A quale impasse siamo arrivati l’ultima volta?
L’organismo, già concepito da Freud come una macchina, ha tendenza a ritornare al suo stato di equilibrio – è ciò che il principio di piacere formula.
Ora, sulle prime, questa tendenza restitutiva si distingue male, nei testi di Freud, dalla tendenza ripetitiva che egli isola, e che è ciò che introduce di originale.
Ci poniamo dunque la seguente questione – che cosa distingue queste due tendenze?
I mezzi di questo testo [Al di là del principio di piacere] sono molto particolari, perché sono di dialettica circolare. Freud torna perpetuamente su una nozione che sembra sfuggirgli sempre. Essa resiste, ma lui non si ferma, tenta a ogni costo di mantenere l’originalità della tendenza ripetitiva. Indubbiamente gli è mancato qualcosa, nell’ordine delle categorie o delle immagini, per farcela sentire abbastanza.
Dall’inizio alla fine dell’opera di Freud, il principio di piacere si spiega così – di fronte a una stimolazione apportata a questo apparecchio vivente, il sistema nervoso è in qualche modo il delegato essenziale dell’omeostato, del regolatore essenziale grazie al quale l’essere vivente persiste, e al quale corrisponde una tendenza a riportare l’eccitazione al livello più basso.
Cosa vuol dire al livello più basso?
Qui c’è un’ambiguità che costituisce l’imbarazzo degli autori analitici. Leggeteli, li vedrete scivolare sulla china aperta loro dal modo in cui Freud ha dialettizzato la questione. Qui Freud ha offerto loro l’occasione di un malinteso supplementare, e tutti in coro vi ci cascano in preda al panico.
Il livello più basso della tensione può voler dire due cose, e tutti i biologi saranno d’accordo, a seconda che si tratti del livello più basso entro una certa definizione dell’equilibrio del sistema, o del livello più basso puro e semplice, cioè, per ciò che concerne l’essere vivente, la morte.
Si può infatti considerare che la morte, dal punto di vista dell’essere vivente, azzeri tutte le tensioni. Ma possiamo anche prendere in considerazione i processi di decomposizione che seguono la morte. Si arriva allora a definire il fine del principio di piacere con la dissoluzione concreta del cadavere. In questo c’è qualcosa di cui non si può non vedere il carattere abusivo.
Tuttavia, posso citarvi molti autori per i quali riportare la stimolazione al livello più basso non designa nient’altro che la morte dell’essere vivente.
È supporre risolto il problema, è confondere il principio di piacere con ciò che si crede che Freud abbia designato sotto il nome di istinto di morte. Dico ciò che si crede, perché, quando Freud parla di istinto di morte, per fortuna designa qualcosa di meno assurdo, di meno anti-biologico, anti-scientifico.
C’è qualcosa che è distinto dal principio di piacere e che tende a ricondurre tutto l’animato all’inanimato – è così che Freud si esprime.
Che cosa vuol dire con ciò? Che cosa lo forza a pensare ciò? Non certo la morte degli esseri viventi. È il vissuto umano, lo scambio umano, l’intersoggettività. C’è qualcosa, in ciò che egli osserva dell’uomo, che lo costringe a uscire dai limiti della vita.
Senza dubbio c’è un principio che riconduce la libido alla morte, ma non ve la riconduce in un modo qualsiasi. Se ve la riconducesse per le vie più brevi, il problema sarebbe risolto. Ma non ve la riconduce che per le vie della vita, appunto.
Dietro la necessità dell’essere vivente di passare per le vie della vita – e non passare che per di là – si situa, è individuato il principio che lo riconduce alla morte. Non può andare alla morte per una via qualsiasi.
In altri termini, la macchina perdura, disegna una certa curva, una certa persistenza. E per la via stessa di questa sussistenza si manifesta qualcosa d’altro, sostenuto da quell’esistenza che è lì e gli indica il suo passaggio.
