Agostino – Il tempo che si misura

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Per ora almeno questo è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono, e solo impropriamente si dice che i tempi sono tre: passato, presente e futuro – mentre sarebbe più corretto dire che i tempi sono tre in questo senso: che c’è il presente di ciò che è passato, il presente di ciò che è presente, e il presente di ciò che sarà.
Sì, in un certo senso, questi tre tempi sono nell’anima, e non vedo come possano essere altrove: il presente di ciò che è passato è la memoria, di ciò che è presente la percezione, di ciò che è futuro l’aspettativa. Se ci è lecito dir così, allora sì che vedo i tre tempi e ammetto che siano tre.

Dunque, si dica pure che sono tre – passato, presente e futuro – come è abusata consuetudine: a me non importa, non oppongo né resistenza né rimproveri, purché si capisca ciò che si dice – che ciò che è futuro non è, come ciò che è passato.
Raramente infatti parliamo con proprietà di linguaggio, e il più delle volte usiamo espressioni improprie, ma si capisce quello che vogliamo dire.

Poco fa ho detto che misuriamo il passare del tempo, se è vero che siamo in grado di dire che questo intervallo di tempo è doppio di quello o pari a quello, e di render conto di ogni altra relazione fra le parti del tempo, con la misurazione.
Dunque, come dicevo, noi misuriamo il passare del tempo, e se qualcuno mi chiede come faccio a saperlo, rispondo: so che noi misuriamo, anche se so che non possiamo misurare ciò che non esiste, e il passato e il futuro non esistono.

Ma il tempo presente in che modo lo misureremmo, se non ha estensione? Lo si misura Gyurka-stop-timedunque mentre passa, e una volta passato non lo si misura perché non c’è più nulla da misurare.
Ma da dove viene e per dove passa e dove va, quando lo si misura? Da dove se non dal futuro? Per dove se non attraverso il presente? Verso dove se non nel passato? Dunque: da ciò che non è ancora, attraverso ciò che non ha estensione, verso ciò che non è più.

Eppure, sono proprio estensioni di tempo quelle che misuriamo: e che altro se no? Quelle che chiamiamo semplici e doppie e triple e uguali e in quanti altri modi le chiamiamo, non sono appunto che estensioni di tempo.
E allora qual è l’estensione in rapporto alla quale misuriamo il tempo che passa? È nel futuro forse, dal quale viene? Ma ciò che ancora non è, non ha misura. Allora nel presente, per cui passa? Ma ciò che non ha estensione non ha misura. O nel passato, verso cui va? Ma ciò che non è più non ha misura.

Arde la mente dal desiderio di penetrare l’intrico foltissimo di questo enigma. Non sbarrarmi la porta al desiderio, mio Dio e Signore, lascia che penetri queste cose tanto familiari quanto misteriose, e che il raggio della tua misericordia le illumini.
Chi potrò interrogare su argomenti del genere? E a chi con qualche frutto confessare la mia ignoranza se non a te, cui non son forse sgraditi gli infiammati studi e la veemenza con cui assalgo le tue Scritture.

Dammi quello che amo – perché sei tu che mi hai dato d’amare. Dammi, padre che veramente sai i doni che vanno bene per i tuoi figli, dammi di conoscere, perché ho messo mano a questa impresa e ho davanti la fatica, finché tu non mi apri. Te ne prego per Cristo, in nome del santo dei santi, nessuno mi frastorni adesso.
Anch’io ho creduto, ed è per questo che parlo. Questa è la mia speranza, e di lei vivo, per contemplare la felicità di Dio.
Hai portato a vecchiaia i miei giorni, e passano, e come, non so. E noi siamo sempre lì a parlare del tempo e dei tempi: «quanto tempo fa l’ha detto», «quanto tempo fa l’ha fatto», «da quanto tempo non lo vedo», e «quella sillaba dura un tempo doppio di quell’altra breve». Facciamo e sentiamo fare queste asserzioni e capiamo e ci facciamo capire. Sono Lohmuller-tempocose evidentissime e perfettamente familiari, eppure sono così oscure, e la loro scoperta è cosa nuova.

