Né in Esiodo, né in Eschilo Prometeo è il creatore degli uomini; o per dirla in termini più esatti, egli non ha alcuna parte nella prima fase della creazione dell’uomo che, secondo la concezione greca «autoctona», non era che una nascita dalla terra. Prometeo è un dio che s’identifica con le creature spuntate dalla terra.
Nel mitologema del furto del fuoco rivestito da Eschilo di forma drammatica, queste creature, con ogni probabilità, erano già presenti. Da Lemno, una dea identica alla propria isola, è nato un uomo primordiale, di nome Kabiros, oppure i Kabiri al plurale erano figli del suolo vulcanico di Lemno, demoni del fuoco ed esseri fallaci allo stesso tempo.
Se la parola greca per «uomo» risale ad ἄνθρ-αξ «carbone infuocato, brace» – una possibilità che ora possiamo forse osare di avanzare – sarebbero questi primi uomini di Lemno quei «volti di brace» cui allude il nome enigmatico, più tardi incompreso, ἄνθρωπος. In questo caso si comprenderà anche perché nelle Opere e Giorni di Esiodo si dice che Zeus abbia «nascosto» il fuoco agli uomini, esattamente come Demetra ha «nascosto» in un certo momento il frumento che gli uomini avevano già avuto.
Originariamente di fuoco essi stessi, e poi, in seguito al fallace sacrificio di Prometeo, diventati completamente privi di fuoco, gli uomini sono stati salvati da Prometeo che aveva rubato il fuoco celeste di Zeus.
La composizione eschilea parte dalla situazione degli autoctoni completamente privi di fuoco. Prometeo racconta al coro come erano gli uomini prima che lui li avesse perfezionati. Ed egli sottolinea che la sua descrizione non sarà tuttavia un vilipendio (μέμψις) – osservazione che allude alla predicazione orfica già allora esistente che implicava il vilipendio delle condizioni primordiali:
Udite, invece, le infelicità regnanti fra gli umani prima che io li rendessi intelligenti e coscienti dei loro pensieri. Quel che dirò, non è perché abbia da muovere un biasimo agli uomini, ma per mettere in evidenza il beneficio di cui li ho gratificati facendo loro dono del buon pensiero. Essi, in passato, avevano occhi ma non vedevano, orecchi ma non sentivano, ma simili ai fantasmi dei sogni nella loro lunga vita avevano solo immagini confuse, né di case costruite di mattoni e al sole esposte avevano un’idea, né dell’arte di lavorare il legno; abitavano sotto terra come formiche rapide nel profondo di cavità impenetrabili al sole.
(Eschilo, Prometeo incatenato, 443 ss.)
Questa descrizione degli autoctoni – delle condizioni di veri uomini-formiche – ha fatto scuola presso i poeti tragici posteriori Crizia e Moschione. In questi ricorre anche una concordanza letterale con un frammento orfico che si riferisce alla maniera impura di vivere e di alimentarsi, propria dei primi uomini. All’argomento dell’alimentazione, particolarmente importante per gli Orfici, Moschione ha dedicato versi appositi, di modo che il suo passo e quello di Crizia possono essere considerati come ispirati all’orfismo.
Questi due autori tragici sono ricorsi a fonti orfiche, dopo che il Prometeo di Eschilo aveva introdotto nella tragedia la descrizione delle condizioni dei primi uomini in tono di predicazione misterica orfica.
Dal punto di vista puramente obiettivo tutt’e tre le descrizioni – di Eschilo, Crizia e Moschione – precorrono l’immagine che Epicuro e Lucrezio dipingeranno delle condizioni primitive dell’umanità.
L’innegabile biasimo (μέμψις) nel tono di Prometeo tradisce un’origine religiosa anche senza coincidenze letterali o di argomento coi frammenti orfici. L’«avere gli occhi senza vedere, e gli orecchi senza udire» è una forma d’espressione religiosa che non per niente ci ricorda il linguaggio biblico (cfr. Ezechiele, 12. 2; Marco, 8: 18) e trova corrispondenze nello stesso tempo in Eraclito e in Parmenide.
La letteratura cui un simile tono era proprio e che poteva esercitare un influsso anche sullo stile dei filosofi greci, non poteva essere che quella orfica. Anche la particolare accentuazione del carattere di sogno e di ombra («simili ai fantasmi di sogno») in cui Eschilo concorda con Aristofane, deve risalire necessariamente a una fonte orfica. Così si illustravano le condizioni degli «uomini incompiuti» (ἄτελεῖς), quando si voleva concepire il perfezionamento per mezzo dell’iniziazione ai misteri come la seconda e conclusiva fase della creazione dell’uomo.
Il Prometeo di Eschilo rivendica a sé questa seconda fase, entrando con ciò in quello schema dell’antropogonia greca che la poesia orfica trovava già bell’e pronto per illustrare in senso così negativo il periodo tra le due fasi: tra la nascita dalla terra e il perfezionamento per mezzo dei misteri.
Il mitologema di Dysaules rivela questo schema con tutta la chiarezza possibile: la dea madre della prima fase è la Terra che partorisce per una vita animalesca, priva di sacralità, imperfetta. Compagna di una simile vita è la Baubo. Nella seconda fase entra in scena Demetra, dea madre dei propri misteri, portando il perfezionamento e la consacrazione della vita per mezzo di un «nutrimento degno dell’uomo»: il frumento che è essenzialmente collegato col segreto dei suoi misteri.
