Prima che ci fosse l’uomo, sulla terra non c’erano che due donne, una vecchia e sua figlia. La vecchia non aveva bisogno di maschi per concepire. La stessa Terra, Ahki, a quei tempi era simile a una femmina: non la Terra com’è ora, perché gli alberi e molti animali a quei tempi ancora non esistevano.
Ebbene, un giorno la figlia andò col suo cesto a raccogliere bacche. Ne aveva già raccolte abbastanza e stava ritornando a casa, quando un improvviso colpo di vento le sollevò il vestito di pelle di daino, mettendo a nudo il suo corpo.
Geesis, il sole, brillò per un attimo su di lei e un raggio della sua luce ne penetrò il corpo. La giovane donna, però, non s’accorse di nulla. Sentì solo il colpo di vento, e non s’accorse d’essere stata visitata.
Passò del tempo. La giovane disse alla vecchia: «Non so che cosa c’è che non va in me, ma qualcosa c’è».
Passò altro tempo. Il grembo della donna s’ingrossò, e lei disse: «Qualcosa si sta muovendo dentro di me. Che cosa può essere?».
«Quando andasti a raccogliere bacche – le domandò la vecchia – incontrasti qualcuno?».
«Non incontrai nessuno. La sola cosa che mi capitò fu una grossa raffica di vento che mi alzò il vestito di pelle di daino. Il sole stava brillando».
«Penso che tu stia per fare un figlio – le disse la vecchia. – Geesis, il sole, è l’unico che può averlo fatto: così tu sarai la madre d’un figlio del sole».
La giovane diede alla luce non uno, ma due bimbi, entrambi manito, esseri sovrannaturali. Essi furono i primi maschi umani sulla terra, figli di Geesis, figli del sole.
La giovane madre fece una culla di assi e vi depose i due gemelli, appendendoli o portandoli sul dorso, ma mai lasciando che i due bimbi toccassero il suolo.
Perché faceva così? fu la Vecchia a dirle di farlo?
Nessuno lo sa.
Sappiamo solo che, se avesse appoggiato le assi della culla sul terreno, i bimbi avrebbero camminato eretti sin dal momento della nascita, come i piccoli dei cervi. Ma poiché la madre non permise loro di toccare il suolo per alcuni mesi, oggi ai bimbi degli esseri umani occorre un anno o giù di lì per imparare a camminare.
Tutta colpa di quella giovane donna.
Uno dei gemelli era Ragazzo Pietra, un sasso.
Egli disse: «Mettetemi nel fuoco e scaldatemi fino a che non sarò diventato incandescente».
Esse lo fecero, ed egli disse: «Ora versate dell’acqua fredda su di me».
Esse fecero anche questo. E quello fu il primo bagno di vapore.
L’altro bimbo, chiamato Wene-boozhoo, assomigliava a tutti i ragazzi. Divenne potente e sapeva fare ogni cosa; parlava perfino agli animali e diede loro i nomi.
***
Siamo a una bella «altitudine» del Racconto, non c’è che dire: il Racconto ci chiede di calarci in un mondo non ancora sessualmente differenziato – non ci sono maschi in giro, alberi e animali ancora non hanno fatto la loro apparizione – il Racconto vuole riportarci dunque alla vertiginosa altezza del problema delle origini della presente umanità fatta di maschi e di femmine, e perciò ci chiede – come al solito – di pensare queste «origini» sessuate come la «fine» di un’altra umanità. Di un’umanità che si riproduceva senza sesso … finché Apollo non divise l’Androgino, dice Platone (tanto per non fare la fesseria di credere che i Pellerossa fossero genti fuori dal mondo delle nostre «filosofie»).
In mancanza di «maschi», umani e perfino animali, va da sé che la parte del Seduttore, in questi tempi remotissimi, la può «fare» solo il Sole. In un mondo in cui tutto è Femmina, al Sole basta, come s’è visto, la complicità del Vento, e la visione, pardon: la seduzione, è bell’e fatta! Perché la seduzione del Sole è tutta luce e seme e voglia di vivere per l’immaginazione. Il Sole non ha bisogno di tante parole, non deve fare la corte a una «femmina». Al Sole basta guardarla, e se per caso soffia il Vento che alza le gonne, quello sguardo ha la potenza di «penetrare» nel midollo stesso della sedotta.
