Kerényi – L’humus dell’Uomo

Kainaro-sfinge

Né i Greci né i Latini ci hanno lasciato un testo mitologico che trattasse, come per esempio il principio della Bibbia, dell’origine dell’uomo. Ma i nomi dell’«uomo» – in greco ἄνθρωπος, in latino homo – ci permettono di concludere con sufficiente sicurezza che una volta erano esistiti racconti che giustificavano simili denominazioni.

La parola ἄνθρωπος è una parola composta da ἄνθρ- e da –ωπος. La seconda parte (che proviene da ὤψ, «viso, volto») è segno di una circonlocuzione in luogo di un semplice e diretto appellativo: «colui che ha il volto di …». La spiegazione con ἀνδρ- (ἀνήρ, ἀνδρός) «colui che ha il volto di uomo (maschio)» non è soltanto linguisticamente inverosimile, ma assurda anche per altri ragioni.
La forma d’espressione circonlocutoria non sarebbe stata adottata, se non si fosse trattato di far indovinare, di dare un indovinello, alludendo con esso a qualche aspetto dell’uomo che non fosse senz’altro evidente, come sarebbe stato invece il «volto dell’uomo» dell’uomo.

La soluzione dell’indovinello – una specie di kenning, come lo si chiamava nell’antica poesia mitologica nordica – era certamente una storia relativa all’essenza dell’uomo, un Kamel-terra-madreracconto delle sue origini: perché la mitologia esprime l’essenza nelle storie delle origini.
Noi non conosciamo quel mitologema; potremmo tutt’al più cercare di indovinarlo, cosa che in questo momento sarebbe ancora prematura.

La parola homo si connette con humus, «terra», gr. χθών. Il mitologema cui questa parola allude, quasi riassumendolo, deve essere stata una storia delle origini in cui la Terra aveva la parte della Madre Primordiale.
Il nome latino dell’uomo ci dice dunque più di quello greco. Ma la tradizione di quella storia di discendenza è greca e figura nella sua forma greca anche nella letteratura romana. È greca soprattutto l’etimologia popolare che faceva derivare la parola «popolo» (λαός) da pietra (λᾶας): etimologia cui allude già l’Iliade (24: 611).

Essa giustifica il racconto secondo cui l’umanità attuale si sarebbe formata in questo modo: la coppia umana sopravvissuta al diluvio, Deucalione e Pirra, si sarebbero lanciate pietre dietro le spalle – le ossa cioè della «grande Madre», come Ovidio spiega in linguaggio oracolare la metamorfosi, sostituendo a terra l’espressione magna parens («grande madre»).
L’analoga storia della genesi dei Dattili Idei, questi esseri primordiali nani, dimostra che quel lanciare poteva essere una variazione del plasmare di terra, mentre quest’ultimo, a sua volta, equivaleva a un far crescere dalla terra: infatti, in questa storia tutt’e tre le azioni compaiono, sostituendosi a vicenda, con lo stesso valore. In questo caso il materiale veramente non è la «pietra», bensì la «terra» o la «polvere». Ma siccome è anche «fango» (πήλος) e il fatto che viene plasmato da un artista è particolarmente rilevato, l’elemento essenziale dell’immagine mitologica rimane sempre la discendenza dalla terra.

L’esser formati di terra non era, per i Greci, che una forma della discendenza dalla dea della Terra, ed è questo fatto che spiega perché la parte di Prometeo, plasmatore di mother-goddessuomini, è rimasta in Grecia tanto e per tanto tempo in secondo piano.
Il passo più antico in cui l’umanità sia definita come «formazioni di fango», si trova nella parodia di una predica misterica sulle condizioni dell’uomo primitivo: un esempio che illustra quanto poco importasse la collaborazione di Prometeo alla genesi dell’uomo dalla terra.

Nel racconto del sofista Protagora, nell’omonimo dialogo di Platone, il luogo di scena di quella collaborazione – lavoro collettivo degli dèi per la formazione degli esseri vivi – è posto nell’interno della terra. Tanta era l’importanza che nella tradizionale immagine mitologica aveva il momento del «venir su» degli esseri vivi dalla terra, il loro spuntare dalla terra.
Anche i custodi della repubblica ideale dovevano credere che essi, formati ed armati sotto terra, fossero stati mandati su da lei, la vera madre, come gli Spartoi tebani, rampolli sorti dalla semina dei denti del drago, o Pelasgo, l’uomo primordiale degli Arcadi.

