Bradipo viveva solo. Un giorno si recò nella foresta e s’incontrò con due ragazze che coglievano e mangiavano frutti dell’albero Sorva, che il padre gettava loro dagli alti rami.
Bradipo chiese loro a bassa voce: «Cosa state facendo?».
Esse risposero sottovoce: «Mangiamo frutti di sorva».
Bradipo le afferrò e le possedette. L’odore del suo seme giunse però al padre delle ragazze, che così comprese ciò che stava accadendo.
Bradipo tentò d’ingannarlo: s’allontanò dall’albero e cominciò a suonare il suo flauto di bambù. Il suono giungeva sempre più distintamente, man mano che Bradipo si avvicinava di nuovo all’albero.
Ma il padre non si lasciò ingannare.
Bradipo ad alta voce chiese alle ragazze: «Dov’è vostro padre?», e le ragazze gli indicarono il ramo a cui era aggrappato. Lo salutò e gli chiese: «Cosa stai facendo?».
«Mangio frutti di sorva».
«Sono maturi?».
Il padre rispose che lo erano, sicché Bradipo disse: «E allora gettamene uno».
Il frutto, rimbalzando tra i rami, cadde al suolo in pezzi.
Gli disse allora il padre: «Sali sull’albero, perché i frutti si rovinano se li lancio a terra».
Bradipo chiese: «Sono maturi e abbondanti?».
«Sono tantissimi. Su, sali, seguendo il cammino che ho aperto io».
Bradipo salì e si rese conto che i frutti erano davvero tanti. Ne mangiò uno, gli piacque e, per coglierne degli altri, si arrampicò su un altro grande ramo. In quel momento, però, il padre sciolse la fune usata da lui stesso e da Bradipo per arrampicarsi su quell’albero gigantesco, si aggrappò saldamente alle foglie e scese al suolo, provocando un rimbombo di tuono.
Il padre allora così parlò a Bradipo: «Resta lassù, e paga il male fatto, tu che non hai rispettato le mie figlie».
Bradipo rimase solo su quell’albero gigantesco, molto più grande degli alberi di sorva dei tempi attuali. Per molti mesi si alimentò dapprima dei frutti, e poi del lattice di sorva. Fu così per tutta la stagione secca, fino al ritorno della pioggia.
Ed ecco, con la nuova stagione, cominciò la migrazione degli uccelli, e tutti si trovarono a passare a volo una notte sull’albero gigantesco.
Passarono per primi i corvi neri, nel tardo pomeriggio, e chiesero a Bradipo: «Che ci fai tu su quest’albero?».
Egli raccontò la sua storia. Gli dissero: «Perché sei salito sull’albero, dopo quello che avevi fatto?».
«Io pensavo che non se sarebbe accorto», rispose.
Tutti lo derisero, a quel punto.
Bradipo a sua volta chiese: «Dove siete diretti?».
Risposero che andavano verso ovest, alla casa della vecchia Amon, per rimettergliela a nuovo.
«Fatemi venire con voi!», li supplicò Bradipo.
«Non rattristarti, amico – gli risposero i corvi. – Altri verranno dopo di noi: forse essi ti potranno aiutare. Noi non possiamo».
All’alba del mattino seguente, i corvi volarono via abbandonandolo al suo destino. Ma giunse presto uno sciame di gru, e anche alle gru Bradipo raccontò la sua storia. Ma anche le gru si rifiutarono di dargli soccorso.
Fu poi la volta degli aironi, e poi quella degli inhambù. Giungevano a ondate, pernottavano sull’albero e al mattino prendevano il volo. Al povero Bradipo ripetevano la solita filastrocca: «Sai com’è, noi non possiamo. Ma tu non temere, verranno altri spiriti aerei dopo di noi, e loro forse ti potranno aiutare. Noi no, non possiamo».
