Bretagna – Lancillotto salva Ginevra dal rogo

L’indomani, fin dall’alba, il palazzo si riempì di baroni e di signori che aspettavano l’arrivo del cavaliere querelante; e molti avevano gran paura per la loro dama.
Poco dopo l’ora prima, Mador della Porta mise piede a terra nel cortile, scortato da tutta la parentela, e salì nella sala, armato di tutte le armi, salvo l’elmo, la lancia e lo scudo. Era alto e quadrato nel corpo, ben fatto nelle membra e bianco come la lana; non v’erano cavaliere-biancomolti cavalieri più forti e più prodi di lui.

«Mador – gli disse il re quando egli ebbe offerto il pegno – restate qui fino a vespro; se, prima di questa sera, la regina non trova alcuno che la difenda, del suo corpo si farà quel che la mia corte deciderà».
Allora Mador sedette nella sala e intorno a lui i parenti; e così restarono, senza dir parola, fino a terza.
A quell’ora, un cavaliere entrò in città, solo, senza scudiero. Era coperto d’armi bianche, salvo lo scudo che era dipinto con tre bande rosse. Attaccò il cavallo a un olmo nel cortile del palazzo, appese lo scudo a un ramo, appoggiò la lancia al tronco ed entrò nella sala, l’elmo in testa. E a ogni passo che faceva cantavano le maglie del suo giaco.

«Re Artù – disse – ho sentito narrare una grande meraviglia: oggi un cavaliere chiama in giudizio la regina Ginevra per tradimento. Mai s’era udita simile follia, quando il mondo intero la conosce come la dama più valente che sia mai esistita! Vengo per difenderla, se ve n’è bisogno».
«Signor cavaliere – disse Mador – sono pronto a provare che ella ha ucciso mio fratello Gaheris con slealtà e tradimento».
«E io sono pronto a sostenere che mai la regina vi ha visto slealtà né tradimento».

Mador, che non prestò attenzione a tali parole, tese il proprio pegno, e il cavaliere dalle armi bianche fece ugualmente. E quando il re li ebbe presi, messer Galvano disse a bassa voce: «Sire, credo proprio che a questo punto Mador abbia difficile contesa, ché, da parte mia, giurerei volentieri sulle reliquie che, se la morte di Gaheris è stata per tradimento e slealtà, la regina non vi ha visto affatto né tradimento né slealtà».

Intanto il palazzo si vuotava, e tutti, grandi e piccoli, se ne andarono nella piana, fuori della città, dove si usava condurre i combattimenti di giustizia. Messer Galvano volle portare la lancia del bianco cavaliere, e Estor lo scudo. E quando i due campioni ebbero prestato giuramento sui santi, il re fece avvicinare la regina e le disse: «Signora, qui è un cavaliere che per voi si pone in avventura di morte».
«Sire – ella rispose – Dio proteggerà il diritto, ché è vero che io non ho visto slealtà né tradimento».
Ella prese per mano lo sconosciuto e lo portò nel campo, augurandogli l’aiuto di Nostro Signore; poi il re dette il segnale, e i due campioni volarono l’uno contro l’altro diritti come frecce.

combattimento-di-giustizia

Si urtarono con tale forza che forarono gli scudi e spaccarono le lance; ma Mador fu strappato dagli arcioni e cadde pesantemente e non poté evitare di rimanere contuso, ché era grande e pesante.
Si levò tosto, stupito d’aver trovato l’avversario sì forte nella giostra; ma il cavaliere dalle armi bianche lasciò il proprio destriero, come colui che teme d’essere biasimato se attacca a cavallo un uomo appiedato: tratta la spada e alzato lo scudo sopra la testa, corse contro Mador e prima gli assestò un meraviglioso colpo sull’elmo, poi lo incalzò sì duramente che in poco tempo, ferito dieci volte, l’altro non aspettava che la morte.

«Mador – gli disse – vedi bene che t’ucciderò se questa battaglia durerà ancora. Confessati vinto prima che te ne venga di peggio: farò in modo che madama la regina ti perdoni e che il re ti renda la tua terra».
Alla franchezza e all’indulgenza, Mador riconobbe Lancillotto: «Bel signore, prendete la mia spada – disse inginocchiandosi. – Mi rendo alla vostra mercé e non mi considero disonorato, ché alcuno saprebbe resistere al miglior cavaliere del mondo».
Poi gridò al re: «Sire, m’avete ingannato inviandomi contro monsignor Lancillotto del Lago».

