Lévi-Strauss – Le nozze esogamiche di Monmaneki

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I quattro matrimoni esogamici di Monmaneki hanno cause occasionali, due delle quali riguardano le funzioni escretive e le altre due quelle nutritive; ma tali funzioni sono sempre confuse: ora con una copulazione intesa in senso fisico (e in questi due casi la donna diventa madre), ora con una unione che è più che altro di ordine morale (allora, infatti, la donna riveste per lo sposo la funzione di vivandiera).
Monmaneki orina sulla rana e defeca sul verme, mentre riceve la linfa della palma dall’uccello arapaço, e la birra di mais dalla donna-ara. La birra è cotta, come dimostra un particolare del racconto: «arrostendo una sola pannocchia di granturco, la donna ottenne tanta birra da riempire cinque grosse giare».

La birra e gli escrementi sono più «cotti», nel senso di elaborati, della linfa e dell’orina, e richiamano anche una materia più consistente delle altri due.
Si ottiene dunque una tabella a tre entrate:

CRUDO COTTO
ESCREZIONE orina feci (dall’uomo alla donna)
NUTRIZIONE linfa birra (dalla donna all’uomo)

Nei due casi della riga superiore, la donna incorre in una confusione fisica fra escrezione e copulazione: rimane incinta e partorisce un bambino.
Nei due casi della riga inferiore, avviene una triplice inversione: il marito incorre in una surreal-viandanteconfusione morale, questa volta tra nutrizione e copulazione; basta che la ragazza che incontra gli dia da mangiare perché egli la prenda come moglie, senza però fecondarla.

Passando ora a esaminare il quinto episodio (matrimonio endogamico), possiamo constatare che persistono, sdoppiandosi, le stesse relazioni.
Prima di tutto, il corpo stesso della sposa si divide in due parti: la metà inferiore è femminile per contiguità fisica (include le parti sessuali) e maschile per somiglianza (si inserisce per mezzo di un tenone nella mortasa dell’altra metà).
In base allo stesso ragionamento, la metà superiore è femmina in senso figurato, benché, da un punto di vista sociologico, sia dedita a un’attività maschile: la pesca.

Ora, secondo la prima sequenza, queste due metà copulano metaforicamente fra loro quando si adattano l’una all’altra; e la metà, diciamo così, maschile per contiguità sociale, nutre la parte femminile del proprio marito (cioè sua madre, che riceve il pesce, come il mito stesso non trascura di spiegare).
Inversamente, nella seconda sequenza, questa seconda metà copula in senso metaforico con l’uomo (avvinghiata a lui, ma sulle sue spalle) mentre si nutre, in senso proprio, del cibo che egli tenta invano di mangiare.
Per conseguenza, mentre nei quattro episodi esogamici, il contrasto principale appare sia fra escrezione e copulazione, sia fra nutrizione e copulazione, nell’episodio endogamico esso si manifesta sotto la duplice forma di una auto-copulazione e di una eso-alimentazione, poi di una eso-copulazione e di una auto-copulazione, ogni volta opposte l’una all’altra.

***

Proviamo a seguire Lévi-Strauss, e vediamo dove ci porta.
Stargli appresso però non è facile: lui corre, noi siamo mosci – lenti di comprendonio, come le proverbiali tartarughe nietzschiane. Quelle di cui si dice: chi va piano, va sano e va lontano. (Sano, in buona salute, perché tutto intero, e non ridotto alla sola metà che si Desmangles-riunificazioneprolunga nella Cultura per acchiappare informazioni e «nutrirsi», ma solo in senso figurato).

Cominciamo dalla fine.
La quinta sposa, la sposa endogamica, fa auto-copulazione ogni volta che ricongiunge le sue due metà «incastrandole» l’una nell’altra, e fa eso-alimentazione, ogni volta che la metà superiore «si stacca», si disgiunge dall’altra, potremmo dire ogni volta che «prende il volo», se il racconto non dicesse che di fatto «s’immerge» nelle acque per procacciare il «cibo» con cui alimentare lo sposo.
Ma questa quinta sposa (dal momento in cui la suocera le ha portato via il «midollo» che fungeva da cerniera tra le due metà), divenuta così impotente a ricongiungersi, a fare auto-copulazione, la si ritrova a fare eso-copulazione, ad appiccicarsi sulle spalle dello sposo, a «campare sulle sue spalle», a girare per il mondo «sulle sue gambe».

Rimane più difficile da comprendere a cosa alluda Lévi-Strauss quando chiude la sequenza con una nuova «auto-copulazione». Trovano, dunque, le due metà un modo, un altro modo, un modo nuovo, di stare assieme?
Per forza.
E quando questo accadrebbe, se non alla fine del racconto quando la donna, «sempre ridotta alla metà superiore», andandosi a posare su un palo della diga, si trasforma – trasmoda, prende il nuovo «modo d’essere» o di stare al mondo – diventando Pappagallo «loquace come se fosse stato ammaestrato»?

E già, c’è stato un «maestro» per lo mezzo, un maestro «oscuro» che l’ha ridotta a sentirsi intera – sana! – facendo di sé un pappagallo. Facendolo per conto suo, invece di campare sempre sulle spalle dell’Altro, e tuttavia facendo solo il pappagallo di ciò che l’Altro «dice».
Non è, come si dice, una bella fine, ma – d’altronde – una «endogamia» non può condurre che a una misera auto-copulazione. Finisce per forza che lo Stesso si rassegni a fare la comparsa sul suo stesso palcoscenico. Amaro epilogo, ma solo per chi non so che cosa s’aspetta o pretenda … dalla sua metà che si prolunga nel Sapere. Per sapere di Se Stesso, finisce per trovarsi trasformato in pappagallo delle parole altrui, ecco tutto!

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Ma per un indio sudamericano (magari immaginario, come me l’immagino io), per la sua filosofia del «senza nulla a pretendere», che non avanza dalla Realtà altro che un po’ di «realtà», è tutt’altro il filo da seguire che non quello così deludente delle nostre aspettative «ermeneutiche».
Da un capo all’altro il filo del racconto … è il Corpo (del Visconte) diviso in due, segato a metà, dimezzato. Il Corpo Separato dai suoi abissi androgini, il Corpo Diviso in organi «escretivi» (in basso) e «nutritivi» (in alto). Il Corpo in cui «coabitano», ciascuno all’altezza del suo rango, il Veggente e il Paralitico, il Gatto e la Volpe, il Primogenito (il bebè in carrozza) e il Secondogenito (il bambino che impara a camminare).

Stiamo giocando a carte scoperte. Lentamente, proviamo dunque a scoprine un’altra. Lentamente. Perché tutt’e due i «compari» giungano all’auto-copulazione finale che ne farà un solo pappagallo, c’è tempo! Perciò, andiamoci piano!
Abbiamo tempo per dare ascolto al maestro oscuro. Se andiamo piano, forse ci sarà più facile scipparlo alla sua «oscurità».
Eppure, già nel quarto episodio (quello che fa da cerniera tra i primi tre e il quinto), il Maestro è là, e il racconto non omette di segnalarlo. Vi ricordate?, Monmaneki e suo cognato sono alla ricerca della Donna-Ara che è fuggita via per andarsi a rifugiare, anonima, in mezzo alla folla.

Il Maestro è là … è la folla, la moltitudine, la confusione.
La prima volta, dice il racconto, che Monmaneki uscì di casa e andò a prender moglie altrove, la prima volta che poté andare a cercarsela con le proprie gambe, dovette fare i donna-pappagalloconti con un nuovo problema. Prima era tutto facile: a Monmaneki scappava la pipì, ed ecco «fecondava» la sua Rana. Gli veniva da cacare, dov’è il problema? ecco a voi in dono il seme che ingraviderà la sua Donna-Verme!

Le cose però si complicano quando la Sposa non è più a portata di mano in una relazione immaginale a tu a tu, ma bisogna andare a «riconoscerla» in mezzo alla folla in cui si è dispersa. Perché di donne al mondo, tanto più se vi sono comprese anche le femmine animali, non ce n’è una sola.
Dacché cammina, Monmaneki deve andare sulle sue gambe a rintracciarla, perché l’ha perduta al tu a tu. Ora le sue due metà «viaggiano» assieme, ma il suo Corpo è diviso dalla Sposa. Adesso la «divisione» non è più in altitudine tra una metà superiore e una inferiore. Adesso si è «spostata» in latitudine tra lui e lei. Adesso, infatti, lei abita nel Paese del Terzo. Adesso che cammina, lui, Monmaneki scopre la Città. E scopre, insieme, la distanza dalla sua Sposa. Tra lui e la sua sposa, se prima c’era solo sua madre, adesso c’è tutta una Tribù.

E la Tribù ha le sue regole, anche di seduzione e a maggior ragione di copulazione «lecita». La Tribù obbedisce a un solo Maestro. È la sua obbedienza «ammaestrata» che ne fa una Tribù.
Il guaio è che Monmaneki non è di questa Tribù, è uno straniero, uno che viene da fuori, da lontano, da chissà quale «altitudine», e ora deve arrangiarsi per tenere appresso al suo desiderio di una sposa. Ora (siamo alla svolta decisiva tra l’esogamia immaginale del Paralitico e l’endogamia linguistica del Veggente) Monmaneki deve «inventarsi» qualcosa per «rapire» la sua donna alla Tribù.

Ed eccolo trasformarsi in uccello «di desiderio». Lui cammina, anzi adesso va perfino in barca, ma in qualche modo si deve elevare, deve in qualche modo riconquistare il rango di cui godeva ai bei tempi delle nozze esogamiche con la tale o talaltra donna-animale.
E qui avviene, per così dire, la cosa più assurda del racconto: di botto, la piroga si alza a perpendicolo (sic!), l’animale a quattro zampe adesso diventa homo erectus – dice Edipo alla Sfinge. A spingerlo in levare adesso che batte i piedi a terra, è il suo anelito a una Oblinski-anelito-sposoSposa. È il desiderio a fare di lui un aspirante uccello, sebbene sia evidente – adesso che cammina – che egli è solo un animale di terra. Solo una macchina celibe.

È l’incontro con la Folla – con tutta la Gente che scopre esserci tra lui e la sua immaginata – a collaudare il desiderio di Monmaneki.
È l’incontro con la Gente a indurre gli innamorati a un linguaggio «gentile». A indurli a dirsi (a pappagallo) «ti amo» … pian piano, lentamente, anche il nostro selvatico Monmaneki ci sta arrivando.
Diamogli tempo. E vedrete: una volta trasformato in uccello, e da uccello addirittura in Signore dei pesci (il che, per un indio, è come dire: l’Arcobaleno e tutti i suoi colori, tutti gli scarti differenziali tra un desiderio e l’altro), una volta lassù dovrà fare i conti con le vertigini, con la molteplicità di lingue di popoli e di donne, con la disseminazione in cielo di così tante stelle tra cui cercare la sua.

Per ora, lentamente, accontentiamoci di quel poco che riusciamo a cogliere tra le righe del racconto.
Abbiamo appreso che l’esogamia immaginale (quella sorta di copulazione con l’Altro che, per un bambino, consiste nel fargli dono del suo piscio e delle sue feci), una volta che le viene a mancare la sua Nutrice, si vede costretta (dal suo desiderio) a inseguire, come Orlando, la sua Angelica nel bosco. A rintracciarla, se possibile, nell’oscurità di una Foresta qual è la Confusione babelica di una Folla, di una Moltitudine di Voci e di Spose, di una Gente e della sua Lingua. E una volta che l’ha trovata, non ha che da «rapirla», come conferma il Poeta:

Amor che al cor gentil ratto s’apprende
(Dante, Inferno, 5: 100)

Il paradosso è proprio questo: che per quanto lentamente ripassiamo la lettura del racconto, il Racconto di colpo «salta». Come la piroga di cui narra, s’impenna. Di botto, si vede costretto a rubare, e in fretta, l’oggetto dei desideri nuziali del suo protagonista.
Lentamente il cor si fa «gentile», apprende a parlare la lingua di una Gente. Ma in questa lingua c’è sempre un vuoto, un passaggio oscuro. Sempre c’è un irriducibile alla «gentilezza» linguistica, e ogni «cor» vi può trovare perfino il suo inferno, quando pensa di eluderlo con un «ratto».
Perché, in fondo, se c’è un «rapito», è solo lui. A rapirlo è stata la Lingua della Gente, a cui crede di aver rapito la sua Sposa.