Bradipo era ormai disperato, quando giunse l’ultimo sciame di inhambù. Raccontò anche a loro, stancamente, la sua disavventura. E forse perché lo videro così disperato, questi ultimi arrivati presero a cuore il destino di Bradipo, e accettarono di portarlo con loro alla casa della vecchia Amon.
Presero i loro flauti e li fissarono sulle braccia di Bradipo con lattice di corteccia, poi ciascuno di loro si strappò una penna, la depose sulla punta del flauto e ne fissò il calamo incollandolo con la saliva.
Grazie a queste ali posticce, Bradipo giunse con gli uccelli alla casa della Vecchia.
Gli uccelli si raccomandarono: «Quando saremo dentro la casa, non toccare il cibo, non servirti da solo, ti serviremo noi quando sarà il momento».
Entrarono nella Casa di Amon e si scambiarono i saluti. Bradipo entrò assieme a loro. Amon li fece sedere alla sua tavola e servì loro una salsa di peperoncino e del pesce. Gli uccelli mangiarono. Bradipo aspettò che lo servissero. Aveva una gran fame, ma pazientò lo stesso.
Un inhambù gli passò finalmente un po’ di pesce. Bradipo lo divorò in fretta. L’uccello gliene passò un secondo. Bradipo ne fece un sol boccone e, poiché la fame ancora non gli era passata, allungò la mano e si servì da solo.
Quando passò in rivista il pesce, Amon s’accorse che ne mancava un pezzo e domandò agli inhambù se per caso non ci fosse un estraneo in mezzo a loro.
Gli uccelli dissero di no, ma la donna non si lasciò ingannare.
La Casa era piena zeppa di ogni specie d’uccelli. Non si respirava, tanto era affollata.
Appena si furono rifocillati del loro lungo viaggio, tutti gli uccelli si misero al lavoro. Per rinnovare la Casa della Vecchia, ognuno si strappava una penna dal proprio corpo. Gli aironi e gli inhambù rifacevano il tetto, i tucano chiusero la facciata, mentre i corvi neri s’incaricarono delle pareti. La Casa era tutta fatta di piume, ed era stupenda.
In un giorno il lavoro di restauro fu portato a termine, e gli uccelli si rimisero in cammino: si tuffarono nel Fiume, si trasformarono in pesci e imboccarono la via della discesa.
Bradipo, non sapendo trasformarsi, rimase solo lui nella Casa di Amon.
La Vecchia fiutò la presenza di un estraneo e, per scovarlo obbligandolo a tossire, bruciò del peperoncino. Bradipo, tuttavia, afferrò la sua cerbottana e respirò aria pura attraverso la parete della Casa.
La Vecchia riuscì a scovarlo lo stesso, e Bradipo fu costretto a raccontarle per filo e per segno come mai era finito nella sua Casa, lui che uccello non era, e che era per giunta impotente a trasformarsi in pesce.
La donna era nuda, e la cosa turbava Bradipo.
I «mariti» di Amon erano due pezzi di legno, appesi al centro della Casa. Lei si arrampicava e si sedeva su di essi, li amava e ridiscendeva.
Osservandola, Bradipo la desiderò e la possedette, ma non fu una buona cosa, perché la vagina di Amon era un nido di ragni, scorpioni e formiche, che gli trafissero coi loro aculei il pene, facendoglielo gonfiare a dismisura, fino alla lunghezza di mezzo metro, e provocandogli un dolore insopportabile.
Corse allora al Fiume. Le cicogne stavano lì a preparare uno sbarramento per catturare i pesci. Bradipo si sedette a contemplare il loro lavoro. Moltissimi pesci venivano intrappolati, solo due pesciolini riuscirono a dileguarsi e vennero nuotando proprio dove era seduto Bradipo.
Bradipo li seguì con lo sguardo, ma fu solo un attimo – perché subito i due pesciolini scomparvero … e sulla riva apparvero due ragazzi.
«Che cos’hai?», domandarono a Bradipo. L’avevano visto triste e sconsolato, e volevano sapere perché. Bradipo raccontò tutta la storia.
