Lacan – L’ostinazione a ripetere

Ripartiamo dal nostro principio di piacere, e rituffiamoci nelle ambiguità.
A livello del sistema nervoso, quando c’è stimolazione, tutto opera, tutto è messo in gioco, gli efferenti, gli afferenti, perché l’essere vivente ritrovi il riposo. È il principio di piacere Leonardo-Mona-Lisasecondo Freud.
Sul piano dell’intuizione c’è, non vi sembra?, qualche discordanza tra il principio di piacere così definito, e ciò che di festante evoca, il piacere. Ciascuno rincorre la sua ciascuna, fino a oggi era così che si è visto la cosa.

In Lucrezio, era chiaro, e piuttosto brioso. E di tanto in tanto gli analisti, disperati di dover utilizzare categorie che sembrano loro così contrarie al sentimento, ci ricordano che c’è un piacere dell’attività, un gusto della stimolazione.
Si cerca di divagarsi, si è presi nel gioco. E dopo tutto Freud non ha forse introdotto la funzione della libido nel comportamento umano? questa libido è poi qualcosa di sufficientemente libidinoso? La gente cerca il proprio piacere.

Ma allora, perché questo si traduce teoricamente con un principio che enuncia che ciò che è ricercato è, in fin dei conti, la cessazione del piacere?
Lo si sospettava, in fondo, perché la curva del piacere è nota. Ma voi notate qui che il versante della teoria va strettamente in senso contrario all’intuizione soggettiva – nel principio di piacere, il piacere, per definizione tende verso la propria fine. Il principio di piacere, è che il piacere cessi.

In questa prospettiva, che cosa diventa il principio di realtà?
Il principio di realtà è in generale introdotto da questa semplice considerazione, che a cercare troppo il proprio piacere capita ogni sorta di complicazioni – ci si scotta le dita, ci si becca uno scolo, ci si rompe il muso.
È così che ci viene descritta la genesi di quello che si chiama apprendimento umano. E ci dicono che il principio di piacere si oppone al principio di realtà.
Nella nostra prospettiva, tutto ciò assume invece un altro senso. Il principio di realtà consiste nel fatto che il gioco duri, cioè che il piacere si rinnovi, che il combattimento non finisca per mancanza di combattenti. Il principio di realtà consiste nell’avere riguardo per i nostri piaceri, quei piaceri la cui tendenza è proprio di arrivare alla cessazione.

Sabourin-Anadyomene

Non crediate che gli psicoanalisti siano soddisfatti di questo modo di pensare il principio di piacere, che è tuttavia assolutamente essenziale, da un capo all’altro, per la teoria – se non pensate il principio di piacere in questo registro, è inutile introdurvi a Freud.
La nozione che c’è una specie di piacere proprio all’attività, il piacere ludico per esempio, mette a terra le categorie stesse del nostro pensiero. Che ce ne faremmo allora della nostra tecnica? Si tratterebbe semplicemente di insegnare alla gente la ginnastica, la musica e tutto quel che volete. I procedimenti pedagogici sono di un registro assolutamente estraneo all’esperienza analitica. Non dico che non abbiano un loro valore, e che non possano giocare un ruolo essenziale nella Repubblica – basta riferirsi a Platone.

Si può voler far rientrare l’uomo in un felice funzionamento naturale, fargli raggiungere le tappe del suo sviluppo, dargli il libero fiorire di quello che, del suo organismo, arriverà poi a maturità, e dare a ciascuna di queste tappe il suo tempo di gioco, poi il suo tempo di adattamento, di stabilizzazione, finché sopraggiunga la nuova emergenza vitale. Intorno, ci si può organizzare tutta un’antropologia.
Ma è forse quella che giustifica delle psicoanalisi, cioè sbatter la gente su di un divano perché ci racconti fesserie? Qual è il rapporto tra questo, e la ginnastica, la musica? Platone avrebbe compreso che cos’è la psicoanalisi?
No, non l’avrebbe compreso, malgrado le apparenze, perché c’è un abisso, una frattura, ed è ciò che stiamo cercando, con l’Al di là del principio di piacere.

Non dico che gli analizzati siano incapaci di apprendimento. Si può insegnare alla gente il piano – certo, se esiste – e ci si accorge per esempio che dopo aver imparato a suonare Brauner-surrealistasu piani a tasti larghi, sanno suonare il piano con tasti piccoli, su un clavicembalo, ecc.
Ma non si tratta che di segmenti determinati di comportamento umano, e non, come nell’analisi, del destino dell’uomo, della sua condotta quando la lezione di piano è finita e va a trovare la sua amichetta. Allora il suo apprendimento è su per giù quello di Bertoldo.