Bisogna subito porre un’articolazione essenziale – quando si fa uscire un coniglio da un capello, è perché ce lo si è messo prima.
Questa formulazione ha un nome per i fisici, è il primo principio della termodinamica, quello della conservazione dell’energia – perché ci sia qualcosa alla fine, bisogna che ce ne sia almeno altrettanto all’inizio.
Il secondo principio – cercherò di farvelo capire in modo immaginoso – precisa che nella manifestazione di questa energia ci sono dei modi nobili e altri che non lo sono. In altri termini non si può risalire la corrente. Quando si fa un lavoro, una parte va spesa, in calore per esempio, c’è perdita. Si chiama entropia.
Non c’è mistero nell’entropia, è un simbolo, una cosa che si scrive alla lavagna, e avreste torto a credere che esista. L’entropia è una E maiuscola, assolutamente indispensabile al nostro pensiero. E anche se di questa E maiuscola ve ne infischiate, dato che un tale di nome Julius Robert von Mayer, medico di marina, l’ha fondata, è attualmente il principio di tutto – non si può non tenerne conto quando si organizza uno stabilimento, atomico o no, o un paese.
Von Mayer ha cominciato a pensarci seriamente facendo i salassi ai suoi ammalati – talora le vie del pensiero sono oscure, quelle del Signore insondabili. Colpisce non poco che per aver partorito questa che sicuramente è una delle grandi emergenze del pensiero, ne sia rimasto estremamente sminuito – come se il parto della E maiuscola si fosse iscritto nel sistema nervoso.
Avreste torto a credere che prendo delle posizioni che comunemente si credono anti-organicistiche perché – come diceva un giorno qualcuno cui sono affezionato – il sistema nervoso mi scoccia. Non sono ragioni sentimentali a guidarmi.
Credo che l’organicismo comune sia una stupidità, ma che ce ne sia un altro che non trascura affatto i fenomeni materiali. È ciò che mi fa dire – in buona fede, se non in verità, giacché la verità esigerebbe di ricercarne le tracce nell’esperienza – che io credo che, per un povero individuo, l’esser stato incaricato da non so che, dal santo linguaggio come diceva Valéry, di essere colui che ha fatto vivere l’E maiuscola, non capiti forse senza danni.
Von Mayer ha avuto certamente due parti nella vita, quella prima e quella dopo, in cui non si è prodotto più niente – aveva detto quello che aveva da dire.
Ebbene, questa entropia Freud la incontra, e già alla fine dell’Uomo dei lupi. Capisce che ha un certo rapporto col suo istinto di morte, ma senza trovarsi a suo agio nemmeno qui, e continua per tutto l’articolo la sua ronda infernale, come Diogene che cercava un uomo con la lanterna.
Gli mancava qualcosa. Sarebbe troppo semplice se vi dicessi – e ve lo dirò – che basterebbe aggiungere una F maiuscola o una I maiuscola alla E maiuscola. Ma non è così, perché la cosa non è ancora del tutto chiarita.
Il pensiero moderno sta tentando di arrivarci per vie spesso ambigue, se non confuse, e non potete disconoscere di essere contemporanei a tale parto. Direi di più – dato che siete qui a seguire il mio seminario, state scivolando in questo parto.
Voi entrate in questa dimensione in cui il pensiero tenta di ordinarsi e di trovare il simbolo corretto, la sua F maiuscola che succede alla E maiuscola.
Allo stato attuale delle cose, è la quantità di informazione.
C’è chi non se ne stupisce. Altri rimangono senza fiato.
La grande avventura delle ricerche intorno alla comunicazione è iniziata a una certa distanza, almeno apparente, da ciò che ci interessa. Diciamo piuttosto – giacché come sapere dove comincia? – che ha trovato uno dei suoi momenti significativi a livello degli ingegneri dei telefoni.
