Bene – Lectura Dantis a Bologna

La calura impazzava. Io mi giacevo come chi si muore entro una cella invero assai costosa d’ospizio bolognese detto Crest, fuor della villa. Per alleviar le molestie del trapasso, avea bagnato d’acque fresche i tappeti e, due stregati marchingegni con cui Carmelo-Bene-lectura-Dantiss’abusa comunicar lontano, stancamente alli orecchi.
In verità, trattavasi d’assai complesso ponte vociatore che permetteva ascoltare e interloquire con la bottega ubicata in quel di via delle calzolerie e di là con li spalti della Torre Asinelli fermentata dai genieri del suono in bel travaglio insolato che – d’incanto più e più torri ligneoferrigne con appositi arieti entro un solo mattino i machinisti speciali, con l’ausilio della milizia addetta ai fuochi pubblici, aveano eretto a fortificazione de la voce nostra – esperimentavano i tuoni e lor colori e percezione e potenza all’uopo, ché la sera scendeva e n’era forza sbaragliar le nimiche fazioni, e, d’altro canto, produrre grande strazio ne le genti in ascolto.

Questi genieri scelti in su li spalti roventi del meriggio, intimoriti punto del gran tumulto de le folle in basso, con ordigno pre-disposto intendeano li consigli del mastro in succitata bottega Maenza Salvator nomato, non vedente d’occhi due e perciò abilissimo conoscitor de la musica e inventor di congegni altoparlanti di provata efficacia atti a disperdere qual si sia resistenza dialettica inimica con l’assordar de li timpani se in caso di necessitade.
E questo artefice, da me prescelto e poi da don Renato [Zangheri, all’epoca sindaco di Bologna] incarcato d’aitarmi a espugnar la cittade dallo interno, già disposte le Piazze Maggiore e Santo Stefano a recepir li canti d’Allegheri, si tenea meco in perpetuo contatto, biastimando d’ardore ogni momento.

Annottava allorquando, sorretto e confortato dai cerusici, raggiunsi quei miei prodi genieri in sulli spalti. E lo sguardo mi cadde giù tra’merli, e me s’offerse, mai veduto prima, di genti variopinto un oceàno.
Chiesi a un birro di guardia quanto tempo distava dal cominciamento di mia funzione, e quei mi disse un’ora o poco meno.
Prese a soffiare un vento di scirocco che fastidiava non poco li megafoni issati in su le lance. Io mi forzava trattener gli spirti e darmi pace, come usa pugilatore avanti la sua tenzone.

Carmelo-Bene-declama

Era l’ora. M’inerpicai sui pioli d’una impervia scaletta e finalmente mi mostrai alla folla che, meravigliata forse più di suo numero che del miraggio mio, salutò in me l’attesa. Fu di plauso un boato indescrivibile che si ripercoteva da le piazze lontane e ne le strade adiacenti tutte.
Apparvi. Li occhi mia chiusi al leggio luminescente, presi a cantar li versi d’Allegheri. Ma d’altrove, nel tempo delle nevi e del vin cotto di mia parvola vita. E venni meno, e il canto seguitò come profferto da ser Boccaccio in quella villa istessa settecent’anni prima.
Li suoni rincorreansi sovra i tetti, e il silenzio divoto de le genti omai fatte incantamento mi suase al dolce vanire. Un rifiorir de la mente, mariano, ai piedi de la prediletta Madonna argentea in vesti amnesia d’azzurro e rosa.

Or io mi dico, nel mentre ch’ero detto, come non mi fu dato altra volta in mia vita intendere, che quella mia preghiera lentamente si smarriva, e via via che il silenzio del mio dire s’obliava del senso, Nostra Signora lontanando vaniva al guardo mio innamorato. Era che il mio pensiero parvolino non poteva suadersi essere lui la Madonna invocata. Ché la Madonna m’appariva beata, poi che devotamente io dicevo, rivolto a lei. Io le parlavo, ma non ero quel dire. La vedevo. Evocato, il miraggio sussisteva, finché di nuovo io immemore, seguitava il mio stesso discorso a dire, e la visione dileguar dentro il discorso, da che la mia preghiera l’aveva – ora intendo – estromessa.

V’era (v’è) dunque, un apparir della voce che sempre si verifica se conferisci con, se parli a.

Quand’io incominciai a render vano
l’udire …

mi diceva la voce, il mio interno cantar l’ascolto, e, ventilata da un’ala d’emicrania, la mia Carmelo-Bene-strabuzzamente d’altrove profondava nel sud del Sud dei santi; ma depensata lieve mongolfiera in celeste balìa sull’infinito mare stanco:

«Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna … Vedere o non vedere la Madonna, è il tema …».

«San Giuseppe da Copertino, guardiano di porci, si faceva le ali frequentando la propria maldestrezza, e le notti, in preghiera, si guadagnava gli altari della Vergine, a bocca aperta, volando».
«I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise …».

«I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali. Negati al volo, eppure volano lo stesso, e, invece di posare ricadono, come se un tale, avendo i piombi alle caviglie e volendo disfarsene, decide di tagliarsi i piedi …».

«Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa. Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono … Se vuoi stringere sei tu l’amplesso; quando baci, la bocca sei tu …».

«Ma i cretini che vedono la Madonna non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza.Sacramento è questa demenza, perché una fede accecante li ha sbarrati questi occhi, ha mutato gli strati – erano di pietra gli strati – li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo …».

