Agostino – Il presente e l’eterno

McCarty-paradiso

Ecco: non sono uomini vecchi [platonici, ma nuovi: manichei] quelli che ci pongono la questione: «Che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra? Se infatti non aveva occupazioni e non faceva nulla – dicono – perché non ha anche dopo conservato questo stato, in cui si asteneva da ogni operazione? Ma se si è avuto un impulso nuovo in Dio e una nuova volontà, di istituire un creato che non aveva mai istituito prima, che vera eternità può essere quella in cui nasce una volontà che prima non c’era? D’altra parte, la volontà di Dio non è qualcosa di creato, ma è prima di ogni creatura, perché nulla sarebbe creato se non fosse preceduto dalla volontà di un creatore. Dunque, è alla stessa sostanza di Dio che appartiene la sua volontà. Ma se nella sostanza divina sorge qualcosa che prima non c’era, non è più vera l’asserzione che questa sostanza è eterna; se invece la volontà divina che esistesse il creato era eterna, perché non sarebbe eterno anche il creato?».

Quelli che parlano così non ti comprendono ancora, sapienza divina, luce delle menti: non capiscono ancora in che modo si faccia ciò che per te e in te si fa, e si sforzano di giungere alla conoscenza dell’eterno, ma intanto il loro cuore ancora svolazza fra il passato e il futuro agitarsi delle cose, e ancora è vano. Chi riuscirà a tenerlo fermo un attimo, a fargli carpire un istante dello splendore dell’eterno stare, che lo confronti col tempo instabile e veda che non hanno misura comune?

Veda, cioè, che la lunghezza di un intervallo di tempo anche lunghissimo non è fatta che di molti momenti che passano, e che non possono durare simultaneamente; mentre nell’eterno nulla passa, ma tutto è presente. E veda che nessun intervallo di tempo può essere tutto presente: e sempre il passato è cacciato dal futuro e il futuro deriva dal via-ad-eternopassato, e che ogni passato e ogni futuro è creato da ciò che sempre è presente, e da questo decorre.

Chi tratterrà il cuore dell’uomo, che stia fermo e veda come in questo stare l’eternità comandi passato e futuro, lei che non passa e non è mai a venire?
E come avrà questo potere la mia mano, ovvero la mano della mia eloquenza, per riuscire in un’impresa così grande?

Ecco come rispondo a chi domanda che cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra. Non come fece quel tale che eluse con una battuta di spirito l’aggressività della domanda, rispondendo: «Preparava la Geenna per chi indaga gli abissi». Ridere non basta per capire.
No, non rispondo a questo modo: preferirei allora una risposta del genere: «quello che non so, non lo so», che almeno risparmia la facile ironia per chi solleva una questione profonda e il plauso per chi dà una risposta falsa.

Invece io affermo che tu, nostro Dio, sei il creatore di ogni cosa creata, e se per cielo e terra s’intende ogni cosa creata, oso affermare: «Prima di fare il cielo e la terra, Dio non faceva cosa alcuna». Perché che cosa avrebbe fatto se non una cosa creata?
Magari sapessi tutte le cose che vorrei, che mi sarebbe utile sapere, così come so questa: che nessuna creatura venne fatta prima che fosse fatta una qualche creatura.

Ma se qualcuno è tanto leggero di mente da fantasticare di tempi più remoti ancora, e si meraviglia che tu, un Dio che tutto può e tutto crea e sostiene, artefice del cielo e della terra, abbia atteso innumerevoli secoli prima di metter mano a un’opera così grandiosa – si svegli e apra bene gli occhi, perché è irreale ciò di cui si meraviglia.
E come potevano passare innumerevoli secoli se non li avevi fatti tu, l’autore di tutti i secoli, tu che li instauri? E come può esistere un tempo che tu non hai instaurato? E come può esser passato, se non è mai esistito?