Per la Bell Telephone Company si trattava di fare economia, cioè di far passare il maggior numero possibile di comunicazioni attraverso un solo filo. In un paese vasto come gli Stati Uniti, è molto importante economizzare qualche filo, e far passare le stupidaggini che generalmente si veicolano attraverso questa specie di apparecchi di trasmissione col minor numero di fili possibile.
È a partire di qui che si è cominciato a quantificare la comunicazione. Si è dunque partiti, come vedete, da qualcosa che è molto lontano da ciò che qui chiamiamo parola. Non si trattava affatto di sapere se ciò che la gente si racconta avesse un senso. Del resto, l’avete notato per esperienza, quello che si dice al telefono non ne ha mai nessuno. Ma si comunica, si riconosce la modulazione di una voce umana, e si ha così quell’apparenza di comprensione che risulta dal fatto che si riconoscono i termini già conosciuti.
Si tratta di sapere quali sono le condizioni più economiche che permettano di trasmettere termini che la gente riconosca. Del senso, nessuno se ne occupa. Ecco ciò che sottolinea il fatto su cui metto l’accento, e che si dimentica sempre, cioè che il linguaggio, quel linguaggio che è lo strumento della parola, è qualcosa di materiale.
Ci si è dunque accorti che si era ben lungi dall’aver bisogno di tutto ciò che si iscrive sul foglietto di un apparecchio che si è più o meno perfezionato, che nel frattempo è diventato elettronico, ma che è tutto sommato sempre un apparecchio di Mayer, che oscilla e rappresenta la modulazione della voce.
Per ottenere lo stesso risultato è sufficiente prenderne una piccola parte, che riduce di molto l’insieme dell’oscillazione – dell’ordine da 1 a 10. E non solamente si capisce, ma si riconosce la voce del caro beneamato o della cara Tizia, che è dall’altra parte. Il versante cuore, la convinzione che funzioni da individuo a individuo, passa integralmente.
Si è cominciato allora a codificare la quantità di informazione. Questo non significa che capitino cose fondamentali fra gli esseri umani. Si tratta di ciò che corre nel filo, e di ciò che si può misurare.
E così, si comincia a domandarsi se passa o se non passa, in che momento non funziona più bene, in che momento non c’è più comunicazione. È ciò che in psicologia si chiama, con una parola americana, jam.
È la prima volta che compare a titolo di concetto fondamentale la confusione come tale, quella tendenza della comunicazione a cessare di essere comunicazione, cioè a non comunicare proprio più niente. Ecco aggiunto un simbolo nuovo.
Bisogna iniziarvi a questo sistema simbolico, se volete affrontare interi ordini di una realtà che ci tocca da vicino. Se non si ha idea del corretto maneggiamento di queste E e F maiuscole, si può non essere qualificati a parlare di relazioni interumane.
È un’obiezione che avremmo potuto fare ieri sera a Merleau-Ponty.
A un certo punto dello sviluppo del sistema simbolico, non è più possibile che tutti parlino con tutti.
Quando gli si è parlato di soggettività chiusa, ha detto – Se non si può parlare con i comunisti, il fondo del linguaggio svanisce, perché il fondo del linguaggio è di essere universale.
Certo. Ma bisogna essere introdotti in questo circuito del linguaggio, e sapere di che si parla quando si parla della comunicazione. E vedrete che ciò è essenziale a proposito dell’istinto di morte, che sembra all’opposto.
I matematici qualificati a maneggiare questi simboli pongono l’informazione come ciò che va nella direzione opposta all’entropia.
Quando la gente ha affrontato la termodinamica e si è chiesta come sarebbe stata pagata la macchina, ha omesso se stessa. Prendeva la macchina come il padrone prende il servo – la macchina sta là, a distanza, e lavora. Dimenticavano solo una cosa, che erano loro che avevano firmato l’ordinazione.
Ora, questo fatto risulta avere un’importanza considerevole nel campo dell’energia. Perché l’informazione, se si introduce nel circuito della degradazione dell’energia, può fare miracoli.
