ίπποι τάι με φερούσι οσόν τ’επι θύμος ικάνοι
πέμπον επέι μ’ες οδόν βησάν πολυφήμον αγούσαι
δάιμονος ή κατα πάντ’αστή φερέιδοτα φώτα
… a zonzo}
le cavalle mi portavano
fin dove l’ardire avessi avuto di viaggiare
fin quando viaggiando le cavalle non mi portarono …
… se gli domandi: ma dov’è che le «cavalle» ti portarono? dov’è che ti «tradussero», mio vecchio Poeta? – ες οδόν πολύφημον δαίμονος/ es odòn polýphemon dáimonos / ti risponde il Poeta: se vuoi tradurmi, dice, non hai che da lasciarti tu pure tradurre là dove «quella volta là» andarono le cavalle.
In quanto a me, dice, mi portarono …
… su una via / es odòn/ di mille confuse voci lastricata / polýphemon/
la via {che il fuoco a ciascuno illumina} di un demone / dáimonos /
e che di paese in paese mena [letteralmente: per tutte le «città» o «fortezze»]
chi quelle voci alla luce dei suoi occhi
se le traduce …
Il qui presente «traduttore», quando queste parole del Poeta se le «traduce» alla luce dei suoi occhi, si rivede anche lui gettato su una «via» (odós) di cui non vede l’inizio. E si rivede anche lui «iniziato» a quei segni tracce numeri e parole che fanno e mettono per iscritto la Storia dell’Uomo, ma anche quella di dio. Segni, tracce, numeri e parole – sono i nostri Simboli che fanno e disfanno la Tela di Penelope.
E noi, poveri Proci, siamo qui a pretendere la mano della Tessitrice! Noi, poveri guardiani di porci siamo.
***
M’immagino un convegno pitagorico. Un’adunanza di vecchi maestri e di neofiti più o meno promettenti. Me li immagino seduti intorno al fuoco, chi pensieroso e triste, chi invece allegro e sorridente. E tu? – si domandano l’un l’altro – tu, da dove vieni? E quale che sia il conto che ciascuno di sé racconta, questa sola domanda li accomuna. Li accomuna lo spazio che la domanda apre alla curiosità di ciascun «convenuto». Tu da dove vieni a stare con noi? E ciascuno all’altro cos’altro ha da rispondere, se non un vago cenno all’indeterminatezza del «posto» da cui proviene?
Ecco dove noi pitagorici «abitiamo»: questa è la nostra casa, questa è tutta la nostra tenda – disse il vecchio che presiedeva all’adunanza. – Noi pitagorici abitiamo lo spazio aperto dalla traccia di una domanda. Dice la domanda: per quale «via» sei stato tu qui tradotto fino a prendere la parola in questa nostra adunanza?
Ci sono venuto. Ci venni – dice il Poeta – tirato dalle cavalle … fu la Natura stessa a spingermi ad avventurarmi fin nelle parole.
Tutto sta nel «ci» a cui dice d’essere venuto, ossia all’adunanza, allo «stare assieme» di una «pluralità», che assieme fa «un» mondo: il mondo della Chiacchiera – non il mondo del «sapere» come immagina Hegel, ma il mondo del «sapere» e del «non-sapere» che giocano tra loro al tiro alla fune, ciascuno a difendere gelosamente il suo tesoro. Il mondo del «saper parlare» (perfino) la lingua degli uccelli, il mondo di Wene-boozhoo, ma insieme anche il muto linguaggio di un mondo pietrificato nella cocciuta ignoranza del suo fratello gemello.
Il Poeta dice d’esserci venuto da chissà dove, e d’essersi d’un tratto sorpreso a «viaggiare» e, viaggiando, a «essere portato dalle cavalle» es odòn polúphemon dáimonos /ες οδόν πολύφημον δαίμονος/ su una «via» (odós) di cui questi soli due indizi egli dice d’aver trovato nella tradizione e nella lingua propria dell’«adunanza»: la via, dice, è polýphemos (πολύφημος) – ed è dáimonos (δαίμονος).