Se, insomma, tutto il tempo è opera tua, e se c’è stato un tempo prima che tu facessi il Gris-chitarracielo e la terra, perché si dice che ti astenevi da ogni opera?
Quel tempo precedente, appunto, l’avresti istituito tu, e non un solo momento di tempo poteva passare, prima che tu istituissi il tempo.
Se invece non esisteva il tempo prima che fossero fatti il cielo e la terra, perché chiedersi che cosa tu facessi allora? Non c’è un allora dove non c’è il tempo.

Non è nel tempo che tu precedi il tempo: altrimenti non precederesti ogni tempo. Ma dalla vetta dell’eterno presente tu precedi tutto il passato e sovrasti tutto l’avvenire, appunto perché è avvenire, e una volta avvenuto sarà passato.
Tu invece sei sempre lo stesso, e i tuoi anni non si dilegueranno (Salmi, 101: 28). Non vanno e vengono i tuoi anni, come fanno questi nostri, che se ne vanno tutti perché ciascuno possa venire. Stanno tutti assieme, i tuoi anni: appunto perché stanno lì e non se ne vanno, non si fanno cacciare da quelli che sopravvengono, non passano. Questi nostri invece ci saranno tutti quando non ce ne sarà più alcuno.

Un solo giorno sono i tuoi anni, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non succede al giorno di ieri. L’oggi è l’eternità, per te: perciò generi coeterno quello a cui tu dici: «oggi ti ho generato» (Salmi, 2: 7).
Hai fatto tu ogni tempo e sei prima del tempo, e non c’è mai stato un tempo in cui non c’era ancora il tempo.

Mai dunque, in nessun tempo, tu sei rimasto senza fare nulla, perché il tempo stesso sei tu che l’hai fatto. E non c’è periodo di tempo che possa dirsi a te coevo, perché tu permani: ma un tempo permanente non sarebbe tempo.
Già, che cos’è il tempo? Chi ce ne darà una definizione breve e facile? Chi riuscirà ad afferrarne almeno col pensiero tanto da poterne parlare? Eppure, che cosa c’è che noi, quando parliamo, diamo per tanto scontato e familiare quanto il tempo? E senza dubbio capiamo quello che diciamo, capiamo anche quando ne sentiamo parlare da un altro.

Dalì-impermanenza

Che cos’è dunque il tempo?
Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più. E tuttavia io affermo tranquillamente di sapere che, se nulla passasse, non ci sarebbe un passato, e se nulla avvenisse non ci sarebbe un avvenire, e se nulla esistesse non ci sarebbe un presente.
Ma allora in che senso esistono due di questi tempi, il passato e il futuro, se il passato non è più e il futuro non è ancora?

Quanto al presente, se fosse sempre presente e non trascorresse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità.
Se dunque il presente, per far parte del tempo, in tanto esiste in quanto trascorre nel passato, in che senso diciamo che esiste anch’esso?
Se appunto la sua sola ragion d’essere è che non esisterà: in fondo è vero, come noi affermiamo, che il tempo c’è solo in quanto tende a non essere.

E tuttavia noi lo diciamo lungo o breve, il tempo, benché così chiamiamo solo il passato o il futuro. Ad esempio cent’anni passati fino a oggi fanno un passato che chiamiamo lungo, e lo stesso vale per un futuro di cent’anni a partire da oggi; invece dieci giorni – poniamo – precedenti o successivi fanno un passato e un futuro che diciamo brevi.
tempo-spiraleMa come fa a esser lungo o breve ciò che non è?
Il passato non è più e il futuro non è ancora. Del passato dunque non dovremmo dire: «è lungo», ma: «è stato lungo», e del futuro: «sarà lungo».

Mio Signore, mia luce, forse anche qui la tua verità si fa beffe dell’uomo. Questo passato che è stato lungo, lo è stato una volta che era già passato o quando ancora non era presente?
In effetti, per essere lungo, doveva essere: dunque poteva esserlo solo finché c’era. Ma il passato non era più e non essendo affatto non poteva nemmeno essere lungo. Perciò, non dovremmo dire neppure, del passato, «è stato lungo» – infatti non troveremo mai che cosa sarebbe stato lungo, proprio perché non è, dal momento che è passato – ma dovremmo dire piuttosto: «È stato lungo quel tempo presente», perché era lungo mentre era presente. Finché non era ancora passato e non aveva ancora cessato di essere, era appunto qualcosa, e quindi, eventualmente, anche lungo; ma una volta che fu passato, smise anche d’essere lungo, nel momento stesso in cui smise d’essere affatto.

