Poiché ogni arte diventa sempre più capace di esprimere gli stati d’animo, quelli agitati, quelli delicati, quelli drastici e quelli passionali, i maestri moderni, viziati da questi mezzi espressivi, provano disagio di fronte alle opere d’arte del passato, quasi che agli antichi fossero appunto mancati i mezzi di far parlare chiaramente la loro anima, forse perfino certi presupposti tecnici; ed essi ritengono di dover qui venire in aiuto – giacché credono nell’uguaglianza, anzi nell’unità di tutte le anime.
Ma in verità l’anima di quei maestri è stata essa stessa un’altra, più grande forse, comunque più fredda e ancora avversa al fascino della vitalità: la misura, la simmetria, il disprezzo del leggiadro e del voluttuoso, un’inconscia acerbità e mattinale freschezza, un rifuggire dalla passione, come se per essa l’arte dovesse perire – è questo che forma la mentalità e la moralità di tutti i maestri antichi, che non a caso, ma con necessità e con la stessa moralità, scelsero e avvivarono i loro mezzi espressivi.
Ma, ciò riconosciuto, si deve negare a coloro che vengono in seguito il diritto di far rivivere le opere antiche secondo la loro anima? No, perché solo per il fatto che noi diamo loro la nostra anima, esse possono continuare a vivere: solo il nostro sangue fa sì che esse ci parlino. Il presentarle in modo veramente «storico» parlerebbe come uno spettro a degli spettri.
Si onorano i grandi artisti del passato meno con quella sterile soggezione che lascia stare ogni parola, ogni nota così come esse furono messe, che con efficaci tentativi di riportarli di nuovo alla vita.
Certo: se si immaginasse che Beethoven tornasse improvvisamente e che davanti a lui si suonasse una delle sue opere con l’acutezza di sentimento e il raffinamento di nervi più moderni, che fanno la gloria dei nostri maestri dell’esecuzione: egli rimarrebbe probabilmente a lungo muto, incerto se alzare la mano per maledire o per benedire, ma alla fine forse direbbe: «Ebbene! Questo non è né io, né non io, bensì una terza cosa – mi sembra anche qualcosa di giusto, benché non sia la cosa giusta. Ma guardate voi a quel che fate, dato che in ogni caso siete voi che dovete ascoltare – e chi vive ha ragione, dice appunto il nostro Schiller. Abbiate dunque ragione e lasciatemi ridiscendere nella tomba».
(Nietzsche, Umano troppo umano, 2: 126)
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Scommetto che non mi credi se ti dico che anche al dottor Freud capitò di dire la stessa battuta che qui Nietzsche mette in bocca al «redivivo» Beethoven.
Nelle sue ricerche di anatomia psichica, vivisezionando quello che lui chiamava il sistema C – la coscienza – anche a lui successe a sorpresa d’imbattersi in qualcosa di cui poté solo dire: «… ehilà, ma questo non è io, né non io, è una terza cosa».
Freud aveva «incontrato» l’inconscio: una volta «aperto il cuore» all’io, al di là del narcisismo, oltre la libido e tutto quanto potesse sembrargli dotazione naturale dell’individuo, s’era imbattuto anche lui in un analogo gioco di prestigio temporale.
Passano i tempi, cambiano le mode, Beethoven «sente» un disco di Beethoven, ma è un altro Beethoven che giunge alle sue orecchie. Un Beethoven più moderno, più raffinato, più delicato drastico o passionale, e forse perfino più rappato: un altro Beethoven. Non un non-Beethoven, ma neanche più quel Beethoven. Un «terzo» Beethoven – al di là dell’io e del non-io. Un Beethoven «custodito» come uno spartito sul leggio dell’inconscio. Tenuto a parte da tutti gli io dei musicisti, e dei maestri dell’esecuzione antichi e moderni. Tenuto in disparte, apposta per loro!
Perché è questo che successe a Freud, come a Nietzsche – sia pure in altro luogo e circostanza: di «trovare» a spasso, vaganti nell’io dei musicisti «viventi», frammenti del corpo «morto» di un certo lontanissimo Orfeo.
Come va reinterpretato, questo è il problema posto da Nietzsche, come va maneggiato uno qualunque di tali frammenti, così da noi distanti nel tempo, nella lingua e nel gusto musicale?
Bisogna attenersi rigorosamente al «testo», elevare il lascito testamentario a «documento storico» inoppugnabile e incontrovertibile, imbalsamarlo in un eterno status quo che, assieme a Beethoven, dorme sepolto in una tomba – o bisogna «rianimarlo», dargli la vita che non ha più, farlo vivere e durare al di là del suo tempo datato, anche a costo di «forzarne» lo spirito e correndo il rischio di fare violenza al gusto del suo stesso autore?
Bisogna che l’io di ogni musicista moderno inietti il suo sangue, dice Nietzsche, nelle vene del de cuius. Ma, propriamente, a chi bisogna che lo dia, questo suo sangue?
A Beethoven? – no, perché è bell’e morto e, se rinascesse, forse nessuno degli arrangiamenti moderni sarebbe di suo gradimento. Lo dice lui stesso: questa musica non sono io! E come lui, potrebbe dirlo ogni musicista: questa «roba» che va su e giù per le scale del pianoforte, non è mia, non mi appartiene, è altro da me, è al di là di me, è prima di me, e sarà dopo di me. Come nel fiume di Eraclito, o nell’Oceano orfico, dentro vi scorrono tutte le note e finanche le ignote, tutto ciò che è stato umanamente suonato e ascoltato, ma anche tutto ciò che nessuna Musica ha mai raggiunto.
No, non è a Beethoven, non è all’io di un defunto, che il musicista moderno è chiamato a dare il suo «sangue». Come Beethoven, è alla Musica – all’Altro, all’Alieno, al Linguaggio dell’inconscio – che deve iniettarlo.
È alla confluenza delle sue vene con quelle dell’Altro – del Terzo che non è né l’io né il non-io di nessuno, e che se pure ha l’aria d’essere «qualcosa di giusto, tutto è fuorché la cosa giusta», – è là che l’orecchio può avventurarsi nell’«ascolto» dell’Altro. Se vuole dargli voce, non ha che da iniettargli il suo sangue, ed ecco: miracolo! l’Altro – da dentro l’orecchio! – subito gli parla.
È l’Altro che «traduce» Beethoven, da orecchio a orecchio distribuendo tra le note l’eco di questo o quel frammento del corpo di Orfeo. È l’Altro che viene a «tradurre» l’io di ogni musico e/o poeta, per portarlo con sé, altrove.
È all’Altro che non piace sentire e risentire sempre lo stesso Beethoven. E, se così si può dire, lo «collauda», per vedere se e fin dove s’adatta alle mode e agli arrangiamenti – se cioè resiste, se è capace di trasformazioni. Insomma, l’Altro lo fa «suo», se ne appropria e lo «pubblica» perché ne sia provata l’attitudine alla metamorfosi.
In fondo chi è Beethoven? Chi è il Passato? soprattutto quello che era passato già da un bel pezzo, quando sono arrivati i «moderni»? chi, se non la Voce dell’inconscio che parla a Narciso prima che Narciso concepisca la prima libidine? chi, se non la Voce del tempo, che grazie alla sua «arte antica» continua a suggestionare «l’anima del presente»? Essa non sarà mai in contraddizione con se stessa, perché là dove non si piacesse più – non avrebbe che da trasformarsi.