Sapete la storia di Bertoldo. Va al funerale, e dice – Congratulazioni! Lo svillaneggiano, gli tirano i capelli, torna a casa – Su, non si dice Congratulazioni a un funerale, si dice Pace all’anima sua. Esce di nuovo, incontra un matrimonio – Pace all’anima sua! E gli capitano ancora disgrazie.
Ebbene, è questo l’apprendimento come lo dimostra l’analisi, e di cui si tratta nelle prime scoperte analitiche – il trauma, la fissazione, la riproduzione, il transfert. Quello che nell’esperienza analitica si chiama intrusione del passato nel presente è di quest’ordine. È sempre l’apprendimento di qualcuno che farà meglio la prossima volta. E quando dico che farà meglio la prossima volta, vuol dire che bisognerà che faccia tutt’altro.

Quando ci dicono, impiegando la nozione in modo metaforico, che l’analisi è un apprendimento della libertà, ammetterete che suona strano. Quantomeno, nella nostra epoca storica, come diceva ieri Merleau-Ponty, si dovrebbe diffidare.
Che cosa svela l’analisi – se non la discordanza fondamentale, radicale, delle condotte essenziali per l’uomo, in rapporto a tutto ciò che egli vive? La dimensione scoperta dall’analisi è il contrario di qualcosa che progredisce per adattamento, per approssimazione, per perfezionamento. È qualcosa che va a salti, a balzi. È sempre l’applicazione rigorosamente inadeguata di certe relazioni simboliche totali, il che implica più tonalità, l’intromissione, per esempio, dell’immaginario nel simbolico, o inversamente.

C’è una differenza radicale tra l’investigazione dell’essere umano, anche a livello del laboratorio, e ciò che succede a livello animale.
Dal lato dell’animale, c’è una fondamentale ambiguità in cui ci si sposta tra l’istinto e l’apprendimento, appena si cerca, come si fa ora, di cogliere i fatti un po’ più da vicino. Nell’animale, le suddette preformazioni dell’istinto non sono affatto esclusive Nerdrum-jumperdell’apprendimento. Anzi, si trovano continuamente possibilità di apprendimento all’interno dei quadri dell’istinto.
Meglio ancora, si scopre che le emergenze dell’istinto non ci potrebbero essere senza un appello ambientale, come si dice, che stimoli e provochi la cristallizzazione delle forme, dei comportamenti e delle condotte.

C’è qui una convergenza, una cristallizzazione, che dà la sensazione, per scettici che siamo, di un’armonia prestabilita, beninteso suscettibile di ogni sorta di intoppi.
La nozione di apprendimento è in qualche modo indistinguibile dalla maturazione dell’istinto. È in questo campo che sorgono naturalmente come punti di riferimento le categorie gestaltiste. L’animale riconosce il fratello, il simile, il partner sessuale. Trova il suo posto nel paradiso, il suo ambiente, lo plasma persino, vi si imprime lui stesso. Lo spinarello fa un certo numero di buchini, che sembrano gratuiti, ma si capisce bene che è il suo salto che lascia il segno, il suo salto portato da tutto il corpo. L’animale s’incastra nell’ambiente. C’è adattamento, e un adattamento appunto che ha una fine, un termine, un limite. L’apprendimento animale presenta così le caratteristiche di un perfezionamento organizzato e finito.

Che differenza con ciò che ci scoprono le stesse ricerche – così si crede – sull’apprendimento dell’uomo! Esse mettono in evidenza la funzione del desiderio di ritornarci su, il privilegio dei compiti incompiuti. Si invoca Zeigarnik senza sapere bene quel che dice: un compito sarà tanto meglio memorizzato quanto più in condizioni determinate è fallito.
Ma non capite che tutto ciò va in direzione totalmente opposta alla psicologia animale, e anche alla nozione che possiamo farci della memoria come di un accatastarsi di engrammi, impressioni, in cui l’essere si forma?
Nell’uomo è prevalente la cattiva forma. È nella misura in cui un compito è incompiuto che un soggetto vi ritorna. È nella misura in cui uno scacco è stato cocente che il soggetto se ne ricorda meglio.

puzzle-Zeigarnik
Effetto Zeigarnik

Non mettiamoci a livello dell’essere e del destino – la cosa è stata misurata nei limiti di un laboratorio. Ma non basta misurare, bisogna anche cercare di comprendere.
So bene che lo spirito è sempre fecondo in modi di comprendere. Lo dico spesso alle persone che controllo – soprattutto fate ben attenzione a non comprendere il malato, non c’è niente che vi perda di più. Il malato dice una cosa che non ha né capo né coda, e, nel riferirmela – Ebbene ho capito, mi si dice, che voleva dire questo. Vale a dire che in nome dell’intelligenza, c’è elusione di ciò su cui ci si deve fermare, e che non è comprensibile.

