Quando Artù rientrò a Camelot, e seppe che Lancillotto non si era fermato che un solo giorno nella città, il suo cuore fu più tranquillo: «Se Lancillotto amasse la regina di folle amore – pensava – non si sarebbe allontanato sì presto». E questo lo fece dubitare di quel che Morgana la Sleale gli aveva detto e pensò che forse le pitture non rappresentavano la verità; eppure non ritrovò tutta la fiducia d’un tempo.
E poco dopo accadde che messer Galvano desinasse alla tavola della regina, con altri valentuomini, in una camera vicina alla sala grande. Un cavaliere di nome Averlan, che l’odiava mortalmente, aveva in segreto fatto porre davanti alla regina un frutto avvelenato, pensando che ella l’avrebbe subito dato da assaggiare al nipote, poiché egli era seduto accanto a lei ed era il barone più nobile.
Ella invece offrì il frutto all’altro vicino, un compagno della Tavola Rotonda chiamato Gaheris di Careheu, che subito ne mangiò per amore di lei e cadde morto non appena ebbe inghiottito il boccone. Ciò vedendo, tutti i cavalieri si alzarono dalla tavola stupefatti.
Uno di essi si affrettò ad andare a raccontare la notizia al re, che per la sorpresa si segnò e corse a vedere di che si trattasse, seguito da coloro che mangiavano in sua compagnia.
«È malvagità troppo grande», esclamò.
Intanto, gran parte dei baroni mormorava: «La regina ha veramente servito la morte!».
Ora, la regina era talmente stupita che non sapeva che pensare: «Che Dio mi aiuti! – disse. – Se avessi saputo che il frutto era avvelenato, non glielo avrei offerto nemmeno per la metà del mondo! Gli chiesi di mangiarne prima di me solo per compiacenza».
«Signora – riprese il re – in qualunque modo glielo abbiate dato, avete commesso un’indegnità e una cattiva azione».
E ordinò che si seppellisse Gaheris con grandi onori, come s’addiceva a uomo sì valente: il corpo fu inumato nella chiesa di monsignor Santo Stefano, che era la chiesa principale della città di Camelot.
E re Artù e tutti coloro che erano a corte provarono tale dolore per una morte sì turpe e indegna, che tra loro ne parlarono appena; eppure i compagni della Tavola Rotonda fecero incidere sulla tomba lettere che dicevano: «Qui giace Gaheris il Bianco di Careheu, fratello di Mador della Porta, che trapassò per un frutto avvelenato donatogli dalla regina».
Ché tale era l’usanza della Tavola Rotonda: sulla tomba dei compagni si scriveva il loro nome e come erano morti.
Tre giorni più tardi, Mador della Porta giunse a corte. Lo si conosceva come uomo di grande cuore e non vi fu alcuno abbastanza ardito da dargli notizie di Gaheris, che egli amava d’amore e come un fratello deve amare il fratello.
Un mattino, tuttavia, che era andato a Santo Stefano ad ascoltar messa, egli scorse una tomba fresca e s’avvicinò; ah!, quando ebbe letto le lettere che vi erano incise, allora avreste potuto vedere un uomo sbigottito e sconvolto! Non poteva credere che fosse vero!
Voltatosi, scorse che un cavaliere di Scozia lo guardava, e lo scongiurò di rispondere a quanto gli avrebbe chiesto.
«Mador – fece l’altro – so bene cosa volete chiedermi. È vero che la regina ha ucciso vostro fratello, come dice l’iscrizione».
«Lo vendicherò com’è in mio potere!», esclamò Mador. E subito si recò nella sala in cui re Artù era a banchetto, e là disse a voce sì alta che tutti lo sentirono: «Re Artù, se sei leale come deve esserlo un re, rendimi giustizia nella tua corte!».
«Ditemi quel che vorrete: vi farò diritto secondo il mio potere e il giudizio dei miei baroni».
«Sire – riprese Mador lasciando cadere il mantello – sono stato vostro uomo per quarantacinque anni: riprendo il mio omaggio e mi spossesso della vostra terra, perché non voglio più ricevere cosa da voi. La regina Ginevra ha ucciso a tradimento mio fratello Gaheris; se ella vuole negarlo, son pronto a provarlo con le armi e col mio corpo contro il cavaliere che ella sceglierà. E vi richiedo giustizia».
