Heidegger – L’orologio schizofrenico

Riferendo l’esperienza di un giovane schizofrenico, visitato e osservato in uno stato subacuto, la cui psicosi, secondo l’autore, a parte certe turbe temporali e mentali, non avrebbe presentato particolarità essenziali, Franz Fischer scrive testualmente:

Osservando la lancetta di un orologio da parete, il paziente dichiarava quanto segue: «Che cosa dovrei fare con l’orologio? Devo guardarlo. Sempre. Non posso resistere, posso omaggio-orologiosolo guardarlo. Quanto tempo c’è, io cambio in continuazione. Se alla parete non ci fosse l’orologio, dovrei morire. Non sono pure io un orologio? Ovunque? In tutti i posti? Non posso fare diversamente. Si cambia troppo. Adesso vedo un’altra volta l’orologio, la lancetta, il quadrante, e che esso cammina … e si scinde, come da se stesso, e io vi sono presente, ma non posso cambiare niente.

Mi dico un’altra volta che è un orologio, ma tutte queste cose non stanno bene assieme: la lancetta, il quadrante, e il fatto che cammina. C’è qui come un’impressione che si sono sganciate l’una dall’altra … e invece sono insieme. E poi c’è pure un’altra cosa, c’è che sono tutto stupito, non è mai successa una cosa simile. La lancetta è sempre di nuovo diversa … ora sta qui, poi avanza un poco, a salti, e cambia direzione. È sempre di nuovo un’altra lancetta? Forse ci sta qualcuno dietro la parete, che infila dentro continuamente un’altra lancetta, ogni volta in un posto diverso.

Devo pure dire che non è un orologio che funziona, quello che salta e cambia in continuazione. Uno si dedica all’osservazione dell’orologio … e finisce che perde il filo che conduce a lui stesso … perché pure io sono un orologio, dappertutto in me … perché cammina sempre così confusamente. Tutto questo sono io stesso … mi perdo quando osservo l’orologio alla parete. È un correre via da se stessi, sono fugace e non ci sono più. So soltanto che l’orologio salta intorno con molte lancette, e che non può essere ricomposto tanto bene.

Adesso è un’altra volta troppo con l’orologio da parete … ma non per mia volontà … e devo di nuovo collocarmi nell’altro posto, nell’altro modo.
Come ho detto: io sono l’orologio vivente, sono dappertutto un orologio … va e viene una continuazione … quando poi mi tiro fuori un’altra volta, perché va tutto così confusamente, allora guardo di nuovo lì verso l’orologio alla parete. Esso mi può aiutare … così come l’albero davanti alla finestra. I rumori non sono tanto buoni …».

uccello-orologio

Ora, come deve essere interpretato questo testo?
In primo luogo, notiamo che il redattore del racconto del paziente inizia con la proposizione seguente: «Osservando la lancetta di un orologio da parete, il paziente dichiarava quanto segue». Si dovrà indagare se, in questo resoconto, si tratti anche effettivamente dello stato di cose indicato.
In secondo luogo, colpisce il fatto che il paziente non parli affatto del tempo e di un dato cronologico, bensì parli dell’orologio. Egli parla insieme, alternativamente, dell’«orologio della parete» e dell’«orologio». Una volta parte dall’orologio della parete, che lo spinge irresistibilmente a guardare verso di esso. Poi è di nuovo – non per sua volontà – «abbastanza con l’orologio della parete, e devo di nuovo collocarmi nell’altro posto, nell’altro modo», cioè da che guarda l’orologio della parete passare a osservare e rimirare un «mero» orologio, smembrato, non più ricomponibile, non più funzionante, che salta, che non è più di fronte a lui sulla parete, bensì è, per così dire, senza luogo.

È qui che dobbiamo ricercare la discrepanza decisiva, da cui dipende tutto. Una volta si tratta del rapporto del paziente con l’orologio della parete, la seconda volta, quando egli viene trascinato nell’altro modo, si tratta del rapporto col mero orologio.
«Mero» qui vuol dire: senza un luogo determinato, senza un ambiente circostante familiare.
Alla distinzione delle due cose, l’orologio da parete e il mero orologio, corrisponde la distinzione del rapporto con l’orologio della parete e col mero orologio.

Il rapporto con l’orologio da parete è un guardare verso di esso (di là). Nell’uno verso l’altro di là, il paziente è portato dal familiare orologio da parete a se stesso, ed è così Giò-manicomiopresso se stesso.
Il rapporto col mero orologio è un osservare, un rimirare, un tendere ad esso, tale che questo osservare viene, per così dire, risucchiato dall’osservato e così l’osservatore può rinvenirsi solo ancora nell’osservato e in quanto questo, e può dire perciò: io stesso sono l’orologio (nota bene: non l’orologio da parete).

Ciò nel senso di: io stesso ho il carattere di un orologio.
Perciò egli può dire: io sono un orologio, «dappertutto in me».
Qui però egli non traspone fuori di se stesso all’orologio nulla di psichico, nulla di «soggettivo», nulla di interiore, bensì egli è talmente preso dall’osservato, che non ha più affatto alcuna distanza da esso, alcun faccia a faccia, e perciò «perde il filo che conduce a se stesso».
«Mi perdo», vale a dire: egli perde il suo essere-se-stesso.

In che modo, tuttavia, gli «giova» il guardare l’orologio da parete, in che modo l’orologio da parete, in quanto cosa, gli offre un sostegno?
Per comprendere questo, dobbiamo ben distinguere il suo rapporto con l’orologio da parete dal suo rapporto col mero orologio. Qui il fatto decisivo è che l’orologio da parete, proprio perché gli sta di fronte, in certo modo gli si rivolge, mentre l’orologio, in cui egli viene trascinato dentro, non è affatto più di fronte. Il mero orologio non gli lascia più scorgere alcun rapporto con lui stesso. Egli è talmente distolto nel mero orologio, che può dire di essere egli stesso un orologio.