A tali parole, il re corse ad abbracciare Lancillotto tutto armato, messer Galvano andò a slacciargli l’elmo e voi avreste potuto vedere tutti i baroni circondarlo e fargli gran gioia, Lancillotto-bacia-Ginevracome anche la regina: ché tanto vale la prodezza che cancella tutto.
Quando Lancillotto e la sua dama si furono così ritrovati, s’amarono più di quanto avessero mai fatto; tanto che giunsero a condursi sì follemente che molti scoprirono il loro segreto, e tra essi messer Galvano e i suoi fratelli.

Un giorno che ne parlavano tutt’e cinque nello sguincio d’una finestra, re Artù si trovò a passare presso di loro.
«Ecco monsignore: tacete!», disse a bassa voce Galvano.
Ma il re sentì Agravain rispondere che non avrebbe taciuto affatto, e chiese di cosa si trattasse.
«Ah! sire, non vi curate di questo! – rispose messer Galvano. – Non ne trarreste alcun profitto, né voi né altri».
«Sul mio onore, voglio saperlo!».
«Sire, non è possibile! Non sono che favole e fole riferite da Agravain. Vi consiglio, come al mio signore ligio, di lascar perdere questo argomento».
«In nome di Dio, vi chiedo, per la fede che m’avete giurata, di dirmi perché tutt’e cinque tenevate consiglio».
«È meraviglia vedervi fino a questo punto curioso di notizie! Dovreste anche gettarmi fuori del regno, non vi dirò di cosa parlavamo. Del resto, è la più grande menzogna del mondo».

Ciò detto, messer Galvano lasciò la camera in compagnia di Gaheriet e di Guerrehes, e invano il re li richiamò.
Quando vide che non sarebbero tornati, condusse Agravain e Mordret in una stanza e li scongiurò di fargli sapere quel che tanto aveva desiderio di conoscere. E poiché essi rispondevano ancora che non l’avrebbero fatto, si gettò su una spada che si trovava su un letto, la estrasse dal fodero e ne minacciò Agravain, gridando che l’avrebbe ucciso se non avesse parlato, tanto che alla fine, vedendolo fino a tal punto infiammato, l’altro si decise: «Sire, dicevo ai miei fratelli che è sleale per noi soffrire sì a lungo l’onta e il disonore che vi arreca Lancillotto: ché egli conosce carnalmente vostra moglie, ne siamo certi e sicuri».

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A tali parole, il re cambiò di colore; ma si trattenne e rimase in silenzio.
«Sire – disse Mordret – ve l’abbiamo nascosto finché abbiamo potuto; ma bisogna che alla fine la vostra onta sia vendicata».
«Se mi amate – rispose infine il re – aiutatemi a cogliere Lancillotto sul fatto, e allora, se non lo punirò come il traditore che egli è, che io non porti mai più corona!».
«È impresa difficile far morire Lancillotto, sire: è forte e ardito e ha parenti potenti; vi faranno rude guerra».
«Bel nipote, non vi preoccupate di ciò! Spiateli e sorprendeteli insieme, ve lo chiedo sul giuramento che mi faceste allorché diveniste cavalieri della Tavola Rotonda».
Allora essi gli consigliarono di condurre, l’indomani, tutte le sue genti a caccia: senza dubbio Lancillotto ne avrebbe approfittato per recarsi dalla regina. E così fu convenuto.

Tutto il giorno, dice il racconto, re Artù ebbe un viso triste e messer Galvano, quando tornò al palazzo in compagnia di Gaheriet e di Guerrehes, subito capì, dall’espressione dello zio, che i fratelli avevano parlato.
Lancillotto, Estor e Lionello giunsero per l’ora di desinare; il re voltò loro la schiena. Tolte le tavole, egli invitò i cavalieri ad andare con lui a caccia l’indomani; ma, quando Lancillotto gli propose di accompagnarlo, gli disse che per una volta avrebbe potuto fare a meno di lui.
E alla sera Lancillotto, quando fu rientrato nel proprio alloggio, chiese a Lionello: «Avete Ginevra-portavisto che cattiva cera m’ha fatto il re? Non so perché sia tanto crucciato con me».
«Signore, siate certo che ha saputo qualcosa di voi e della regina. E il cuore mi dice che da questo deriverà gran male».