Molto dolente, ché tanto temeva per la regina, il re la fece chiamare davanti alla corte. Ed ella entrò nella sala, da cui erano state tolte le tavole, la fronte bassa e con l’aspetto di donna preoccupata, scortata alla propria destra da monsignor Galvano, alla sinistra da Gaheriet, i due cavalieri più stimati della parentela di re Artù.
Ma, quando il re le ebbe detto che Mador l’accusava di aver ucciso a tradimento il fratello Gaheris, ella alzò la testa e chiese: «Dov’è quel cavaliere?».
«Eccomi!», rispose Mador avanzandosi.
«Come, Mador, sostenete che io abbia ucciso vostro fratello di mia volontà?».
«Io dico che l’avete fatto morire slealmente e a tradimento, e se qui vi è un cavaliere che osi difendervi, son pronto a dargli morte o onore questa stessa sera, o domani, o il giorno che la corte stabilirà».
La regina si guardò intorno, alla ricerca di alcuno che s’offrisse di sostenere il suo diritto; ma non vide che occhi bassi e capi chinati, ché tutti pensavano che ella avesse torto e Mador ragione, e che, anche se avessero vinto, si sarebbe detto che era contro giustizia e lealtà.
Ella ne fu tutta smarrita; eppure, malgrado l’angoscia, rispose al re: «Sire, vi prego nel nome di Dio di farmi conoscere la decisione della vostra corte».
«Signora, la corte ha deliberato che, se negate il misfatto di cui vi si accusa, avete quaranta giorni di tempo per prendere consiglio e per cercare un valentuomo che difenda la vostra causa con le armi e con il corpo».
«Sire, non troverò in voi altro consiglio?».
«No certo, ché né per voi né per alcun altro io mi discosterò dal diritto e dal giudizio dei valentuomini che qui si trovano».
«Sire, vi chiedo dunque una dilazione di quaranta giorni. Prima d’allora, se piacerà a Dio, troverò un cavaliere che mi difenda; altrimenti, potrete fare di me quel che la corte deciderà».
Il re concesse la dilazione, che sarebbe spirata l’indomani del torneo di Camelot.
«Sire – disse Mador – è rendermi diritto concedere una dilazione tanto lunga?».
«In verità, sì, sappiatelo».
«Mi presenterò dunque al giorno stabilito, a meno che la morte me lo impedisca».
Sul che, lasciò la sala, menando sì gran duolo della morte del fratello che non v’era persona che lo vedesse senza provarne pietà. E la regina rimase tutta dolente e angosciata, ché temeva di non trovare un cavaliere che la difendesse, salvo i parenti di re Ban. Costoro, senza dubbio, se si fossero trovati a corte non le sarebbero mancati; ma ella stessa li aveva allontanati cacciando Lancillotto, ed essi erano scomparsi senza lasciar alcuna traccia, sì bene come si fossero gettati in un abisso. Ah! sappiate che ella si pentiva amaramente!
L’indomani, dice il racconto, quando il re ebbe finito di mangiare con i suoi cavalieri, s’affacciò a una delle finestre del palazzo, che dava sul fiume, e vi rimase a lungo, a testa bassa, a pensare che la regina non avrebbe avuto campioni, poiché tutti ben l’avevano vista porgere il frutto a Gaheris.
D’improvviso scorse una navicella che andava alla deriva sul filo della corrente, coperta d’un drappo di seta grande e ricco i cui lembi sfioravano l’acqua. Essa venne da sola a fermarsi ai piedi della torre; allora il re chiamò il nipote ed entrambi scesero a vederla.
«In fede mia – disse messer Galvano – le avventure ricominciano!».
Saltò nella navicella, sollevò il drappo e scoprì un letto sul quale giaceva il corpo di una damigella giovane e di grande bellezza: «Sire – esclamò – ecco la pulzella che Lancillotto amava d’amore!».
Così dicendo, trasse una lettera dalla scarsella che pendeva dalla cintura della morta. Il re risalì nella sala per farsela leggere: e grazie a questo, la regina, le sue dame, i valentuomini che vi si trovavano, tutti la sentirono.
