Un ricco mercante aveva un figliolo a nome Bobo, sveglio d’ingegno e con gran voglia d’imparare. Il padre lo affidò a un maestro assai dotto, perché gli insegnasse tutte le lingue.
Finiti gli studi, Bobo tornò a casa e una sera passeggiava col padre pel giardino. Su un albero, gridavano i passeri: un cinguettio da assordare.
«Questi passeri mi rompono i timpani ogni sera», disse il mercante tappandosi le orecchie.
E Bobo: «Volete che vi spieghi cosa stanno dicendo?».
Il padre lo guardò stupito: «Come vuoi sapere cosa dicono i passeri? Sei forse un indovino?».
«No, ma il maestro mi ha insegnato il linguaggio di tutti gli animali».
«Oh, li ho spesi bene i miei soldi! – disse il padre. – Cosa ha capito quel maestro? Io volevo che t’insegnasse le lingue che parlano gli uomini, non quelle delle bestie!».
«Le lingue degli animali sono più difficili, e il maestro ha voluto cominciare da quelle».
Il cane correva loro incontro abbaiando. E Bobo: «Volete che vi spieghi cosa dice?».
«No, lasciami in pace col tuo linguaggio da bestie! Poveri soldi miei!».
Passeggiavano lungo il fossato, e cantavano le rane. «Anche le rane ci mancavano a tenermi allegro …», brontolava il padre.
«Padre, volete che vi spieghi …», cominciò Bobo.
«Va’ al diavolo tu e chi t’ha insegnato!».
E il padre, irato d’aver buttato via i quattrini per educare il figlio, e con l’idea che questa sapienza del linguaggio animale fosse una mala arte, chiamò due servi e disse loro cosa dovevano fare l’indomani.
Alla mattina, Bobo fu svegliato, uno dei servi lo fece montare in carrozza e gli si sedette vicino; l’altro, a cassetta, frustò i cavalli e partirono al galoppo. Bobo non sapeva nulla di quel viaggio, ma vede che il servitore accanto a lui aveva gli occhi tristi e gonfi: «Dove andiamo? – gli chiese. – Perché sei così triste?», ma il servitore taceva.
Allora i cavalli cominciarono a nitrire, e Bobo capì che dicevano: «Triste viaggio è il nostro, portiamo alla morte il padroncino».
E l’altro rispondeva: «Crudele è stato l’ordine di suo padre».
«Dunque, voi avete l’ordine da mio padre di portarmi a uccidere?», disse Bobo ai servitori.
I servitori trasalirono: «Come lo sapete?», chiesero.
«Me l’han detto i cavalli – disse Bobo. – Allora uccidetemi subito. Perché farmi penare aspettando?».
«Noi non abbiamo cuore di farlo – dissero i servitori. – Pensiamo al modo di salvarvi».
In quella li raggiunse abbaiando il cane, che era corso dietro la carrozza. E Bobo intese che diceva: «Per salvare il mio padroncino darei la vita!».
«Se mio padre è crudele – disse Bobo – ci sono pure creature fedeli; voi, miei cari servitori, e questo cane che si dice pronto a dar la vita per me».
«Allora – dissero i servitori – uccidiamo il cane, e portiamo il suo cuore al padrone. Voi, padroncino, fuggite».
Bobo abbracciò i servi e il cane fedele e se ne andò alla ventura. Alla sera giunse a una cascina e domandò ricovero ai contadini. Erano seduti a cena, quando dal cortile venne il latrare del cane. Bobo stette ad ascoltare alla finestra, poi disse: «Fate presto, mandate a letto donne e figli, e voi armatevi fino ai denti e state in guardia. A mezzanotte verrà una masnada di malandrini ad assalirvi».
I contadini credevano che gli desse di volta il cervello: «Ma come lo sapete? Chi ve l’ha detto?».
«L’ho saputo dal cane che latrava per avvertirvi. Povera bestia, se non c’ero io avrebbe sprecato il fiato. Se m’ascoltate, siete salvi».
I contadini, coi fucili, si misero in agguato dietro una siepe. Le mogli e i figli si chiusero in casa. A mezzanotte s’ode un fischio, poi un altro, un altro ancora; poi un muoversi di gente. Dalla siepe uscì una scarica di piombo. I ladri si diedero alla fuga; due restarono secchi nel fango, coi coltelli in mano.
A Bobo furono fatte grandi feste, e i contadini volevano che si fermasse con loro, ma lui prese commiato, e continuò il suo viaggio.
Cammina cammina, a sera arriva a un’altra casa di contadini. È incerto se bussare o non bussare, quando sente un gracidare di rane nel fosso. Sta ad ascoltare; dicevano: «Dai, passami l’ostia! A me! A me! Se non mi lanciate mai l’ostia a me, non gioco più! Tu non la prendi e si rompe! L’abbiamo serbata intera per tanti anni!».
S’avvicina e guarda: le rane giocavano a palla con un’ostia sacra. Bobo si fece il segno della croce.
«Sei anni, sono, ormai, che è qui nel fosso! – disse una rana. – Da quando la figlia del contadino fu tentata dal demonio, e invece di far la comunione nascose in tasca l’ostia, e poi ritornando dalla chiesa, la buttò qui nel fosso».
