Pirandello – Com’io volevo esser solo

Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi prego di credere che l’unico modo cerca-Pirandellod’esser soli veramente è questo che vi dico io.

La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.

Così volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.

Ma ora pensavo: «E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un paio d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere».

specchio-mare

Così, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.

Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui per così dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare più d’un attimo quell’impressione, ché subito seguì quel tale arresto e finì la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido. Firbo mi domandò:
– Che hai?
– Niente, – dissi.

E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, pensavo: «Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – Galletti-immagine-ribaltatavivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no».

E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano.

Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.

(Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1: 4)

***

… se abbiamo un corpo, è perché cadiamo sotto lo sguardo dell’Altro. Se nessuno ci vedesse, noi non avremmo un corpo: avremmo il cuore, il fegato, il naso e tutti gli altri organi, ma non avremmo una forma – quella forma sintetica che appunto chiamiamo «corpo» e che, guarda caso, identifichiamo con la nostra immagine allo specchio, con la nostra figura, con la nostra apparenza.

Sappiamo come comincia la storia del nostro caro Moscarda. Comincia che la moglie gli fa osservare che ha il naso leggermente pendulo a destra. Sicché, nel nostro Moscarda Magritte-philosophers-lampcomincia a farsi strada il pensiero che noi abbiamo il corpo che l’Altro, l’Estraneo, ci vede, e dunque che per sapere del suo corpo sarebbe necessario guardarsi con gli occhi di un estraneo.
È questo pensiero ad aprire la sua mente alla pazzia, o forse – anche questo è possibile – era già pazzo, la prima volta che l’ha pensato.
Perché c’è da impazzire all’idea di essere esclusi dal poterci vedere coi nostri stessi occhi, e che ci potremmo vedere solo estraniandoci a noi stessi, solo dissociandoci da noi stessi … insomma impazzendo.

Dov’è dunque l’abbaglio? dove – mi domando – se non in questa grossolana identificazione della forma apparente, della figura, col «corpo»?
Il corpo non è mai né bello né brutto. È la sua Forma che è buona o cattiva. E questo – se cioè essa sia socialmente appetibile o no – a deciderlo è sempre lo sguardo altrui. La forma del nostro corpo è sempre alla mercé di questo voyeurismo sociale, ed è inutile girarci intorno: siamo tutti pazzi della stessa pazzia del nostro caro Moscarda.
Come lui ci affatichiamo a estraniarci al nostro corpo, al nostro orecchio, al nostro naso, ai nostri piedi, al nostro seno e perfino ai nostri genitali, pur di assimilarci all’immagine che l’Altro «vede» di noi.