Vediamo allora se possa il presente essere lungo, anima umana: perché a te è dato sentire e misurare la durata. Che cosa mi rispondi? Dimmi: è lungo un presente che dura cent’anni? Ma vedi prima se cento anni possano essere presenti.
Dunque: se è in corso il primo anno, è questo che è presente, mentre gli altri novantanove sono futuri e quindi non ci sono ancora; ma se è in corso il secondo, un anno è già passato, l’altro presente, i restanti futuri.
E così, qualunque sia fra questi cento l’anno che supporremo presente: quelli che lo precedono nell’ordine saranno passati, quelli che lo seguono futuri. Perciò cento anni non possono essere presenti.

Vedi allora se possa essere presente almeno l’anno che è in corso.
Ora, se corre, di questo, il primo mese, tutti gli altri sono futuri; se il secondo, il primo è già passato e gli altri non ci sono ancora. Dunque, neppure l’anno in corso è tutto presente, e se non è tutto presente, non è l’anno a essere presente. Poiché l’anno è fatto di dodici mesi, e di questi è presente soltanto quello in corso, quale che sia, mentre gli altri sono passati o futuri.
E ciò, malgrado neppure il mese in corso sia in effetti presente: solo un giorno lo è; se è il primo, sono futuri tutti gli altri; se l’ultimo, sono tutti passati, e uno qualunque degli intermedi sta tra i mesi passati e quelli futuri.

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Eccolo qui il presente, il solo tempo che avevamo trovato possibile chiamare lungo, ridotto appena allo spazio di un giorno.
Ma esaminiamo anche questo, poiché neppure un giorno è mai tutto presente. Delle ventiquattro ore che, fra notte e giorno, lo costituiscono, la prima ha tutte le altre a venire, l’ultima le ha tutte alle spalle, e ciascuna delle intermedie ne ha di precedenti, passate, e di successive, future. E ciascuna singola ora è una fuga di minute particelle: quante han già preso il volo sono passate, e futuro è quel che resta.

Se è concepibile una frazione di tempo che non si possa ulteriormente dividere in parti, per piccole che siano, questa soltanto può dirsi presente: ma anche questa balza così rapida dal futuro al passato, che non ha la più piccola durata. Perché se ne avesse, si dividerebbe in passato e futuro: ma il presente non ha alcuna estensione.
Dov’è insomma un tempo che possiamo chiamare lungo?
Forse il futuro? Non diciamo certamente che è lungo, perché ancora non è, ciò che deve esser lungo: diciamo piuttosto che «sarà lungo». E quando lo sarà? Se anche allora sarà ancora futuro, non sarà lungo, perché non sarà ancora niente del tutto. Forse sarà lungo allora, quando dal futuro che ancora non esiste avrà preso a essere e si sarà fatto presente (così da poter essere anche eventualmente lungo)? Ma se risuona ancora nelle parole appena dette la voce del presente stesso, che nega di poter durare a lungo!

E tuttavia, Signore, noi percepiamo gli intervalli di tempo, e li confrontiamo e li diciamo più lunghi o più brevi. E misuriamo anche quanto più lungo o più breve un tempo sia di un altro, e calcoliamo che sia doppio o triplo, o che l’uno sia pari all’altro. Ma noi orologio-cappiomisuriamo il tempo che passa, quando lo misuriamo a orecchio.
I tempi passati invece, che non sono più, o quelli futuri, che non sono ancora, chi può misurarli: a meno che uno non abbia il coraggio di asserire che si può misurare ciò che non esiste. È insomma al suo passare che il tempo può esser sentito e misurato; una volta passato non può, perché non esiste.