[… e tu, che vedi?
vedo] cavalle che mi portano
[vedo sedie che cavalco nella terra dei moicani
vedo «prima» una terra, un mondo, un popolo
il nostro «popolo» vedo, e solo «dopo» comincio
su e giù ad agitarmi, avanti e indietro – a destra e a manca perché c’è una terra che manca
alla mia nostalgia di quando ero Veggente:
perciò prendo una sedia ma non per sedermi
un Ronzinante qualsiasi prendo
per attraversare il mondo e tornare al Paese delle Piume
a cui da sempre, come tutti gli uccelli, appartengo]
***
In quanto a polýphemos (πολύφημος: da πολύ + φήμη), il dizionario recita: «rumoroso, clamoroso, dalle molte voci, loquace». Così per es. è detta in Odissea, 2: 150 l’agorà dei nobili di Itaca. Ma ci domandiamo: l’agorà non è già da sé il «luogo in cui si parla»? che piazza è se non lascia parlare le tante «voci» che vi convengono? che bisogno c’è di definirla polýphemos?
Forse Omero intende dire che quelle «voci» non sono solo «molte», ma sono anche e soprattutto tra loro contrastanti, stridenti, dissonanti: sono voci dissidenti, in cui non si viene mai a capo di niente – sono le voci di un vociare confuso (tanto più all’orecchio dell’«ultimo arrivato»), voci che sconfinano in quel «rumore» da cui la parola tenta (e con che fatica!) di affrancarsi.
Ma qui è il punto: la φήμη non è la parola, non è il logos: la φήμη è la pura e semplice «emissione di voce», quale per es. è già il vagito – ma il bambino che vagisce non per questo è già un uomo. Non è ancora, secondo la definizione classica, uno zoón échon lógon /ζωόν έχον λόγον/: ha quanto serve per diventarlo (la voce), ma non ha ancora il requisito necessario (il logos) per essere un uomo. La parola del logos umano è dalla φήμη che viene, è per la φήμη che «passa», ma ne deve fare di strada prima di giungere a «dicere» qualcosa di «umano». Prima di calarsi in una parte del Teatro Umano, lunga è la trafila che attende il burattino di legno …
Un cortile in cui i bambini strillano: ecco un esempio di agorà polýphemos, di adunanza chiassosa: di adunanza «non aperta né chiusa da Temi», come direbbe lo stesso Omero: cfr. Odissea, 2: 68-69. Là dove si tiene un convegno di «voci» fuori dalla giurisdizione di Temi, là dove non si «verbalizza» nel nome di Temi, c’è solo confusione, contrasto, contraddizione. Perciò non fa meraviglia che nell’agorà polýphemos dei nobili di Itaca, a prendere la parola contro Telemaco sia Antinoo, ovvero uno che, come apertamente denuncia il suo nome, è buono solo a «pensare contro», buono a mettersi di traverso sulla φήμη del suo interlocutore: insomma, quello che noi chiamiamo uno spirito di contraddizione.
In poche parole, là dove c’è lui – c’è un’agorà polýphemos: non più un luogo di incontro, ma di scontro, degli opposti, e le «molte voci» che l’affollano non seguono una traccia posta da Temi (la traccia di un tema), ma molte tracce sovrapposte: non c’è un filo del discorso, ma molti fili insieme intrecciati.
Così parlò Telemaco, e due aquile Zeus vasta voce
gli mandò a volo dall’alto, dalla cima del monte:
quelle sempre volarono, coi soffi del vento,
una vicina all’altra, con le ali distese:
ma quando arrivarono sull’assemblea molte voci,
qui roteando sbatterono fitte le ali, e sulle teste
di tutti calarono: avevano sguardo di morte.
Poi, lacerandosi a furia d’artigli il collo e le gote,
sparirono a destra, volarono sulla città, sulle case.
Stupirono degli uccelli a vederli con gli occhi,
e presentirono in cuore quel che doveva succedere.
(Omero, Odissea, 2: 146-156)
Quando le due aquile, inviate da Zeus, calarono in picchiata sull’adunanza, sbattendo le ali e lacerandosi a vicenda con gli artigli, i presenti – dice Omero – «videro uno spettacolo di morte» (óssonto ólethron: ώσσοντο όλεθρον): videro quel che si vede ogni volta che l’agorà, l’adunanza di piazza, in quanto polýphemos, si disperde nella confusione, e risulta impotente a produrre uno «spettacolo di vita», un «teatro» (θέατρον).