L’effetto Zeigarnik, lo smacco cocente, o il compito incompiuto, tutti lo capiscono. Ci si sovviene di Mozart – inghiottita la tazza di cioccolato, torna a metter giù l’ultimo accordo. Ma non si capisce che non è una spiegazione. O che se lo è, vuol dire che non siamo degli animali.
Non si è musicisti al modo del mio cagnolino che prende un’aria trasognata quando si mettono certi dischi. Un musicista è sempre musicista della propria musica. E al di fuori di gente che compone musica, cioè che prende distanza da tale musica, ce n’è pochi che tornano a metter giù l’ultimo accordo.
Vorrei farvi capire a che livello si pone il bisogno di ripetizione. E ancora una volta, è a una certa distanza che troveremo il nostro riferimento.

Kierkegaard, che come sapete era un umorista, ha parlato della differenza, introdotta dal cristianesimo, tra mondo pagano e mondo della grazia. C’è qualcosa nell’uomo della surreal-musicistecapacità di riconoscere il proprio oggetto naturale, manifesta nell’animale. C’è la cattura nella forma, il rapimento nel gioco, la presa nel miraggio della vita.
È ciò cui si riferisce un pensiero teorico, o teoriale, o contemplativo, o platonico, e non a caso al centro di tutta la sua teoria della conoscenza, Platone pone la reminiscenza.

Se l’oggetto naturale, il corrispettivo armonico del vivente, è riconoscibile, è perché si disegna la sua figura. E perché si disegni, bisogna che sia già stata in colui che vi si congiungerà. È il rapporto della diade. Tutta la teoria della conoscenza in Platone – Jean Hyppolite non mi contraddirà – è diadica.
Ma per certe ragioni si è operato un rovesciamento. Ormai c’è il peccato come terzo termine, e l’uomo trova la sua strada non più sulla via della reminiscenza, ma su quella della ripetizione. Ecco ciò che mette Kierkegaard sulla strada delle nostre intuizioni freudiane in un libretto dal titolo La ripetizione. Ne consiglio la lettura alle persone già un po’ avanti. Quelli che non hanno molto tempo leggano almeno la prima parte.

Kierkegaard vuole sfuggire a problemi che sono quelli del suo accesso a un ordine nuovo, e incontra lo sbarramento delle sue reminiscenze, di ciò che crede di essere e di ciò che sa che non potrà divenire. Cerca allora di fare l’esperienza della ripetizione. Torna a Berlino, dove, durante il suo ultimo soggiorno, ha provato un infinito piacere, e ritorna sui suoi passi.
Vedrete cosa gli capita, a cercare il bene all’ombra del piacere. L’esperienza fallisce totalmente. Ma di conseguenza, ci porta sulla via del nostro problema, e cioè, come e perché tutto ciò che è progresso essenziale per l’essere umano debba passare per la via di una ripetizione ostinata.

Vengo al modello su cui voglio lasciarvi oggi per permettervi di intravedere cosa vuol dire nell’uomo il bisogno di ripetizione. Tutto risiede nell’intrusione del registro simbolico. Ve lo illustrerò soltanto.
Sono molto importanti, i modelli. Non che ciò voglia dire qualcosa – non vuol dire niente. Ma noi siamo fatti così – è la nostra debolezza animale – abbiamo bisogno di immagini. E, in mancanza di immagini, capita che dei simboli non vengano alla luce. In generale, è piuttosto la deficienza simbolica che è grave. L’immagine ci viene da una creazione surreal-immaginazioneessenzialmente simbolica, cioè da una macchina, la più moderna delle macchine, molto più pericolosa per l’uomo della bomba atomica, il calcolatore.

Ve lo dicono, lo sentite e non ci credete – il calcolatore ha una memoria. Vi piace dirlo, ma non lo credete. Ricredetevi. Ha un genere di memoria destinato a mettere in discussione tutte le immagini che finora ci eravamo dati della memoria. Quanto si era trovato di meglio per immaginare il fenomeno della memoria era il sigillo a cera babilonese, un coso con piccoli rilievi e qualche tratto che fate passare su uno strato di cera, quello che si chiama un engramma. Anche il sigillo è una macchina, solo non lo si vede.

Perché le macchine si ricordino a ogni domanda, il che è talora necessario, delle domande poste loro in precedenza, si è trovato qualcosa di più astuto – la prima esperienza della macchina circola in essa allo stato di messaggio.
Supponete che io mandi un telegramma da qui a Le Mans, con l’incarico per Le Mans di mandarlo a Tours, di lì a Sens, di lì a Fontainebleau e di lì a Parigi, e così indefinitamente. Bisogna che quando arrivo alla coda del mio messaggio, la testa non sia ancora arrivata. Bisogna che il messaggio abbia il tempo di girare. Gira in fretta, non cessa di girare, gira in tondo.
È divertente, questo affare che ritorna su se stesso. Ricorda il feedback e ha un rapporto con l’omeostato. Sapete che è così che si regola l’immissione del vapore in una macchina a vapore. Se va troppo forte, un mulinello lo registra, due cose si scartano con la forza centrifuga e l’immissione del vapore è regolata. Ecco cosa governa il moto omeostatico della macchina a vapore. C’è oscillazione su un punto di equilibrio.