Nella descrizione che fa di questa seconda fase – concepita come fase di una storia umana d’impostazione del tutto razionalistica – Moschione rammenta oltre al frumento anche il vino, quale segno e strumento dell’incivilimento.
La convinzione che soltanto il pane e il vino hanno fatto dell’uomo un uomo civile, ricorre frequentemente nella letteratura classica anche senza un esplicito riferimento a determinati misteri – quelli di Demetra o di Dioniso – e può proiettare un certo riflesso di sacralità anche su un poema didattico sull’agricoltura, come le Georgiche di Virgilio.
La poesia orfica aveva rapporti strettissimi coi misteri dionisiaci. Se dunque nello schema che si può ricostruire in base all’inno orfico a Demetra, la dea figura tuttavia solo nella parte di chi porta il perfezionamento, ciò deve avere la sua ragione particolare: una ragione particolare su cui getta forse luce il fatto che sono i Kabiri che figurano nella parte dei primi uomini iniziandi.
I «primi uomini» della mitologia greca, elencati in un relativamente recente inno in prosa, in parte sono figure singole, come il Dysaules eleusino, il Pelasgo arcadico, l’Alalcomeneo beotico – un astuto essere primordiale affine a Prometeo e a Ulisse – in parte sono gruppi demoniaci, come i Cureti dell’Ida e i Coribanti della Frigia.
In questo elenco Kabiros, al singolare, figura come l’uomo primordiale di Lemno; ma secondo la leggenda cultuale del Kabirion di Tebe, quegli uomini cui apparteneva Prometeo e a cui Demetra ha portato i suoi misteri, erano Kabiri: un secondo esempio chiaro della formazione in due fasi dell’umanità.
Le caratteristiche raffigurazioni dei frammenti di vasi ritrovati nel Kabirion ci mostrano sia il grande Kabiros, padre divino e uomo iniziato, sia un piccolo uomo primitivo selvaggio, rappresentato quasi conformemente alle idee democriteo-epicureo-lucreziane, che porta il nome eloquente di Mitos, lo Sperma.
Esse mostrano inoltre i Kabiri non ancora iniziati in figure embrioniche e nello stesso tempo esageratamente falliche di nani, e anche i loro sosia, i pigmei – i nani della mitologia greca – in scene non meno grottesche e ridicole.
Possiamo riconoscere il pieno significato di questo stile: così si rappresentano gli ἄτελεῖς, gli imperfetti, i non-iniziati. A questi uomini primordiali che sono soprattutto «maschi primordiali», la consacrazione e il perfezionamento arrivano per mezzo di una superiore figura femminile dotta nei misteri.
Non è una contraddizione se i Kabiri da una parte si contano tra quegli spiriti maschili che in turbe accompagnano la Madre degli dèi dell’Asia Minore, Cureti e Coribanti, e dall’altra, fanno parte dei Dattili Idei, i già menzionati nani sorti dalla terra.
Entrambe le connessioni hanno assolutamente senso e sono in accordo col fatto che i Kabiri sono essenzialmente «imperfetti». Questi demoniaci esseri sciamanti, Cureti e Coribanti, non erano meno maschili e portati alla procreazione, dei Dattili, per quanto essi, come spiriti o – nel culto primitivo – portatori degli spiriti dei rombi che la Grande Madre doveva ancora partorire, dovessero essere in questa condizione prenatale spettralmente incompleti.
Ma nei Dattili Idei – «diti dell’Ida» – bisogna riconoscere dei phalloi sorti dalla terra o formati per mano di una dea. Essi erano servitori e compagni di trono (paredri) della madre degli dèi che, quali fabbri primordiali, non dovevano essere di natura meno ignea dei Kabiri di Lemno, eppure come semplici «Dattili» erano soltanto mere membra e non esseri completi.
Ciò che essi rappresentano in forma pura, è l’autoctono «primo uomo» come questo era originariamente concepito.
Questo era il materiale mitologico di cui si poteva formare un’antropogonia come quella di Empedocle, secondo cui dalla terra sarebbero cresciute delle singole membra.
Nella vita cultuale a questo materiale corrispondeva la dottrina secondo cui i non-iniziati sarebbero stati uomini incompleti; nella meditazione sulla storia primitiva dell’umanità, da questo materiale si formò quell’idea delle condizioni dei primi uomini, che vediamo per esempio nel Prometeo di Eschilo.
Ciò che però è decisivo per la piena valutazione scientifica e umana di questo materiale, è il principio informatore che solo gli dà un senso: quella concezione, non esclusivamente greca, secondo cui, affinché l’uomo primordiale diventi uomo, ha bisogno di una seconda formazione, una seconda creazione o nascita.
Per i Greci, questa seconda formazione consisteva nella consacrazione per mezzo del pane e per mezzo del dono dei misteri, su cui, secondo questa concezione, la civiltà riposa non meno che sull’agricoltura.
L’uomo proviene dalla terra, ma diventa uomo solo nella seconda fase della sua creazione: per mezzo di un perfezionamento nel segno di Demetra o in quello di Prometeo.
(Kerényi, Miti e misteri)