Una tragedia più tragica di qualunque sua rappresentazione teatrale. La tragedia per cui non ci sono più parole. La Babele, insomma – che non riesce più a «elevarsi» di un centimetro al di sopra di se stessa. Quella che grida e non si ascolta. Quella che «gioisce» ad annientarsi nella furia assassina del Tempo. La Babele incapace di lasciare traccia di quel che dice. Quella devota a disfare i fili dell’Altro. Quella che trova in Antinoo – nella contraddizione – tutta la forza del proprio «spirito».
Come l’agorà omerica, l’odós, la via di Parmenide, è polýphemos. Altro che famosa, celebre, o addirittura sacra. È una via «chiacchierata», questo sì – ma non nel senso di «oggetto», bensì di «soggetto» della Chiacchiera.
Se cerchi di comprendere cosa intenda Freud quando dice che l’Inconscio, l’Es, «parla», eccoti servita una «topologia della mente» altrettanto enigmatica quanto la sua, una vecchia «topologia» pitagorica.
La via, forse a questo punto si può cominciare a dire almeno questo: se non mena a un «teatro», se non sfocia in un «vedere», in un «immaginare», è in un ólethron (nella pura consumazione terminale di uno «spettacolo di morte») che sbocca: è a una «morte» che conduce. Mortifica la parola rendendola, nella confusione delle lingue, impotente a produrre «teatro», e tanto più a prendere atto della sua propria origine «visionaria».
L’agorà polýphemos, in quanto luogo di «voci», e non di «parole», non può dirsi ancora «spazio umano». Nell’agorà i «non ancora uomini» si cimentano nell’ardua prova di diventarlo. Per diventarlo devono «tradurre» quelle «voci» a «parole». Devono condurle /trans/ al di là della babele. Devono lasciare che si aprano alla «giurisdizione di Temi», che siano catturate nella traccia del «suo» tema, che si appendano – come burattini – al filo del «suo» discorso. Il che, ovviamente, richiede che non siano lasciate andare al loro appagamento naturale – richiede che le «voci» siano «lavorate» col sudore della fronte, articolate tra la lingua e il palato, tra la gola e i denti.
Le voci, i gridi animali, il linguaggio naturale – per essere umanizzato, dev’essere «consumato per produrre» altro – qualcos’altro che sta /trans/ oltre le voci stesse – in quel «nuovo spazio» che è il primo spazio umano, il recinto della «giurisdizione di Temi», il che per un greco antico vale all’incirca come dire: lo spazio esistenziale dell’Esserci – del «ci» in cui l’essere «spontaneo», il «naturale» scorrere e passare delle voci, viene a «localizzarsi», a fissarsi, a prendere dimora, a raccogliersi in una Chiacchiera. Pro e contro. Telemaco e Antinoo.
Tutto può essere, e invece nessuno può esserci da solo. Nessuno, perché prima di avere un nome ogni cucciolo è Nessuno, ha bisogno di un «rispetto a cui» orientare il suo «ci», per poter accedere allo «spazio del logos umano». È forse solo un caso che Odisseo dica a Polifemo di chiamarsi Nessuno? O piuttosto converrebbe pensare che, finché è prigioniero nella grotta di Polifemo – finché strilla nell’agorà polýphemos, o finché viaggia su una via di babele, il bambino è ancora un «nessun uomo»?
Ancora un uccello, ancora – per un anno o giù di lì – è un «figlio del Sole» che non scarica mai a terra il suo ardore visionario.
Il primo «atterraggio», la prima «attrazione di gravità», è nella Caverna di Polifemo che Nessuno la sperimenta, e che brutto spavento! che razza di sorpresa è mai questa!
Platone conferma: è risaputo, pur di fare un dispetto alle ingenuità poetiche di Omero, Platone lo allestisce ex novo il (Mito del) Teatro d’Ombre da cui ha inizio il cammino alla volta della «luce» (di co-scienza).
E dunque è nel Chiasso di via Polifemo, è là che la «biga alata» dell’anima del guagliuncielle «discende». Uscendo dalla Caverna, facendosi strada nelle voci della Pubblica Via, adesso tocca al «gemello umano» di Nessuno proseguire il viaggio. A piedi, stavolta!
Una volta «nominati», gli uccelli non volano più. E gli immortali «muoiono».