Mancare di infinità è limitatezza, ristrettezza disperata … limitatezza e ristrettezza che consiste nell’aver perduto se stesso senza però annientarsi nell’infinito, ma al contrario rendendosi completamente finito, fino a essere diventato, invece dell’io che uno è, un numero, un uomo in più, una ripetizione in più in quella monotonia eterna.
La ristrettezza disperata è mancanza di originalità, ovvero significa essersi privato della propria originalità, essersi, in un senso spirituale, evirato.
Ogni uomo è, infatti, disposto originariamente per essere un io, è determinato a diventare se stesso; certamente ogni io come tale è come una pietra grezza, ma da ciò si può trarre soltanto la conseguenza che bisogna sfaccettarlo, non lisciarlo; non ne segue che l’io debba, per paura degli uomini, rinunciare completamente a essere se stesso e neppure, soltanto per paura degli uomini, non osare d’essere se stesso nella sua esistenza essenziale (è proprio quella che non deve essere tolta), nella quale uno è se stesso per se stesso.
Ma mentre una specie di disperazione si smarrisce nell’infinito e perde se stessa, ecco che un’altra si lascia quasi carpire il suo io «dagli altri».
Vedendo intorno a sé la folla degli uomini, affaccendandosi con ogni sorta di affari mondani e imparando come vanno le cose al mondo, un tale uomo dimentica se stesso, dimentica che cosa egli è in un senso divino, non osa più credere in se stesso, trova troppo rischioso essere se stesso e che è molto più facile e più sicuro essere come gli altri, scimmiottare gli altri, essere un numero fra gli altri nella folla.
Di questa forma di disperazione nel mondo non ci si accorge quasi per niente. Un uomo simile, proprio per aver perduto così se stesso, ha acquistato la capacità perfetta di andare avanti in tutti gli affari, anzi di far fortuna nel mondo. Egli non trova alcun freno, nessuna difficoltà che derivi dal suo io e dalla sua tendenza a infinitizzarsi; egli è levigato come un ciottolo, è scorrevole come una moneta corrente.
Tutti sono così lontani dal ritenerlo disperato che egli è un uomo proprio come dev’essere.
Il mondo, com’è naturale, non comprende affatto che cosa sia in verità il terribile. La disperazione che non solo non vuole seccature nella vita, ma rende alla gente la vita comoda e piacevole, naturalmente non si ritiene in nessun modo disperazione.
Che questo sia il punto di vista del mondo, si vede, fra l’altro, anche da quasi tutti i proverbi, i quali non sono che regole di accortezza. Così si dice, per esempio, che ci pentiamo dieci volte di aver parlato e una volta per aver taciuto; e perché?
Aver parlato è un fatto esteriore e ci si può trovare in impicci, poiché si tratta qui di una realtà. Ma aver taciuto!
Eppure, questa è la cosa più pericolosa di tutte. Perché l’uomo, quando tace, è lasciato completamente in balia di se stesso; qui la realtà non gli viene in aiuto infliggendogli delle pene, facendogli sentire le conseguenze delle sue parole. No, sotto questo rispetto, uno se la passa bene tacendo.
Ma perciò, colui che sa che cosa è il terribile, egli teme soprattutto proprio quell’errore, quel peccato che si rivolge verso l’interno e non lascia scia alcuna nell’esteriore.
Così, agli occhi del mondo, è pericoloso arrischiarsi; e perché? perché così ci si può perdere.
Non arrischiarsi, invece, questo sì, è prudente.
Eppure, è proprio non arrischiandosi che uno può perdere con facilità tanto terribile ciò che, per quanto avesse perduto con l’arrischiarsi, avrebbe perso difficilmente; e in ogni caso mai in questo mondo, mai così facilmente, proprio come se non fosse un puro nulla – se stesso.
Perché, se ho sbagliato nell’arrischiarmi, ebbene, la vita mi giova con la pena. Ma se non mi sono arrischiato affatto, chi mi aiuterà? E se io, per di più, non arrischiandomi affatto nel senso più alto (e arrischiarsi nel senso più alto è proprio accorgersi di se stesso), conquisto vigliaccamente tutti i vantaggi terreni e perdo me stesso?
Ed è questo proprio il caso della disperazione del finito.
Un uomo, se è disperato in questo modo, può per questo benissimo (in fondo, anzi tanto meglio!) passare la sua vita nella temporalità, essere all’apparenza un uomo, essere elogiato dagli altri, onorato e stimato, dedito a tutti gli scopi temporali.
Ciò che si chiama la mondanità consiste tutta di tali uomini, i quali per così dire vendono la loro anima al mondo. Essi adoperano le loro facoltà, ammassano quattrini, esercitano attività mondane, fanno calcoli prudenti e così via, sono forse nominati nella storia; ma non sono se stessi, non hanno, in senso spirituale, nessun io per amore del quale possano arrischiare tutto, nessun io davanti a Dio, per quanto essi per il resto siano egoisti.
(Kierkegaard, La malattia mortale)
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C’è una disperazione che si perde nell’infinito (è quella che tocca da sempre ai cosiddetti «pazzi») e c’è una disperazione che si va a «curare» in una finitezza – è la disperazione dei più, di noialtri (si fa per dire) «normali».
C’è la disperazione che parte per la tangente e più non ritorna – non trova più una ragione per tornare tra gli «uomini». Ne vale davvero la pena?
È la disperazione illimitata che si perde nei pascoli di Manitù. E c’è da scommettere che, nel novero di questi sconfinati nell’infinito, ci sono dei Santi più che santi, e dei Poeti più che poeti. Ma il guaio è che essi vanno ma poi non tornano a dirci niente di quel posto dove sono stati. Già Platone dovette «inventarsi» il suo Er l’Armeno, così – giusto per dire a chiusura della Repubblica, ma a suo fondamento primo – che finanche la Polis ha bisogno che venga qualcuno «di là» a orientare il suo buongoverno.
C’è poi quest’altra disperazione, questa peste diffusa tra noialtri – gente comune, gente del popolo, «repubblicani» che «di qua», a differenza di Mastro Platone, disperiamo ormai perfino dell’esistenza di dio, per non dire dell’altro mondo, del «di là», dell’infinito – come lo chiama Kierkegaard.
C’è la disperazione che tira avanti coi tranquillanti, che ha bisogno giorno per giorno d’essere tranquillizzata, sedata, drogata: non è successo niente, tutto a posto! siamo tutti morti della tua stessa morte.
Siamo morti nel finito, nel parziale, nel discreto, nel frammentario – ma sì, come diceva un mio vecchio amico, ci siamo estinti nel banale, nell’insensato, nel «lascia perdere», nel «meglio se non ti arrischi».
Percepire quanto questo sia terribile – quanto questo sia «terrore di vivere» (cos’altro hanno da temere i morti? cosa Lazzaro, se non che un povero cristo lo risvegli dal sonno di morte?) – è l’ultimo «resto» sano che ci avanza.
Quanto sia terribile il silenzio che stendiamo sulle nostre angosce, sulle nostre infermità, sulle nostre paure – lo sente e lo patisce solo il nervo sano, sia pure di un corpo sepolto sotto i balocchi del Finito.
Quanto sia sano essere atterriti da tanto silenzio – tutti intanto a parlare del PIL della Polis, del deficit commerciale, e dell’abito che l’attrice indossava alla parata degli Oscar – quanto sia disperato tutto questo, sentirlo e patirlo, e perché no?, arrivare a sentirsene disperati, è forse il solo lumicino che non s’è spento nel nostro «cimitero cittadino».