Foucault – Il cogito e l’impensato

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L’uomo è un modo d’essere tale che in lui si fonda la dimensione sempre aperta, mai delimitata una volta per tutte, ma incessantemente percorsa, che va, da quella parte di lui che egli non riflette in un cogito, all’atto di pensiero attraverso il quale egli la recupera; e che, inversamente, va da tale possesso puro [del «mero» orologio, per es., della sola immaginazione trascendentale, avrebbe detto Kant] all’ingombro empirico [all’«orologio da parete», alla «cosa» che funge per lui da «segno di rimando»], e di qui all’ascesa disordinata dei contenuti, all’incombere delle esperienze che sfuggono a se stesse, all’intero orizzonte silenzioso di ciò che si dà nella distesa sabbiosa del non-pensiero.

Per il fatto di essere un allotropo empirico-trascendentale, l’uomo è anche il luogo del disconoscimento, di quel disconoscimento che espone sempre il suo pensiero a essere sopravanzato dal suo essere; e che gli consente, a un tempo, di recuperare se stesso a partire da ciò che gli sfugge.
È la ragione per cui la riflessione trascendentale, nella sua forma moderna, non trova il punto della propria necessità, come in Kant, nell’esistenza di una scienza della natura (alla quale si contrappongono la contesa perpetua e l’incertezza dei filosofi), ma nell’esistenza muta, pronta tuttavia a parlare e come per intero segretamente attraversata da un discorso virtuale, di quel non-conosciuto a partire dal quale l’uomo è senza posa chiamato alla conoscenza di sé.

La domanda non è più: come può accadere che l’esperienza della natura dia luogo a giudizi necessari? Ma: come può accadere che l’uomo pensi ciò che non pensa, abiti ciò che gli sfugge nella forma di un’occupazione muta, animi, con una sorta di moto surreal-ombra-inchiostrorappreso, quella figura di sé che coglie nella forma di un’esteriorità testarda?
Come può l’uomo coincidere con quella vita il cui reticolo, le cui pulsazioni, la cui forza sepolta, incessantemente travalicano l’esperienza che gliene viene immediatamente offerta?

Come può identificarsi con quel lavoro le cui esigenze e leggi s’impongono a lui nella forma di un rigore estraneo? Come può essere il soggetto di un linguaggio che da millenni si è formato senza di lui, il cui sistema gli sfugge, il cui senso dorme d’un sonno quasi invincibile entro le parole che, per un istante, egli stesso fa scintillare col suo discorso, e all’interno del quale è, fin dall’inizio, costretto a porre la propria parola e il proprio pensiero, come se questi non avessero altra possibilità che di animare per un po’ un determinato segmento su tale trama di possibilità innumerevoli?

Quadruplice spostamento nei riguardi della domanda kantiana, dal momento che non si tratta più della verità, ma dell’essere; non più della natura, ma dell’uomo; non più della possibilità d’una conoscenza, ma di quella di un disconoscimento primo; non più del carattere non fondato delle teorie filosofiche di fronte alla scienza, ma del recupero, in una coscienza filosofica chiara, dell’intero campo d’esperienze non fondate, ove l’uomo non si riconosce.

Muovendo da tale spostamento della domanda trascendentale, il pensiero contemporaneo non poteva evitare di ravvivare il tema del cogito.
Non fu forse parimenti muovendo dall’errore, dall’illusione, dal sogno e dalla follia, da tutte le esperienze del pensiero non fondato, che Cartesio scoprì l’impossibilità, per esse, di non essere pensate, tanto che il pensiero del mal pensato, del non vero, del chimerico, del puramente immaginario apparve come luogo di possibilità di tutte queste esperienze e prima evidenza irrecusabile?

Ma il cogito moderno è tanto diverso da quello di Cartesio quanto la nostra riflessione trascendentale è lontana dall’analisi kantiana.
Per Cartesio si trattava di mettere in luce il pensiero come la forma più generale di tutti barca-orlo-cascataquei pensieri, che sono l’errore e l’illusione, in modo da scongiurarne il pericolo, salvo a ritrovarli, alla fine del suo procedimento, a spiegarli, e a fornire allora il metodo per guardarsene.
Nel cogito moderno, si tratta, al contrario, di lasciar valere nella sua dimensione massima la distanza che, a un tempo, separa e unisce il pensiero riflesso e ciò che, del pensiero, si radica nel non-pensiero; il cogito moderno (ed è per questo che esso non è tanto un’evidenza scoperta quanto un compito incessante che deve sempre venir ripreso) deve percorrere, duplicare e riattivare in una forma esplicita l’articolazione del pensiero su ciò che in esso, intorno a esso, al di sotto di esso, non viene pensato e che tuttavia non è, per questo fatto, estraneo al pensiero nei modi di un’esteriorità irriducibile e insuperabile.