Io chiedo, padre, non affermo: assistimi mio Dio, guardami tu. Chi mai si sognerebbe di venirmi a dire che non sono tre i tempi, come abbiamo appreso da bambini e ai bambini abbiamo insegnato: passato, presente e futuro – ma che c’è solo il presente, perché gli altri due non esistono?
O forse sì, ci sono, ma come nascondigli da cui il presente appare uscendo dal futuro, e in cui scompare quando si fa passato? E dove l’hanno visto altrimenti quelli che hanno annunciato il futuro, se non esiste ancora? Certo, non si può vedere ciò che non esiste.
E quelli che raccontano il passato non potrebbero mai darlo per vero, se non l’avessero ben distinto davanti agli occhi della mente: e se non esistesse affatto, non potrebbe esser visto, in alcun modo. Esistono dunque, passato e futuro.

Concedi, mio Signore, speranza mia, che io cerchi ancora: fa’ che la mia intenzione non ne resti smarrita. Se passato e futuro esistono, io vorrei sapere dove sono. E se non arrivo a tanto, so almeno che, dovunque siano, là non sono futuro o passato, ma presente. Perché se anche là fossero futuro o passato, non ci sarebbero ancora o non ci sarebbero più.
Perciò, dovunque e comunque siano, non esistono che come presente.

Quando si raccontano cose vere e passate, in effetti, non sono le cose stesse che son passare a esser cavate dalla memoria, ma solo le parole concepite dalle loro immagini, che si son fissate nella mente come tracce, dopo esser passate per i sensi.
E la mia infanzia, che non è più, è nel passato, che non è più: ma nel rievocarla e narrarla è nel presente che io vedo la sua immagine ancora viva nella mia memoria.

Se anche le predizioni del futuro abbiano una ragione analoga, se sia cioè possibile percepire in anticipo immagini esistenti delle cose che non ci sono ancora, Dio mio, confesso: questo non lo so.
Questo so invece, che di solito noi premeditiamo le nostre azioni future, e mentre questa surreal-auroraanticipazione mentale dell’azione è presente, non lo è ancora l’azione stessa, che è futura: solo quando l’avremo intrapresa e avremo cominciato a fare ciò che avevamo in mente, esisterà l’azione – cioè sarà presente, non futura.

Comunque stiano le cose riguardo ai misteriosi presentimenti del futuro, è certo che ciò che non esiste neppure può essere visto. Ma ciò che esiste già non è futuro, è presente. Perciò chi afferma di vedere il futuro non vede le cose stesse che ancora non sono, appunto perché sono a venire, ma le loro cause o forse i loro segni, che esistono già: che quindi non sono future, ma presenti a chi le vede, e può così predirne le future conseguenze, come le concepisce la sua mente. Concezioni che esistono, esse pure; e chi fa predizioni le vede appunto dentro se stesso.

Un esempio fra gli innumerevoli che mi dicono questo: l’aurora. La vedo e preannuncio il prossimo sorgere del sole. Quello che vedo è presente, quello che predico futuro: non il sole, che già esiste, è futuro, ma la sua levata, che non è ancora avvenuta.
E d’altra parte non potrei predire nemmeno che il sole sorgerà se non avessi in mente un’immagine di questo evento, come ora che ne sto parlando. Eppure né l’aurora che io vedo in cielo è il sorgere del sole, sebbene lo preceda, né lo è la sua immagine nella mia mente: bisogna che siano visibili o presenti tutt’e due perché quell’evento futuro sia previsto.
In conclusione, il futuro non c’è ancora, e se non c’è ancora, non c’è affatto, e se non c’è non si può proprio vedere: ma si può predire sulla base del presente, che già c’è e si vede.

E tu che regni sopra il tuo creato, come insegni alle anime il futuro? Perché tu l’hai insegnato, ai tuoi profeti.
Che modo sarà mai di insegnare il futuro il tuo, se per te nulla è futuro? O non insegni piuttosto le tracce presenti del futuro? Perché ciò che non è, non può neppure essere insegnato.
Troppo lontano dalla mia vista è questo tuo modo, troppo elevato, non lo potrò raggiungere da solo; ma col tuo aiuto sì, potrò, quando me lo concederai, dolce lume dei miei occhi bui.

(Agostino, Confessioni, 11: 10.12-19.25)