Per sedurla, il Sole non dice una sola parola, e non la tocca. L’ama d’amore visionario, di quell’amore visionario, a cui a sua volta la Mamma – la Matrice Immaginale – educa i «figli del Sole».
I «figli del Sole», l’amore non lo vivono, ma lo vedono.
Non lo «vivono», ma lo «vedono» dacché Colei che li mette al mondo non vuole che essi subito «tocchino terra». Non li lascia camminare nell’amore che dopo averlo «sorvolato» per un anno o giù di lì. Non li lascia venire in fretta e furia giù dall’alta montagna, dal Paese delle Piume, dalle altezze iperboree del Racconto.
Se comprendi l’allusione, vuol dire che hai compreso pure che quello di Lacan è, dopo tutto, un nobile, ma forse disperato, sforzo archeologico. Un tentativo di andare a riconquistare le posizioni narrative e la sapienza del Racconto d’una volta.
Il Racconto dei Pellerossa sapeva già quello che i «seminaristi» di Lacan faticano a comprendere: che la differenza tra i nostri cuccioli e quelli dei cervi, è che i nostri tardano a mettere piede a terra. E perciò essi hanno tempo per viaggiare, tempo per trascendere senza ingombri empirici tra i piedi. Essi, i piedi non ce l’hanno per tutto questo tempo iniziale della loro avventura a bordo di questa novella umanità, alle prese con questo suo bordello sessualmente differenziato.
Il Racconto dei Pellerossa sapeva anche altre cose che noi non sapremo più: perché ci sono cose che si capiscono a volo, solo restando analfabeti: cose che la dottrina, la sapienza, la conoscenza, ci impediscono di sapere che le abbiamo sapute.
Le viviamo, senza «vedere» più cosa né dove viviamo.
Il Racconto dei Pellerossa sapeva già di «due gemelli» in ciascuno di noi, e sapeva pure che, quando mettono piede a terra, i loro destini si separano per sempre.
Per quanto devoto, perciò, sia stato il tuo pellegrinaggio, in fondo alla strada, a Eleusi non troverai che la Pietra su cui un tempo sedeva la Vecchia.
Quella «pietra» che non ride, che non parla, che non risponde, che non si commuove – è ciò che rimane di uno dei due «gemelli», dopo che «toccano terra». Lo vuoi chiamare inconscio? fa’ come ti pare. Ma non permettere alla tua dottrina di impedirti di riconoscerlo, quando ti trovi a passare per Eleusi.
Ricorda: solo portata all’incandescenza, la pietra «arde» e manifesta una sua «utilità». Solo il fuoco la «smuove» dalla sua «disumana» indifferenza.
Tutt’altra cosa è il «fratello gemello»: lui non resta «allo stato minerale», che è il più lontano dagli uomini – più lontano di quanto non siano il vegetale e l’animale. Lui no, invece di «paralizzarsi» in una qualche sua forma remota, al contrario, è nato con l’attitudine a trasformarsi, e perciò a ripassare a volo il vegetale e l’animale, per giungere a «umanizzarsi» nella nostra attuale umanità.
Eccolo qua: un altro «maschio» in giro, un altro concorrente del Sole. Dice di chiamarsi Wene-boozhoo, ma se tu gli chiedi: «chi è Wene-boozhoo?», lui sa dirti solo: «io».
In fondo, è un «figlio del Sole» anche lui. Come Edipo, anche lui ambisce solo a entrare nel talamo di suo «padre». Solo che, a differenza del Sole, non gli basta un’occhiata per fare all’amore con la sua Matrice Immaginale.
A differenza del gemello di pietra che, solo quando il desiderio lo surriscalda, manifesta la sua utilità nella «cottura delle vivande desiderate», questo signor «io», questo che è come tutti gli altri, al secolo Wene-boozhoo, l’amore si sente in obbligo di «realizzarlo», e perciò si danna l’anima a conoscere le conoscenze …