In tale forma, il cogito non sarà, pertanto, l’improvvisa scoperta illuminante che ogni pensiero è pensato, ma l’interrogazione continuamente ripresa al fine di sapere come il pensiero possa abitare al di fuori di sé e sia tuttavia vicinissimo a se stesso, come esso possa essere sotto le specie del non-pensante.
Il cogito moderno riconduce appunto l’intero essere delle cose al pensiero, ma ramificando l’essere del pensiero fin dentro la nervatura inerte di ciò che non pensa.

Questo doppio movimento proprio del cogito moderno spiega perché l’«Io penso» non porta da sé all’evidenza dell’«Io sono»; non appena, infatti, l’«Io penso» si mostra coinvolto in tutto uno spessore in cui è quasi presente – che esso avviva sì, ma nel modo ambiguo di una veglia sonnecchiante – non è più possibile farne derivare l’affermazione «Io sono»: infatti, posso forse dire io di essere questo linguaggio che parlo e in cui il mio pensiero penetra al punto da trovarvi il sistema di tutte le proprie possibilità, ma che tuttavia esiste soltanto nella pesantezza di sedimentazioni che non potranno mai essere interamente analizzate da questo mio pensiero?

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Posso forse dire di essere questo lavoro che faccio con le mie mani, ma che mi sfugge non solo quando l’ho finito, ma prima ancora che l’abbia iniziato?
Posso forse dire di essere questa vita che sento in fondo a me e che tuttavia mi avvolge sia col tempo formidabile in cui mi trascina issandomi un istante sulla sua cresta, sia, altresì, col tempo imminente che mi prescrive la mia morte?
Certamente posso, con pari diritto, sostenere d’essere e di non essere tutto questo; il cogito non conduce a un’affermazione d’essere, ma dà, appunto, su tutta una serie di domande in cui l’essere viene problematizzato: cosa devo essere, io che penso e sono il mio pensiero, per essere ciò che non penso, e perché il mio pensiero sia ciò che non sono?

Che cos’è dunque questo essere che scintilla e per così dire ammicca nell’apertura del cogito, senza tuttavia esser dato sovranamente in esso e da esso? Qual è dunque il rapporto e l’ardua appartenenza dell’essere e del pensiero? Che cos’è l’essere dell’uomo, e come può accadere che tale essere, il quale potrebbe tanto agevolmente venir caratterizzato dal fatto che «ha del pensiero» e che è forse il solo a possederlo, includa un riferimento incancellabile e fondamentale all’impensato? […]

A partire dal momento in cui l’uomo si costituì in quanto figura positiva sul campo del sapere … appunto per questo, dava a un pensiero oggettivo la facoltà di percorrere Dalì-volto-frammentiquesta figura nella sua totalità, salvo poi scoprirvi proprio ciò che non poteva mai essere dato alla sua riflessione e nemmeno alla sua coscienza: meccanismi oscuri, determinazioni senza figura, un intero panorama d’ombra che direttamente o indirettamente è stato chiamato l’inconscio.
L’inconscio non è forse ciò che si dà necessariamente al pensiero scientifico applicato dall’uomo a se stesso, allorché cessa di pensarsi nella forma della riflessione [narcisistica]?

Di fatto, l’inconscio, e in generale le forme dell’impensato, non furono la ricompensa offerta a un sapere positivo dell’uomo. L’uomo e l’impensato sono, al livello archeologico, contemporanei.
L’uomo non poteva disegnarsi come una configurazione nell’episteme, senza che il pensiero non scoprisse al tempo stesso, in sé e fuori di sé, nei propri margini, ma anche intrecciati nella propria trama, una parte di notte, uno spessore apparentemente inerte in cui è coinvolto, un impensato che egli contiene da un capo all’altro, ma nel quale nondimeno si trova imprigionato.

L’impensato (quale che sia il nome accordatogli) non risiede nell’uomo come una natura accartocciata o una storia che vi si sarebbe stratificata; esso è, nei riguardi dell’uomo, l’Altro: l’Altro fraterno e gemello, nato non già da lui, né in lui, ma a fianco e contemporaneamente, in un’identica novità, in una dualità senza ricorso.
La zona oscura che viene volentieri interpretata come una regione abissale nella natura dell’uomo, e come una fortezza singolarmente sprangata della sua storia, è a lui legata in tutt’altro modo: gli è, a un tempo, esterna e indispensabile: un po’ come l’ombra riportata dell’uomo mentre sorge nel sapere; un po’ come la macchia cieca a partire da cui è possibile conoscerlo.

(Foucault, Le parole e le cose)