Qui, è più complicato. Lo si chiama un messaggio. È molto ambiguo. Che cos’è un messaggio all’interno di una macchina? È qualcosa che procede per apertura o non apertura, come una lampada elettronica con sì o no. È qualcosa di articolato, dello stesso ordine delle opposizioni fondamentali del registro simbolico. A un momento dato, quel qualcosa che gira deve, o no, rientrare nel gioco. È sempre pronto a dare una risposta e a completarsi nello stesso atto di rispondere, cioè a cessare di funzionare come circuito isolato e girevole, a rientrare in un gioco generale.
Ecco qualcosa che si avvicina molto a ciò che possiamo concepire come lo Zwang, la compulsione di ripetizione.

Martsolf-apocalisse

Appena si possiede questo piccolo modello, ci si accorge che nella stessa anatomia dell’apparato cerebrale ci sono cose che ritornano su se stesse. Grazie a Riguet, su indicazione del quale ho letto l’opera di un neurologo inglese, mi sono molto interessato ad un certo polipo. Sembra che il suo sistema nervoso sia sufficientemente ridotto, da avere un nervo isolato che presiede a quello che si chiama il getto, o la propulsione del liquido, grazie al quale la piovra ha quel modo così carino di avanzare. Si può anche credere che il suo apparato di memoria sia all’incirca ridotto a quel messaggio che circola fra Parigi e Parigi, su punti molto piccoli del sistema nervoso.

Ritornate a quello che dicevamo negli anni precedenti su quelle combinazioni sorprendenti che Freud nota nell’ordine di quello che chiama telepatia. Cose assai importanti, dell’ordine del transfert, accadono correlativamente in due pazienti, sia che l’uno sia in analisi e l’altro appena sfiorato, sia che siano tutt’e due in analisi.
A suo tempo vi ho mostrato che è per il fatto di essere agenti integrati, maglie di una catena, supporti, anelli in uno stesso cerchio di discorso, che i soggetti si trovano a veder sorgere nello stesso tempo un certo atto sintomatico, o a veder rivelarsi un certo ricordo.

Al punto in cui siamo arrivati, vi suggerisco, in prospettiva, di concepire il bisogno di ripetizione, quale si manifesta concretamente nel soggetto in analisi per esempio, nella forma di un comportamento montato nel passato e riprodotto al presente in modo poco conforme all’adattamento vitale.
Ritroviamo qui ciò che vi ho già indicato, cioè che l’inconscio è il discorso dell’altro. Questo discorso dell’altro, non è il discorso dell’altro astratto, dell’altro nella diade, del processione-san-Sebastianomio corrispondente, neanche semplicemente del mio servo, è il discorso del circuito nel quale sono integrato. Ne sono uno degli anelli.

È il discorso di mio padre per esempio, in quanto mio padre ha fatto degli errori che sono assolutamente condannato a riprodurre – è quello che si chiama Super-ego. Sono condannato a riprodurli perché bisogna che io riprenda il discorso che mi ha lasciato in eredità, non solo perché sono suo figlio, ma perché non si fermi la catena del discorso, e io sono appunto incaricato di trasmetterla nella sua forma aberrante a qualcun altro.
Devo porre a qualcun altro il problema di una situazione vitale, in cui ci sono tutte le chances che inciampi anche lui, in modo che questo discorso compie un piccolo circuito in cui si trovano presi tutta una famiglia, tutta una congrega, tutto un campo, tutta una nazione o la metà del globo.
Forma circolare di una parola che è giusto al limite del senso e del non senso, che è problematica.

Ecco cos’è il bisogno di ripetizione come lo vediamo sorgere al di là del principio di piacere. Esso vacilla al di là di tutti i meccanismi di equilibrazione, di armonizzazione e di accordo sul piano biologico. Esso non è introdotto che dal registro del linguaggio, dalla funzione del simbolo, dalla problematica che interroga l’ordine umano.
In che modo tutto ciò è letteralmente proiettato da Freud su un piano in apparenza di ordine biologico? Vi ritorneremo le prossime volte.
La vita non è presa, nel simbolico, che frammentata, decomposta. L’essere umano stesso è in parte fuori della vita, partecipa all’istinto di morte. E solo da qui può affrontare il registro della vita.

(Lacan, Il Seminario: 2)