Se il demone di Maxwell può bloccare gli atomi che si muovono troppo lentamente, e tenere solo quelli che hanno una tendenza anche solo un po’ frenetica, farà risalire la china generale dell’energia, e rifarà con ciò che è degradato in calore un lavoro equivalente a quello che si era perso.
Sembra a mille miglia dal nostro soggetto. Ma vedrete come lo ritroveremo.
(Lacan, Il Seminario: 2)
***
… per le vie della vita, sennò per dove? è per forza su una di queste vie che la «macchina» (le cavalle che tirano il carro col bebè a bordo) incontra qualcosa d’altro – incontra l’Altro che le dice per dove deve passare, per dove le conviene inoltrarsi.
L’Altro glielo dice – è questo il punto! – in un «vociare» popolare, di piazza, o di mass-media come usa dire oggi.
L’Altro passa alla «macchina» una «quantità di informazioni», e la macchina (ogni macchina è in piccolo una Compagnia Telefonica!) dal canto suo è chiamata a «far passare il maggior numero possibile di comunicazioni attraverso un solo filo». Il suo «corpo».
La macchina è giunta … nd’u chiazzulle! E deve far passare, le conviene convenire col maggior numero di «voci» raccolte in piazza, inoltrandole attraverso il suo solo «ingranaggio» ermeneutico. O viceversa: è chiamata a far passare il suo solo filo per il labirinto delle (mille e mille e ancora mille) «voci».
Ti dice niente Arianna?
Arianna è la Sintesi di chissà quanti frammenti immaginali la macchina ha dovuto macchinare (frantumare, pestare, saggiare con la propria bocca, e vomitare a vita nuova) prima che il doctor Marianus accogliesse nel coro dei Beati Infanti il suo novello Interprete. L’ultimo arrivato: un Teseo qualunque.
Arianna giunge alla fine di un «vociare», viene a fare economia del Passato, a dargli un Futuro, a questo Passato. Arianna sarà la Sintesi di quei frantumi immaginali che, d’ora in poi, si porterà appresso per sottintesi.
È a partire di qui, dice Lacan, che «si è cominciato a quantificare la comunicazione».
Cerca di afferrare l’allusione: è partire dal momento in cui il bebè in carrozza sbarca in una Piazza, in una Babele qualsiasi, che ha cominciato, posso dirlo?, a «ordinare», a riassumere, a codificare, a economizzare, ma sì: a misurare, a dare una metrica, a musicare «le migliaia di voci e informazioni».
Ha ragione Lacan: per le doglie del parto di un nuovo pensiero, occorre a questo punto della «gravidanza intellettuale» portare in primo piano un (nuovo?) concetto fondamentale: la Confusione – la Chiacchiera, la Babele Volgare – la Persona Impersonale, l’Uomo-Macchina, che «comunica» al di là della stessa comunicazione, e che continua a modo suo a comunicarsi col suo dio e col suo immancabile addio, senza curarsi se la cosa abbia o meno un senso.
La confusione costringe la Macchina (linguistica) a simboleggiare, a procedere cioè in economia, a risparmiare energia, a mettersi al livello più basso di consumo. La confusione costringe la Macchina all’«egoismo».
Può essere che Narciso quando si specchia, non sia che una macchina già confusa, e poi tale da cadere nella trappola della sua stessa immagine.
Può essere che quell’immagine (la sua Arianna, o forse la sua donchisciottesca cocciuta Dulcinea) non sia altro che il frutto terminale di lunghe e penose doglie patite nel folto del bosco, allorché raccolse, come dice il Poeta, «gli inviti di mille labbra».
Da quella confusione (marcata, per così dire, dalla ridondanza di Eco) che gli è entrata nell’orecchio, la Macchina «interpreta» una Forma sintetica immaginale, forse la prima: si guarda allo specchio, e dice: questa sono io!
Io sono questa Donna … androgina!
Che confusione!