Bobo bussò alla casa. L’invitarono a cena. Parlando col contadino, apprese che egli aveva una figlia, malata da sei anni, ma nessun medico sapeva di che malattia, e ormai era in fin di vita.
«Sfido! – disse Bobo. – È Dio che la punisce. Sei anni fa ha buttato nel fosso l’ostia sacra. Bisogna cercare quest’ostia, e poi farla comunicare devotamente; allora guarirà».
Il contadino trasecolò: «Ma da chi sapete tutte queste cose?».
«Dalle rane», disse Bobo.
Il contadino, pur senza capire, frugò nel fosso, trovò l’ostia, fece comunicare la figlia, e lei guarì. Bobo non sapevano come compensarlo, ma lui non volle niente, prese commiato, e andò via.
Un giorno di gran caldo, trovò due uomini che riposavano all’ombra di un castagno. Si sdraiò accanto a loro e chiese di far loro compagnia. Presero a discorrere: «Dove andate voi due?».
«A Roma, andiamo. Non sapete che è morto il Papa e si elegge il Papa nuovo?».
Intanto, sui rami del castagno venne a posarsi un volo di passeri: «Anche questi passeri stanno andando a Roma», disse Bobo.
«E come lo sapete?», chiesero quei due.
«Capisco il loro linguaggio», disse Bobo. Tese l’orecchio, e poi: «Sapete cosa dicono?».
«Cosa?».
«Dicono che sarà eletto Papa uno di noi tre».
A quel tempo, per eleggere il Papa si lasciava libera una colomba che volasse nella piazza di San Pietro piena di gente. L’uomo sul cui capo si sarebbe posata la colomba, doveva essere eletto Papa. I tre arrivarono nella piazza gremita e si cacciarono in mezzo alla folla. La colomba volò, volò, e si posò sulla testa di Bobo.
In mezzo a canti e grida d’allegrezza fu issato sopra un trono e vestito d’abiti preziosi. S’alzò per benedire e nel silenzio che s’era fatto nella piazza s’udì un grido. Un vecchio era caduto a terra come morto. Accorse il nuovo Papa e nel vecchio riconobbe suo padre. Il rimorso l’aveva ucciso e fece appena in tempo a chiedere perdono al figlio, per spirare poi tra le sue braccia.
Bobo gli perdonò, e fu uno dei migliori papi che ebbe mai la Chiesa.
(Calvino, Fiabe italiane: 23)
***
… oh, perbacco: uno fa tanti sacrifici, si toglie perfino il pane di bocca, per mandare un figlio a scuola, e – toh! – quello ti ritorna indietro talmente «guasto» che non c’è modo più di aggiustarlo. Un maestro, allora sì sarebbe «giusto»: se insegnasse al figlio le lingue che parlano gli uomini, non quelle delle bestie – se, insomma, invece di farla così difficile, si limitasse a rispettare i «programmi ministeriali».
Cos’è questo mettersi a parlare con gli uccelli, se non una follia? Va bèh, l’ha fatta Gesù, l’ha fatta Francesco, sarà pure «sacra», ma pur sempre follia è! Non è meglio fare come ormai d’abitudine fanno tutti i maestri «normali»: occuparsi di preferenza dell’Essere, ma per favore lasciate perdere i nitriti delle cavalle?
Il Discorso è, logicamente, in sé compiuto. Il «parlare umano» (la voce del suo «sapere») è sempre, dal punto di vista logico, compiuto. Lo è in ogni istante della Storia, non al suo compimento finale, escatologico. Il Paracleto linguistico è già qui – annunciato e insieme «costretto» a presentarsi, fin d’ora in ogni «frase» di senso compiuto.
Da questa sua «compiutezza» in atto momento per momento – non si esce. Se si cerca nel Discorso una via di fuga dal Discorso, è tempo perso.
Non puoi chiedere a Hegel il nullaosta per uscire dalla sua Logica. Né puoi domandare a un matto di illustrarci la sintassi segreta del suo «dire a vanvera».
È andata così: Hegel ha dato voce a quella «compiutezza» che già era in atto nel Discorso fin dal paleolitico, ma che soltanto ora, grazie alla sua Logica, ci è diventata «sapere» cosciente. Noi, ora, sappiamo che il Discorso è chiuso su se stesso, sigillato nei suoi Assiomi Umani. Esso è fatto per «dire» solo ciò che è «umanamente degno» d’essere enunciato. Da qui non si esce.
No, non se ne esce – se non con un gesto «disumano».
Dall’Umano, dal troppo Umano perché sia capace d’uscire dal circolo vizioso dell’«umanesimo» in cui per millenni si è rinchiuso – non se ne esce, se non predicando agli uccelli.
Guardateli, essi non lavorano eppure mangiano!
Guardateli bene, e soprattutto … ascoltateli: essi parlano allo Stesso a cui parlate voi. Gli parlano, però, da molto più vicino di voi. Voi vi siete così tanto allontanati nella vostra Parola, che avete bisogno degli animali come «segni» che vi rimandino al «dire» che non dite più, dacché dite soltanto parole «degne dell’Uomo».
Parole umane, troppo umane per «dire» qualcosa al di fuori del Discorso Umano.