A tutti i cavalieri della Tavola Rotonda, salute! Io, Passarosa, damigella di Escalot, vi rendo noto che morii d’amore e, se domandate perché, vi dirò che fu per il più valente, ma anche per il più crudele cavaliere del mondo, che ha nome Lancillotto del Lago, che vanamente pregai con pianti e singhiozzi che avesse di me mercé.
«Ah! damigella – si limitò a dire il re – potete ben dire che fu crudele colui per cui spiraste!».
E ordinò che si seppellisse la pulzella in Santo Stefano e che sulla sua tomba si incidesse in lettere d’azzurro e d’oro che ella era morta per Lancillotto. Poi rimase tutto pensieroso.
«Infelice – intanto si diceva la regina – come ho osato pensare che il più leale dei cavalieri m’avesse tradita? Mai uomo mortale amò come egli m’ha amata e m’ama ancora! E so che, se fosse qui, mi libererebbe ancora una volta dalla morte. Ma non saprà in tempo il grande pericolo in cui mi trovo e dovrò vilmente perire. Ahimé! morrà di dolore non appena saprà che son trapassata dal mondo!».
Quando fu giunto il giorno del torneo, nella pianura di Camelot avreste potuto vedere fino a centoventi cavalieri, d’un partito come dell’altro, e non ve n’era uno che non fosse valoroso e valentuomo.
E quando la regina seppe che vi era anche Bohor con tutta la parentela di Lancillotto, disse gioiosa a una delle sue damigelle: «Costoro metterebbero in avventura l’anima e il corpo piuttosto che lasciare che io subisca un affronto! Ora sono ben certa di non morire. Che sia benedetto Iddio che li ha guidati!».
Bohor fece tante gesta d’armi che vinse il premio, e re Artù, che ben l’aveva riconosciuto, gli andò incontro e gli chiese di restare a corte.
«Sire – rispose Bohor – non vi resterò in alcun modo finché non vi sarà messer Lancillotto, mio cugino. Sappiate che non sarei venuto a questo torneo se non avessi sperato di trovarvelo. Ah! molto io temo che non lo vediate per lungo tempo!».
«Perché? è forse corrucciato con noi?».
«Sire, se volete saperne di più, interrogate qualcun altro».
Ciò detto, Bohor andò a trovare la regina che aveva chiesto di lui, e mai, senza dubbio, ella fece accoglienza più gioiosa ad alcuno! Gli raccontò che non trovava un valentuomo che difendesse il suo diritto; ma egli le rispose rudemente che non era meraviglia che i cavalieri le mancassero, quando ella stessa aveva mancato senza motivo verso il migliore del mondo.
«Bohor, qualunque cosa io abbia fatto, voi mi proteggerete, lo so bene!».
«Signora, m’avete fatto perdere colui che io amavo sopra ogni altro, il mio signore e cugino; non so cosa sia stato di lui. No, non vi aiuterò affatto!».
A tali parole, la regina si mise a piangere. Ma Bohor uscì senza ascoltarla oltre.
Il re, da parte sua, s’era dato gran pensa di trovarle un campione; ma tutti rispondevano che ella aveva torto e Mador ragione.
«Sire – gli disse messer Galvano stesso – sapete bene che madama ha ucciso e che Gaheris è stato soppresso a tradimento; io l’ho visto, così come molti altri. Posso sostenere lealmente la sua causa? Se, come re, mi giurate che posso, sono pronto a condurre la battaglia. Altrimenti, fosse ella anche mia madre, per lei non commetterei slealtà».
Il re non poté ottenere nulla di più dal nipote né dagli altri valentuomini. Tutto dolente e angosciato, andò a dire alla regina: «Signora, non so cosa pensare di voi, ché tutti i cavalieri della mia corte vi abbandonano. Ah! preferirei aver perso il mio regno che vedere accadere simili cose mentre sono in vita. Ché nulla ho amato al mondo quanto voi, e voglio sappiate che vi amo ancora».
A tali parole, la regina si mise a piangere e a lamentarsi più forte di prima.
(La morte di Artù, 11-14)