Ho udito dire da un dotto che i tempi altro non sono che i movimenti del sole e della luna e delle stelle, e io non ho assentito. E perché non, piuttosto, i movimenti di tutti i corpi, allora?
Ma supponiamo che i luminari del cielo si arrestino e la ruota del vasaio continui a girare: verrebbe meno il tempo con cui misurare i suoi giri e dire o che hanno eguale durata, oppure, se si compiono ora più lentamente e ora più presto, che alcuni durano più, altri meno a lungo?
E nel dire questo, non parleremmo noi pure nel tempo, e le nostre parole non conterrebbero sillabe lunghe e sillabe brevi? E come, se non in base al loro risuonare per un tempo più lungo o più breve?

Dio, dai alla gente il dono di vedere anche nel piccolo le idee comuni a piccole e grandi cose. Ci sono le stelle e i luminari del cielo a far da segni delle stagioni e dei giorni e degli anni. Ci sono, certo: ma come io non direi che il giro di quella piccola ruota di legno sia addirittura il giorno, quello non oserà negare che si tratta comunque di un periodo di tempo.

Il mio desiderio è di conoscere la funzione e la natura del tempo, in quanto ci serve da misura dei movimenti dei corpi e ci consente di dire, ad esempio, che quel movimento dura il doppio di questo.
Ora, si dice giorno non solo il periodo di permanenza del sole sopra l’orizzonte, in opposizione alla notte, ma anche l’intero giro che esso compie da oriente a oriente, come quando diciamo: «passarono tanti giorni», intendendo includere le relative notti.

Dato dunque che un giorno si compie in una rotazione completa del sole da oriente a oriente, io mi chiedo se il giorno sia la rotazione stessa, o la sua durata, o entrambi.
Nel primo caso, anche se il sole completasse il suo corso in un intervallo di tempo pari a quello di un’ora, questo sarebbe ancora un giorno. Nel secondo caso, dato che l’intervallo di tempo fra una levata e l’altra del sole fosse di un’ora, ci vorrebbero ventiquattro rotazioni del sole perché fosse compiuto un giorno.
Ma nel terzo caso non si chiamerebbe giorno né l’intero giro compiuto dal sole nello spazio di un’ora, né una pura e semplice quantità di tempo pari a quella che normalmente impiega il sole a coprire tutto il suo percorso, da un’alba alla successiva, ma trascorsa a partire, supponiamo, da un arresto del sole.

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Or dunque non mi chiederò più che cosa sia ciò che chiamiamo giorno, ma che cosa sia il tempo che ci consente di misurare la rotazione del sole e di dire eventualmente che l’ha compiuta nella metà del tempo impiegato normalmente, qualora l’abbia in effetti compiuta in un intervallo di tempo pari a quello di dodici ore; che cosa sia insomma il tempo che ci consentirebbe di confrontare i due intervalli di tempo e di dire che l’uno è doppio dell’altro, anche se il sole impiegasse a volte quel dato tempo, a volte il doppio a completare il suo giro da oriente a oriente.

Nessuno dunque mi venga a dire che sono tempi i moti dei corpi celesti, perché quando il sole si fermò su preghiera di un uomo (Giosuè, 10: 12-14), per consentirgli di portare vittoriosamente a compimento una battaglia, il sole stava fermo, ma il tempo passava.
Per tutto il tempo necessario, né più né meno, quella battaglia fu combattuta, fino al suo termine.
Il tempo dunque è qualcosa come un pro-trarsi; ora lo vedo. Ma lo vedo veramente, o mi pare soltanto di vedere? Me lo mostrerai tu, luce, verità.