Di quest’ultimo il poeta epico Asios ci racconta che la nera Terra «lo porse su» nei monti boscosi dell’Arcadia, affinché nascesse il genere umano. Pelasgo, questo primo «venuto su», rappresenta i Pelasgi, leggendari primi abitanti della Grecia in generale; e benché il suo nome ricorra in ben 17 altre genealogie, questa forma della sua nascita è tramandata nella sola Arcadia, evidentemente perché originariamente essa non riguardava il singolo uomo, bensì gli Arcadi, quale popolo primordiale.

Un’autoctonia in questo senso – cioè che si tratta di gente nata dalla terra stessa – viene attribuita, oltre che agli Arcadi e ai Tebani, discendenti degli Spartoi, anche agli Ateniesi e agli Egineti.
Degli Ateniesi viene detto esplicitamente che non solo qualche loro antenato, come per es. Erittonio, sia stato «dato su» dalla Terra, ma che in generale i «primi uomini» siano cresciuti dal suolo attico.
La genesi degli abitanti di Egina è svolta nella forma di una metamorfosi: Zeus – si raccontava – avrebbe trasformato formiche in uomini, per dare un nuovo popolo a suo figlio Aiakos. In questo caso l’assonanza tra il nome del popolo «Mirmidoni» e μύρμηξ («formica») ha facilitato la formazione dell’immagine mitologica del popolo primordiale che striscia fuori dalla Terra.

popolo-formiche

In altri luoghi il nome di un progenitore «Myrmex» documenta l’esistenza della stessa antropogonia; così nell’Attica stessa, dove le frotte di formiche dei primordi figuravano in commedie intitolate «Myrmekes» o «Myrmekanthropoi» o simili.
Questo ci riporta a Deucalione e Pirra, dato che gli «uomini-formiche» del commediografo Ferecrate sono il loro popolo, indifferentemente se siano nati dal lancio di pietre o senza di questo, ma in ogni modo dalla Terra.

Nel periodo classico di Atene spesso si rievoca il mitologema dell’autoctonia, e questa rievocazione ha un senso patriottico-religioso quando il parallelismo tra donna e Terra viene svolto così dettagliatamente, come in quell’encomio di Atene che nel Menesseno di Platone Socrate espone, attribuendone le parole ad Aspasia, amica di Pericle.
Si legga la scrupolosa motivazione dell’encomio:

In quel tempo in cui tutta la terra mandava su e faceva nascere ogni sorta di esseri viventi, animali e piante, in quel tempo la nostra terra si dimostrava sterile e pura nei riguardi degli animali selvaggi, ma sceglieva tra tutti gli esseri e partoriva l’uomo che per ragione supera ogni altro essere ed è l’unico a venerare la giustizia e gli dèi.
Vi è una grande prova della dottrina secondo cui era questa terra a partorire i progenitori di tutti noi. Infatti, tutto ciò che partorisce, ha anche l’alimento necessario per il suo nato, di modo che si può riconoscere se una donna ha veramente partorito, oppure no, soltanto pretende di averlo fatto, in quanto che in questo caso essa non ha la sorgente dell’alimento per il nato.
Così anche la nostra terra e madre offre sufficiente prova di aver partorito gli uomini: essa sola, già in quel tempo, e per prima produceva alimento umano, il frutto del frumento e dell’orzo, di cui il genere umano si nutre nel modo più bello e più buono, dimostrando così di aver veramente partorito quest’essere.
E più che per le donne conviene riconoscere simili prove per la terra: perché non è la terra a imitare la donna nel fecondarsi e partorire, bensì la donna imita la terra.
(Platone, Menesseno, 237d)

(Kerényi, Miti e misteri)

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Non lasciamoci sfuggire questo dettaglio: il Mito non racconta mai le origini dell’umanità – ma, al più, l’origine della presente umanità che, dal volto, dalle sembianze, dall’aspetto Imbrauser-uomo-futuro… ricorda, ha l’aria d’essere, assomiglia o si spaccia per quell’uomo che è tutto da vedere se veramente in essa è ancora e in che modo presente, o se di lui la presente umanità non sia solo una tardiva simulazione, solo un’approssimativa rappresentazione – forse, ogni giorno, sempre meno convincente, sempre meno suggestiva.