Giuseppe Desa santo aveva a cuore particolarmente una Vergine dipinta nel conventino suo della Grottella. Tanto a cuore, se un giorno disconobbe sua madre – povera donna idiota e illetterata assai più del suo figliolo –: «Tu non sei, tu non sei!», e, indicando l’immagine: «Quella è la mamma mia!».
Ginocchioni davanti a quella immagine fu spiato più volte levitare. Troglodita, profferiva un beato nulla. Quindi, un urlo animale e il volo. Posava chissaddove: sul cornicione della chiesa madre, altra volta sul ramo d’un olivo. Addormito.

Nessuno in terra aveva facoltà di ridestarlo, fuor che il suo superiore che, francescano, gl’intimava la regola: «Obbedienza, eh?» (un po’ sconsiderato quel priore se, constatata la san-Giuseppe-da-Copertinoprecarietà dell’estasiato, maldestramente ne comprometteva la vita).
«Stu sonnu, stu sonnu, che vvoi da me!», Giuseppe, disgraziato, obbediente, si svegliava e, preso atto del suo corpo instabile, preda della vertigine, invocava piangendo una scala.

Di volo in volo, trasferito (a piedi, fu il castigo-penitenza della Santa Sede), dopo un breve soggiorno a Napoli, in che la corte noiata ebbe a svagarsi d’una sua «evoluzione» congiurata, a Osimo, supplicava ostinato il Vaticano che gli fosse accordato rivedere la sua bella Madonna abbandonata in quel di Copertino: grazia a lungo negata e poi, a un tratto, chissà perché accordatagli.
Ebbene, quando la sospirata immagine celeste gli fu recapitata, «non la voglio più», disse.
Un capriccio? Tutt’altro. Gli è che Giuseppe Desa «Voccaperta» aveva piano piano smascherato il pittore di quella sua Madonna: Malatasca (così nomava il diavolo).

Il demonio e l’immagine, dunque. Peccato di preghiera.
La visione è l’inferno dell’orante. La visione è un demerito del dire.
Parlare (al)la Madonna. Questa parentesi è l’abisso. Quanta pena deve farci un attore – il più dotato delirante de-genere – a ripensar l’equivoco del rivolgere il dire a, se il convito d’amore è amor del dire, se conversare è solo ascolto di colui che nomina.

Quant’è laido (alternativo della voce «laico» nel Tommaseo) il teatrino della replica.
È follia intrattenere la Madonna. Ella è quel nulla di che noi siamo. E se la voce la espropria, la figura, è perché noi preghiamo devotamente.
La devozione è quell’affanno misero di che la nostra preghiera ansima e se ne muore. E, addolorata, trista conseguenza, la Madonna ci appare.
Mortificata nel pettegolezzo, la nostra voce ha le sue visioni. E son queste visioni che il dire musicale riconverte nella implosione buia della voce, così che noi parliamo la Madonna. Nostra Signora delle mancanze beate:

Onde si colorava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s’inzaffira
Io sono amore angelico che giro.

Dicevo. Sono apparso. È un indicibile – tutt’altro dal passato riflettente – verbo passivo. Sono detto. Son’io quella Signora.

Così la circulata melodia
si sigillava e tutti li altri lumi
facean sonar lo nome di Maria.

Un boato salutava il termine della Lectura Dantis, d’entusiasmo (in)fondato. Non v’ha dubbi. Ero apparso alla Madonna.

Ahi, che non basta scampar l’immagine: quel parlare a se stesso nell’orecchio «in pieno mercato» dell’Epitteto eternoritornante, ché scomparire è tuttavia la sola, paradossale Dalì-visioneformula d’apparizione all’altrui orecchio.

«Gli altari muovono verso di loro (i santi)», macchinati dall’ebetismo psicopatico in folla. È un miracolo (lo son tutti i miracoli) di piazza.
È a Madonna la piazza che si appare.

È la folla miracolata in quanto a fronte d’un ascolto non suo, senza il rimedio della replica, esclusa dal discorso e solo e sempre perciò commossa.

È così che si appare alla Madonna. Sub specie spectaculi.

Il dir l’ascolto ha propiziato una certa attenzione religiosa, tramite l’esclusione, nel mare umano che per questo è cangiato in folla di fedeli. E sei stravisto, tramontato l’ascolto, non più al riparo della nominazione, soverchiato dal plauso, sola replica ritardata che s’accorda ai «devoti» e ti mostra loro in vanità benedicente di «tante grazie» e baci.

Si appare alla Madonna soggettivata dalla folla esultante.
E così La Madonna ha le sue visioni. Allucinazioni di massa in che Nostra Signora incontra, degradata a miraggio, la sua fatale prostituzione.
E quale altra epoca se non questa nostra, così specifica dei «consumi», può garantire miracoli ad ogni istante?
L’insensata inflazione del mercatino delle immagini (tele-cinema) è, non a caso, preclusione scontata al miraggio.
Perché si dia il miracolo, è necessario svanir nel dire. E l’apparire della phonè dice pure il suo stesso paradosso, come «altrove» di massa del discorso.

Questa Madonna ch’io più non sono, nella gratificazione della folla è costretta al bordello delle immagini. È dannata a esser vista. È applaudita, degradata al «bis» confidenziale del paradiso in terra d’una sera.
Non v’è nulla che tenga, se dal nulla si appare alla Madonna.

(Bene, Sono apparso alla Madonna)