Mi ordini di approvare chi afferma che il tempo è il movimento dei corpi?
No. Sento dire piuttosto che un corpo non si muove se non nel tempo: tu lo dici. Infatti, mentre il corpo si muove, io misuro la durata del suo movimento, dall’inizio alla fine. E se non ho visto quando è cominciato il movimento e questo continua in modo che non tempo-Animavedo quando finisce, non sono in grado di misurarne la durata, a meno di non calcolarla dal momento in cui comincio a vederlo a quello in cui non lo vedo più.
Se resta a lungo in vista, posso riferire soltanto che il tempo impiegato è lungo, ma non specificare quanto, perché per dire quanto noi ci serviamo di un confronto del tipo: «dura tanto quanto quello», oppure «il doppio di quello», e così via.

Se invece abbiamo potuto determinare le distanze dei luoghi di partenza e di arrivo del corpo in moto, o qualche punto di riferimento sul corpo stesso, nel caso si muova come su un tornio, allora possiamo specificare in quanto tempo si effettua il movimento del corpo o di una sua parte da un luogo all’altro.
Altro è il movimento del corpo, altro ciò che a noi consente di misurarne la durata: e chi non vede a quale delle due cose conviene il nome di tempo?
Anche se un corpo ora si muove, ora sta fermo, noi misuriamo quanto tempo dura non solo il movimento, ma anche la quiete, e diciamo: «è stato fermo per un tempo uguale a quello che ha trascorso in moto», oppure: «è stato fermo due o tre volte il tempo che ha trascorso in moto», o comunque risulti ai nostri calcoli, con precisione o, come si suol dire, più o meno.
Il tempo dunque non è il movimento dei corpi.

(Agostino, Confessioni, 11: 20.26-24.31)

***

Con la celebre formula del «triplice presente», Agostino ci conduce a questa conclusione: passato e futuro, i modi del non attuale, altro non sono che modi della presenza, modi d’essere presente al mondo, propri dell’anima umana. Alla percezione del presente, essa Schwitters-resimleraggiunge infatti la memoria del presente che fu, e l’aspettativa (spero prometto e giuro) del presente che verrà.
Dunque: tre tempi, ma non tre «realtà» o tre «mondi». Solo tre modi di relazione col tempo, ossia col «Sempre Presente».

Il Tempo comincia così in Agostino a delinearsi come il senso della presenza di Anima al Mondo – il modo di Anima di stare al mondo, anzi meglio: di passare per il mondo e, nel passare, di percepire a volo (non c’è molto tempo) la domanda di senso che le viene dal Mondo, quella domanda che è la sua stessa esistenza «dotata di parola» a deporle nel nucleo più intimo del suo linguaggio.

L’altro punto della questione è la stessa sollecitazione che troviamo millenni dopo in Heidegger – a non ridurre il tempo al «quanto tempo», a qualcosa cioè di intimamente connesso al movimento fisico, alla Natura, come se esistesse una Natura senz’Anima, prima che qualcuno dei «moderni» la ipotizzasse a fondamento della sua «scienza».
Tutt’e tre i tempi «sono nell’anima», non nelle cose – là fuori.
Primo tempo: anch’io ho creduto, e perciò adesso parlo. Anch’io, dice Agostino, ho dato udienza alla domanda di Anima – ecco perché ora «parlo». Ecco perché, adesso, come tutti gli uomini, io, il tempo, lo «porto» nella parola.
Tutt’e tre i tempi, da allora, dacché ho creduto al miraggio umano e parlo la lingua degli uomini, io li «vivo» nel mio linguaggio.

L’anno, il giorno, l’ora – non sono tempi, ma segni del tempo, unità di misura di un tempo a prescindere da Anima: il che, per Agostino, ancora una volta vuol dire che un tempo «oggettivo» è dato pensarlo solo attraverso un sistema di «segni», e dunque solo a chi è stato «investito» della domanda di Anima e, dando ascolto al suo richiamo, ha sentito il Tempo rivolgergli la parola.
Da allora, il tempo dell’Uomo è nella sua parola.
Come dice Agostino: è là, nel mio parlare, e non altrove.