Sappiamo, a occhio e croce, come pensa di venir fuori dalla finzione Mastro Socrate. Lui pensa che, una volta definita l’essenza dell’uomo, una volta fissati i criteri di giudizio, ovvero i «segni» di riconoscimento dell’«uomo vero», la maschera attuale del suo volto non dovrebbe più ingannarci.
Eppure, la parola ἄνθρωπος parla chiaro: è il volto, la maschera, l’apparenza che «fa» l’Uomo. Dice che l’Uomo esiste in Superficie – in quel mondo e a quella latitudine a cui «è venuto su» dalla Terra, via dal Grembo della Matrice di vita e di linguaggio. Dice che solo grazie al nome che porta e alla maschera che indossa, l’Anonimo, il Nudo – e cioè un individuo biologico ridotto ai suoi soli attributi naturali – diventa «uno di noi», diventa l’uomo presente, l’ultimo arrivato che viene a «vestirsi» alla nostra maniera.

Con tutto ciò, con tutto il platonismo che è «spuntato» da Socrate, che cos’è l’uomo? rimane l’indovinello che è sempre stato.
Argomento della domanda della Sfinge: qual è quell’animale che …?
Argomento del Mito: che ne è della pietra irriducibile ai nomi e alle maschere, che noi continuiamo – a nostra propria insaputa – a mascherare e a nominare Uomo?

Noi sappiamo raccontarci solo questo: che un bel giorno un colpo di vento alzò la gonna alla Terra e l’unico maschietto che c’era allora in giro per il mondo, il Sole, diede un’occhiata al «formicaio» scoperto, e l’ingravidò di un suo raggio di luce feconda. Ed ecco, passò del tempo, e poi la Terra cominciò a partorire pietre e popoli (in greco antico era la stessa parola).
Ogni ἄνθρωπος è insieme Pietra e Popolo – questo dice il Racconto da un capo all’altro del mondo, dai Pellerossa a Platone, passando per una di quelle vie traverse, per una di maschera-voltoquelle scorciatoie che solo un «incestuoso» solutore d’indovinelli, qual è Edipo, non a caso figlio del «petroso» Laio, può, e non impunemente, bazzicare.

Ciascuno di noi, forse, è pietra e popolo, midollo osseo geneticamente muto custode dell’«eredità» materna e, allo stesso tempo, pelle volto maschera con cui «pubblicarsi», esibirsi, avere una parte, nel Teatro Popolare.
Per essere uno di noi, per essere presente all’attuale umanità, l’ἄνθρωπος non ha da fare altro che dare «visibilità» linguistica, dare forma e aspetto alla Pietra che, irriducibile qual è ad ogni «padronanza», ancora ci «accomuna» in una Gente, in un Popolo – la Pietra del focolare, la Pietra che, prima della scoperta delle tecniche di accensione del fuoco (Prometeo, perciò, viene dopo), era la sola a provvedere alla cottura del cibo. Solo il Sole, a quei tempi, la riscaldava. E così a lei, alla Pietra, al Popolo, affidava la memoria che l’Uomo, in principio, è figlio di un raggio di sole che ha fecondato la terra, perché la terra ci nutrisse, ma non solo di cibo nudo e crudo, senza nessuna paternità solare, ma di cibo cotto, di cibo culturale, di cibo che rassicurasse il Sole: lo vedi? nonostante tutto, siamo ancora memori d’essere stati figli tuoi.

Perché il messaggio arrivi lassù, fino al Sole, bisogna che sia gridato in coro da tutto il Popolo – o che perlomeno esso sia enunciato in una lingua volgare. In ogni caso, la condizione è che il grido sia infuocato dell’ardore della Pietra: che esso sia sostenuto dalla lingua di un Popolo, dalla «volgare eloquenza» di un Popolo che sia ancora accomunato nella custodia dell’antico indovinello: qual è quell’animale che, per sentirsi figlio del Sole – e non già della sola Terra – si maschera da uomo?