«Sei stato uno sciocco! – gli dissero. – Non ti hanno insegnato che bisogna pettinare i nidi di insetti della donna, prima di unirsi a lei?».
Gli promisero di guarirlo, se lui in cambio li avesse liberati dalle cicogne.
Trovato l’accordo, i due ragazzi versarono una sostanza magica sul pene di Bradipo e lo guarirono. Il pene si sgonfiò, si accorciò, e divenne normale.
Come pattuito, Bradipo andò ad aprire lo sbarramento delle cicogne e liberò tutti i pesci che vi erano imprigionati. Le cicogne s’infuriarono e si misero in cerca del colpevole.
Bradipo tornò alla Casa di Amon. Questa, vedendo che egli non poteva partire, inviò il suo pensiero all’avvoltoio: «C’è qui da me un tale che non conosco, non so neppure da dove venga».
L’avvoltoio raccolse il pensiero della donna e subito disse: «Dev’essere mio nipote. Infatti, io mangio i rifiuti del cibo degli uomini». Pensava così perché l’avvoltoio si ciba dei pesci guasti, che restano sull’acqua dopo la pesca al veleno, e degli animali in decomposizione uccisi dagli uomini. Per questa ragione, Avvoltoio ebbe compassione di Bradipo.
Il rapace raggiunse rapidamente la Casa di Amon, confermò di aver colto il pensiero di lei e di essere accorso velocemente. Poi disse a Bradipo: «Prendi due bastoncini e legane uno sulla mia coda, e l’altro sopra le mie ali. Il primo ti servirà per sedere, il secondo per aggrapparti».
Terminato il lavoro, Bradipo montò in groppa ad Avvoltoio, e partirono.
«Ora – disse Avvoltoio – reggiti forte, ché ti porterò alla Prima Casa di Trasformazione, alla Casa del Lago di Latte».
Disse solo queste poche parole, eppure bastarono a rendere l’aria tutt’intorno irrespirabile. Si sentiva l’odore nauseabondo della carne delle carogne, di cui Avvoltoio si ciba.
Domandò il rapace a Bradipo: «Come ti sembra il mio alito?».
Bradipo si affrettò a rispondere: «Io lo respiro e mi inebria». Se avesse detto che era lezzo di cadavere, sarebbe stato lanciato nel vuoto.
Quando giunsero alla Prima Casa di Trasformazione, la Prima Casa Umana, che era situata a sud e brillava come le fiamme del lampo, Avvoltoio disse: «Ormai ti ho fatto vedere quel che c’era da vedere. Nipote mio, quella che vedi è la tua terra. Scendi, ché adesso puoi farcela da solo».
E, avendolo posato su un ramo, riprese a volare e disparve in un baleno.
Bradipo stava riprendendo fiato, quando vide un’enorme formica tocandira dirigersi verso di lui con l’intenzione di fargli del male.
La formica parlò: «Sono venuta ad aiutarti. Nipote mio, sali sulle mie spalle».
Bradipo si afferrò alla formica e lesse nel suo pensiero i cattivi propositi che aveva nei suoi confronti. Perciò, appena giunsero al suolo, afferrò un bastone e la spinse via con violenza.
La formica s’inabissò da sola nel seno della terra, con un frastuono più violento di quello del tuono e disse: «Sei stato astuto, perché era mia intenzione sotterrarti assieme a me».
Così Bradipo finalmente era disceso dall’Albero.
Forse, quando il Padre delle ragazze che lui aveva violate, l’ebbe lasciato sull’Albero – forse già allora gli poteva bastare un balzo per venire giù a fare le sue «cose».
Invece, lo puoi vedere da te: è a passo di formica che Bradipo discende dagli alberi della foresta, ancor oggi. Se la formica non l’avesse «guidato» sulla via della discesa in terra, sarebbe ancora lassù – tutto preso nella sua indolenza, nella sua congenita pigrizia, nel talento proprio della sua lentezza.