Poi, però, egli deve tentare di nuovo la liberazione nel faccia a faccia con l’orologio della parete. In quest’attimo, in cui egli sta di nuovo di fronte a una cosa e può mantenersi nello stare di fronte, ha un mondo.
Quando però è poi abbastanza con lo stare di fronte, egli è allora di nuovo in balia dell’orologio osservato, vale a dire: strappato dal mondo, spinto via.
Corrispondentemente, anche «l’albero davanti alla finestra» è per lui un mondo-ambiente, che gli permette di abitare, che può offrirgli un soggiorno abituale, naturale.

«I rumori non sono tanto buoni».
Per che cosa non sono tanto buoni? Come aiuto. Vale a dire: un uomo non può esistere pazzo-autopaintcon dei meri rumori, che non rimandano a nulla, tanto poco quanto con il tempo come mera serie di «punti-ora».
«Osservando la lancetta di un orologio da parete», così l’autore introduce la storia. Con ciò, lo stato di cose, di cui si tratta, è interpretato male già fin dal principio. […]

L’arte dell’interpretazione è l’arte del corretto domandare.
Nel caso in discussione, non si tratta né del tempo, né della struttura temporale, bensì del diverso rapportarsi all’orologio da parete e al mero orologio, che entrambi non sono affatto intesi come misuratori di tempo. L’intero testo che abbiamo letto, non ha immediatamente niente a che fare col problema del tempo. Tuttavia, la delucidazione del testo era solo un rozzo tentativo di mostrare come si debba impostare un’interpretazione: non mirando a un supposto «Erlebnis [avvenimento] interiore», bensì domandando come sia determinato il rapporto alla cosa, come la cosa autentica sia un rimando al mondo.

In che modo il problema del tempo entri in gioco anche qui, non è ancora visibile sulla base di quanto fin qui detto.
Ma il testo ci è servito per ora a chiarire che non si tratta di due diversi orologi, ma dello stesso orologio da parete, che è dato a lui, al paziente, una volta in quanto orologio da parete, e l’altra volta solo ancora in quanto mero orologio che lo ammalia e consuma.
Solo laddove c’è un che di stesso, qualcosa, in diverso modo «scisso», può concernere l’uomo.

(Heidegger, Seminari di Zollikon)

***

Carrington-rossa-città

Il mondo che sei, il mondo di là, non puoi vederlo.
Ma puoi fartene lo stesso un’idea, osservando il mondo qua fuori. Il che è come dire: solo distraendoti da te stesso, puoi sapere qualcosa di te. Finché sei immerso nel tuo mondo, tu l’assapori, ma non ne hai nessuna sapienza. Finché Adamo fu lui stesso Paradiso, non ci fu verso di saperlo.
Quanto ti amassi, non lo sapevo – dice la canzone di un mio vecchio amico – non potevo saperlo, finché stavo con te.

Che tu, come me, sia un orologio – oggi possiamo finalmente saperlo. Lo siamo sempre stati, ma ci sono voluti millenni e millenni di «esilio» dal nostro Paradiso, per giungere a saperlo: per giungere cioè a «fabbricare» ciò che più somiglia a quello che non siamo più all’oscuro di essere.
Siamo sempre quello stesso orologio – ma a cui è però venuta meno la sciolta inconsapevolezza d’una volta.
Non ti vedo più, non ti sento da chissà quando – ma soltanto incontrando, a me di fronte, un segno della tua assenza, posso sapere – dice la canzone – i colori che davi al mio cuore.

C’è voluto del tempo perché l’uomo arrivasse a concepire e realizzare la Macchina a lui più simile: l’orologio. Tanto tempo, quasi tutto il tempo che ha avuto, l’uomo l’ha vissuto uomo-ingranaggiper arrivare a riprodurre la copia a lui più gemella. Ma, una volta che è arrivato a tanto, ecco: ha pure dovuto mettersi al passo della sua novella «creatura». Nello stare di fronte a quest’altro Orologio – qua fuori – solo così, solo per questa via obbligata, può succedergli di rintracciare il suo inconsapevole «essere (stato) orologio [di un certo Paradiso]».

Proprio perché «fabbrica» segni e li diffonde, come vangeli, per il mondo, l’uomo è continuamente interrogato dalle sue «creature».
Ogni segno è un «rimando», un «rinvio» ad altro – a ciò che il segno non è, ma di cui è tuttavia il solo legittimo Supplente.
Se l’orologio della parete non rimandasse al «mero» orologio, se si limitasse a segnare l’ora, e non fosse – come tutti i segni – una finestra aperta sull’Altro, sull’Assente, esso non somiglierebbe così tanto al suo «fabbricatore». Non sarebbe, come invece è l’orologio, «a sua immagine e somiglianza».

Allora sì che l’orologio sarebbe una «cosa» qualunque, anonima, inservibile, muta, se non addirittura rumorosa. Perché, in fondo, cos’è un rumore, se non qualcosa che non apre, che non allude a nient’altro – e che perciò non ammalia l’uomo?
Non lo ammalia, non l’incanta, non l’affascina, perché non gli rivolge nessuna domanda. Non apre nessuna vertenza. Non rivendica nessuna «scissione», più o meno luciferina, dallo Stesso. Continua, crudele, a essere-se-stesso. Non si sdoppia. Non lo riguarda … perciò Narciso passa oltre.