lontano dall’accampamento, erano invece brutti. Allora il batrace rapì all’indiano il figlio più piccolo e lo allevò insieme ai suoi. Questi ultimi si stupirono: «Com’è possibile che sia così bello mentre noi siamo tanto brutti?». «Oh! – rispose la madre – è perché l’ho lavato nell’acqua rossa!».
Il padre finì per ritrovare il proprio bambino. Temendo la sua vendetta, la rana andò a rifugiarsi nell’acqua, dove vivono ora i suoi congeneri.
Conosciamo varianti klamath e modoc in cui la rana rapisce il piccolo di un cervide. Ma sta di fatto che il motivo della rana o del rospo rapitore è enormemente diffuso nell’America settentrionale, estendendosi dai Tahltan, che sono Athapaskan del Nord-Ovest canadese, agli Algonchini centrali e orientali.
Lo studio sistematico di questo gruppo di miti ci porterebbe troppo lontano, in quanto sconfina nel campo di parecchi altri gruppi […].
Saranno i miti provenienti dagli Algonchini ad attirare maggiormente la nostra attenzione, perché in questo caso gli accostamenti si fanno così netti che permettono di sovrapporre i due gruppi [della donna-rampone e della rana rapitrice di bambini].
In penobscot, il rospo si chiama /mas-ke/, che significa «puzzolente», «sporco», a causa della repulsione che gli Indiani provano per questo animale. La donna-rospo /Aski’.kcwsu/ è uno spirito dei boschi maleodorante, seduttrice di uomini e rapitrice di bambini. Vestita di muschio verde e di corteccia, s’aggira fino a tardi vicino agli accampamenti e supplica i bambini di andare da lei. Se uno le si avvicina, lo prende fra le braccia e lo accarezza, ma, sebbene le sue intenzioni siano buone, essa esercita un influsso letale: il bambino si addormenta per non svegliarsi più.
Queste credenze costituiscono uno sfondo comune a tutta l’America settentrionale, sfondo nel quale i miti degli Ojibwa spiccano con particolare rilievo. Perciò, il loro racconto della vecchia-rospo che rapisce un bambino, può degnamente chiudere questo nostro excursus.
Un indiano sedusse per magia una donna che l’aveva sempre respinto, e riuscì a sposarla. Un giorno in cui l’uomo era assente, il loro bambino disparve mentre la moglie raccoglieva la legna fuori della capanna. Gli sposi decisero di andare a cercarlo, ognuno in una direzione diversa.
Dopo un certo tempo, la donna arrivò alla capanna della vecchia-rospo, madre di due bambini brutti; era lei che aveva rapito il bambino. Quest’ultimo era divenuto adulto, perché la donna-rospo l’aveva fatto crescere magicamente dandogli da bere la propria urina. E, benché avesse accettato di ospitare la visitatrice, essa lordava di urina il cibo che le dava.
Il ragazzo aveva dimenticato la sua storia. Scambiò la madre per un’estranea e le fece la corte. Essa riuscì però a farsi riconoscere identificando la culla portatile nella quale il figlio era stato rapito, e che i suoi cani avevano segnato coi denti nel tentativo di opporsi al ratto.
Il marito, che aveva raggiunto la moglie e il figlio, uccise un cervide e lo appese in cima a un abete balsamico; poi mandò la donna-rospo a prenderlo. Quella ci mise tanto per arrampicarsi sull’albero e per staccare tutta la carne che, approfittando della sua assenza, i due sposi soffocarono i figli della rana e per scherno riempirono la bocca dei cadaveri con vesciche piene di grasso. A quella vista, la donna-rospo pianse amaramente.
(Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola)