Kierkegaard e Nietzsche appartengono a una stirpe di pensatori che introducono nella filosofia nuovi mezzi di espressione, e si ama parlare nei loro confronti di superamento della filosofia.
Ora, al centro della loro opera è il problema del movimento, in quanto essi rimproverano a Hegel di fermarsi a un falso movimento, al movimento logico astratto, vale a dire alla «mediazione». Kierkegaard e Nietzsche vogliono mettere la metafisica in movimento, in attività, e vogliono farla passare all’atto, agli atti immediati.
Non basta dunque per essi proporre una nuova rappresentazione del movimento, dacché la rappresentazione è già mediazione. Si tratta invece di produrre nell’opera un movimento capace di smuovere lo spirito facendolo sconfinare al di fuori di ogni rappresentazione, capace di fare dello stesso movimento un’opera che escluda l’interposizione, di sostituire dei segni diretti a rappresentazioni mediate, di inventare vibrazioni, rotazioni, vortici, gravitazioni, danze o salti che tocchino direttamente lo spirito. È questa un’idea di uomo di teatro, un’idea di regista, in anticipo sulla storia.
Sotto questo aspetto si apre con Kierkegaard e con Nietzsche un capitolo del tutto nuovo. Essi non considerano più il teatro alla maniera hegeliana, non fanno più un teatro filosofico, ma inventano, per la filosofia, uno straordinario equivalente di teatro, e in questo modo costituiscono un teatro dell’avvenire e una filosofia nuova, per quanto, almeno dal punto di vista teatrale, non si arrivi a nessuna realizzazione: la Copenaghen del 1840 e la professione di pastore, come Bayreuth e la rottura con Wagner, erano ancora troppo poco.
Ma una cosa è certa: quando Kierkegaard parla del teatro antico e del dramma moderno, la realtà è già mutata, si è usciti dall’ambito della riflessione. Il filosofo ora vive il problema delle maschere, sperimenta il vuoto interiore proprio della maschera, e cerca di colmarlo, di riempirlo, magari con ciò che è «assolutamente differente», in altre parole introducendovi tutta la differenza del finito e dell’infinito, e creando così l’idea di un teatro dell’«humour» e della fede.
Quando Kierkegaard spiega che il cavaliere della fede rassomiglia sorprendentemente a un borghese vestito a festa, questa indicazione filosofica va presa come un’annotazione di regista, che mostra come il cavaliere della fede deve essere rappresentato. E quando egli commenta Giobbe o Abramo, e immagina le varianti della storia di Agnese e del Tritone, la tecnica non inganna, poiché è sempre quella di una partitura teatrale. Persino in Abramo e in Giobbe risuona la musica di Mozart; e si tratta di «saltare» sull’aria di questa musica. «Non bado che ai movimenti», ecco una frase da regista, che pone il più alto problema teatrale, il problema di un movimento destinato a toccare direttamente l’anima, ed essere il moto dell’anima.
Questo vale ancora di più per Nietzsche, poiché La nascita della tragedia non è una meditazione sul teatro antico, ma la fondazione pratica di un teatro dell’avvenire, l’apertura di una via sulla quale Nietzsche pensa ancora di poter condurre Wagner. La rottura con Wagner non nasce dal problema della teoria o della musica, ma investe il ruolo rispettivo del testo, della storia, del rumore, della musica, della luce, del canto, della danza e della scenografia in questo teatro del sogno nietzschiano. Così parlò Zarathustra riprende i due tentativi drammatici di Empedocle. E se Bizet è migliore di Wagner, lo è dal punto di vista teatrale e per le danze di Zarathustra. Ciò che viene rimproverato a Wagner è il rovesciamento, la deformazione del «movimento» con un teatro nautico ove si sguazza e si nuota in luogo di incedere e danzare.
Così parlò Zarathustra appartiene tutto alla filosofia, ma è concepito anche interamente per la scena, come un insieme sonorizzato, visualizzato, posto in movimento, in marcia e in danza. E come leggerlo senza cercare il suono esatto del grido dell’uomo superiore, come leggere il prologo senza mettere in scena il funambolo che apre tutta la storia?
In certi momenti, è un’opera buffa su cose terribili, né è un caso che Nietzsche parli del comico del sovrumano. Torna alla memoria la canzone di Arianna, sulle labbra del vecchio Incantatore: qui si sovrappongono due maschere, quella di una giovane donna, quasi di una Kore, e quella di un vecchio ripugnante. L’attore deve interpretare la parte di un vecchio sul punto di recitare il ruolo della Kore. E anche qui per Nietzsche si tratta di colmare il vuoto interiore della maschera in uno spazio scenico: moltiplicando le maschere sovrapposte, iscrivendo in questa sovrapposizione l’onnipresenza di Dioniso, ponendovi l’infinito del movimento reale come la differenza assoluta nella ripetizione dell’eterno ritorno.
Quando Nietzsche dice che il superuomo rassomiglia a Borgia piuttosto che a Parsifal, e insinua che il superuomo partecipa a un tempo dell’ordine dei Gesuiti e del corpo degli ufficiali prussiani, questo lo si può comprendere soltanto alla lettera come una didascalia di regista sul modo di «interpretare» il superuomo.
Vero movimento, il teatro ricava, da tutte le arti che gli servono, il movimento. Ecco, questo movimento, nella sua essenza, è la ripetizione, non l’opposizione, né tanto meno la mediazione.
Hegel è colui che propone un movimento del concetto astratto, al posto del movimento della Physis e della Psyche, sostituendo il rapporto astratto del particolare con il concetto in generale, al vero rapporto del singolare e dell’universale nell’idea, e arrestandosi così all’elemento riflesso della «rappresentazione», alla mera generalità.
Non si drammatizzano le idee ma si rappresentano dei concetti in un falso teatro, dove sono falsi il dramma e il movimento. Hegel dunque tradisce e snatura l’immediato per fondare la sua dialettica su questa incomprensione, e introdurre la mediazione in un movimento che non è altro che quello del proprio pensiero, e delle generalità di questo pensiero. Le successioni speculative sostituiscono le coesistenze, le opposizioni vengono a ricoprire e a nascondere le ripetizioni.
Quando si dice che il movimento, viceversa, è la ripetizione, e che è qui il nostro vero teatro, non si allude allo sforzo dell’attore che «ripete» perché il testo non gli è ancora noto. Si pensa allo spazio scenico, al vuoto di questo spazio, alla maniera con cui è riempito, determinato per opera di segni e maschere, attraverso i quali l’attore interpreta un ruolo che interpreta altri ruoli, e come, comprendendo in sé le differenze, la ripetizione si svolge da un punto privilegiato a un altro. […]
Il teatro della ripetizione si oppone al teatro della rappresentazione, come il movimento si oppone al concetto e alla rappresentazione che lo relaziona al concetto. Nel teatro della ripetizione, si incontrano delle forze pure, dei vettori nello spazio che agiscono sullo spirito direttamente, e che l’uniscono alla natura e alla storia, un linguaggio che parla prima delle parole, gesti che si elaborano prima dei corpi organizzati, maschere prima dei volti, spettri e fantasmi prima dei personaggi: l’apparato della ripetizione come «potenza terribile».
A questo punto è facile distinguere Kierkegaard da Nietzsche. Ma anche questo problema non va più posto al livello speculativo di una natura ultima del Dio di Abramo o del Dioniso di Così parlò Zarathustra; piuttosto c’è da chiedersi che cosa voglia dire «fare il movimento», o ripetere, ottenere la ripetizione.
Si tratta di saltare, come crede Kierkegaard? Oppure si tratta di danzare, come pensa Nietzsche, a cui non piace la confusione tra il danzare e il saltare (solo la scimmia di Zarathustra, il suo demone, il suo nano, il suo pagliaccio, salta)? «Solo un pagliaccio può pensare: l’uomo può anche essere saltato d’un balzo» (Così parlò Zarathustra, III, §4: Di antiche tavole e nuove).
Kierkegaard ci propone un teatro della fede; e ciò che egli oppone al movimento logico, è il movimento spirituale, il movimento della fede. Perciò può egli invitarci a superare ogni ripetizione estetica, a superare l’ironia e persino l’«humour», pur sapendo dolorosamente di proporci soltanto l’immagine estetica, ironica e umoristica, di tale superamento.
Nietzsche, invece, elabora un teatro dell’incredulità del movimento come Physis, quasi un teatro della crudeltà, il cui «humour» e la cui ironia sono insuperabili, presenti nell’intimo della natura. E cosa sarebbe l’eterno ritorno, se si dimenticasse che è un movimento vertiginoso, capace di selezionare, di espellere come di creare, di distruggere come di produrre, ma non di far ritornare lo Stesso in generale?
La grande idea di Nietzsche è di fondare la ripetizione nell’eterno ritorno sulla morte di Dio e insieme sulla dissoluzione dell’io.
Il teatro della fede aspira invece a un’alleanza ben diversa, che per Kierkegaard è l’accordo vagheggiato tra un Dio e un io ritrovati.
Tutti i tipi di differenza si concatenano: è il movimento nella sfera dello spirito, oppure nelle viscere della terra, che non conosce né Dio né l’io? Ove esso si troverà meglio protetto contro le generalità, contro le mediazioni?
È la ripetizione soprannaturale, nella misura in cui è al di sopra delle leggi della natura? Oppure è la cosa più naturale, volontà della Natura in se stessa e che si vuole essa stessa come Physis, poiché la natura è di per sé superiore ai propri regni e alle proprie leggi?
(Deleuze, Differenza e Ripetizione)