Ora, l’indomani, appena il re fu partito per la foresta, la regina mandò ad avvertire Lancillotto che si fece dovere di andarla a trovare, tuttavia non senza munirsi della spada. Ed ebbe cura di prendere un sentierino coperto che traversava il giardino; ma Agravain e Mordret avevano disposto spie per ogni dove, sì che un ragazzo andò ad avvertirli.
Intanto, Lancillotto entrava segretamente nel palazzo e, passando di camera in camera, raggiungeva quella in cui la regina l’aspettava. Se ebbe l’idea di chiudere la porta a chiave, fu perché Dio non voleva che egli fosse ucciso: infatti, si era appena coricato accanto alla sua dama, che le genti di Agravain e Mordret giunsero e, trovato l’uscio chiuso, cercarono di spaccarlo.

«Bello e dolce amico – esclamò la regina sentendo il rumore che essi producevano – siamo traditi! Presto il re saprà tutto! Sono stati Agravain e Mordret a far ciò!».
«Per l’amor di Dio, cercano dunque la morte! Avete qui un’armatura?».
«No davvero, bello e dolce amico! Ahimé! la nostra sventura è tale che dovremo morire, voi ed io! Pure, se poteste fuggire, non è ancora nato colui che mi potrebbe far morire, fintanto che voi sarete in vita! Partite, se potete».

Allora Lancillotto, che si era vestito in gran fretta, prese la spada ed andò a urlare dietro la porta: «Malvagi e codardi, cavalieri senza onore, ora aprirò la porta: si vedrà chi oserà passarne la soglia!».
Così dicendo, apre e aspetta, la spada levata. Un cavaliere chiamato Tanneguy entra arditamente; ma, nello stesso momento, riceve un colpo che gli fende l’elmo e il capo come una mela, di modo che cade morto nella camera.
Vedendo ciò, i compagni indietreggiano e liberano la soglia; e Lancillotto, tirato a sé con veemenza il corpo del cavaliere ucciso, richiude la porta; poi riveste le armi di Tanneguy. «Ora, signora – dice – passerò, se piace a Dio e se mi date il congedo».

Ella lo raccomandò a Gesù Cristo Nostro Salvatore. E subito egli uscì, si gettò sugli assalitori come una tempesta, abbatté il primo che colpì, tagliò in due la mano del secondo, voltandosi fendette le narici e il viso del terzo fino alle orecchie, sì bene che gli altri fuggirono in disordine.
Così lasciò il palazzo e riguadagnò il proprio alloggio, dove l’aspettavano in grande Ginevra-pregainquietudine il fratello e i cugini. E due ore più tardi, caricati i bauli sui somieri, lasciò la città con tutte le sue genti che non contavano meno di ventotto cavalieri prodi e arditi.

Ma ora il racconto tace di lui, volendo parlare di quel che avvenne quando Agravain e Mordret, i due fratelli di monsignor Galvano, si furono impadroniti della regina.
Essi le fecero grande onta e l’umiliarono più di quanto avrebbero dovuto, ché ella piangeva sì forte che ogni altro, salvo che quei felloni, ne avrebbe avuto pietà.
A nona, il re tornò dal bosco e, nel momento in cui metteva piede nel cortile, gli fu fatto sapere che la regina era stata sorpresa con Lancillotto. Ah! ne fu più dolente di quel che si potrebbe dire! Chiese se Lancillotto fosse prigioniero; ma gli fu risposto che aveva lasciato la città.

«Bel signore, cosa contate di fare?», gli chiese re Ion.
«Tale giustizia sulla regina, che le dame che ne sentiranno parlare ne saranno purificate! E vi ordino, a voi prima di ogni altro perché siete re, e agli altri baroni che si trovano qui, per il giuramento che mi avete fatto, di deliberare con retto giudizio se ella non abbia meritato la morte».
«Sire, secondo il costume non si deve tenere giudizio dopo l’ora nona, e soprattutto di dama sì nobile come madama la regina. Ma domani mattina ci riuniremo in assemblea».

Alla sera, il re non bevve né mangiò, ma non volle che la moglie gli fosse condotta davanti. E a prima, quando i suoi baroni si furono riuniti, ordinò loro nuovamente di giudicare la regina Ginevra; poi si ritirò.
Allora Agravain e Mordret raccontarono come si erano svolte le cose, aggiungendo che a loro parere la regina aveva ben meritato la morte per aver commesso fellonia sì grande come disonorare il proprio signore, che era tanto valentuomo, con un cavaliere. Al che gli altri, salvo messer Galvano, convennero, ma con dispiacere. E non appena il re seppe qual era il giudizio espresso dalla corte, fece erigere nella piana di Camelot un grande rogo per ardervi la moglie, ché era suo avviso che la regina unta e consacrata dovesse morire per mezzo del fuoco.

Hatherell-Ginevra-rogo

«Sire – gli disse messer Galvano – io vi rendo tutto quel che ho avuto da voi e non vi servirò più finché sarò in vita, se consentirete a cosa simile. A Dio non piaccia che io veda morire madama in quella guisa!».
Ma il re non gli rispose nemmeno, ché il suo pensiero era altrove. E messer Galvano andò a chiudersi nel proprio alloggio; certo, se il mondo intero gli fosse morto sotto gli occhi, egli non avrebbe potuto mostrare dolore più grande!

Intanto, il re mandava a dire ai nipoti Agravain, Guerrehes, Gaheriet e Mordret di prendere quaranta cavalieri e di andare a montare la guardia al campo in cui si trovava il rogo. Dapprima Guerrehes e Gaheriet rifiutarono, ma egli li fece chiamare e tanto li minacciò che infine essi consentirono. E, mentre andavano ad armarsi nei propri alloggi, egli fece comparire la regina davanti a sé.
Ahimé! quando la vide piangente, vestita di seta rossa, e sì bella e avvenente che non si sarebbe trovata l’uguale al mondo, il suo cuore si strinse tanto che pensò di svenire! Pure, comandò di condurla al rogo la cui fiamma già si scorgeva dal palazzo. E sappiate che, in tutta la città, in quel momento i borghesi e il popolo minuto levavano lamenti sì alti che non si sarebbe sentito tuonare Dio: non v’era uomo né donna che non piangesse come se fosse la propria madre che si dovesse bruciare.

Ora, nel momento in cui la regina si avvicinava al rogo ardente, d’improvviso si videro rompersi gli ultimi ranghi della folla dalla parte della foresta; le genti correvano a gambe Lancillotto-libera-Ginevralevate, gridando: «Fuggite! Fuggite! Ecco messer Lancillotto che arriva in soccorso di madama!».
E infatti, trentadue cavalieri giungevano a briglia sciolta per la pianura, elmi allacciati, lance in resta; e Lancillotto galoppava innanzi, su un alto destriero pezzato, più veloce che cervo di landa.
«Ah! cuore traditore – gridò ad Agravain da più lontano che poté – ecco la vostra morte!».

Così dicendo, gli corse addosso, la lancia spianata, e spinse il colpo sì rudemente che il ferro traversò lo scudo, il braccio, il giaco, il corpo e apparve oltre la schiena, sì che il fellone cadde morto.
Nello stesso tempo, Estor urtava Guerrehes; gli infisse la dura lancia nel petto e l’altro non ebbe più bisogno di speziali. Vedendo così morire i fratelli, Gaheriet per l’ira abbatté due cavalieri; ma Lionello, assalendolo di lato, gli fece volare l’elmo dal capo, e Lancillotto che passava, fracassando tutto, ardente di collera al punto da non riconoscere alcuno, gli spaccò d’un sol colpo il capo fino ai denti.

In breve, il lignaggio di re Ban e di re Bohor fece quel giorno tanto d’armi che, nel giro di pochi istanti, dei nemici non rimasero in vita che Mordret e dieci cavalieri, che fecero dietrofront.
E appena Lancillotto li vide fuggire, cessò di colpire, come la fiamma cessa di ardere quanto tutto è consumato: fece montare la regina su un palafreno e, con quelli che restavano dei suoi, andò a rifugiarsi in una roccaforte che aveva conquistata al tempo in cui era ancora novello cavaliere, e che aveva nome la Gioiosa Guardia, com’è detto nel libro che tratta dei suoi primi amori.

(La morte di Artù, 15-18)