Non lo rividi più vivo.
So dei suoi ultimi giorni da racconti altrui.
Saranno altri a scriverne.
Quattro anni prima, Majakovskij aveva scritto del destino di Esenin, disse che c’eravamo lasciati sfuggire un poeta, che l’avevamo abbandonato nella convinzione che «se ne occupassero i suoi amici, gli eseniani».
A casa erano rimasti i versi:
Quasi le due.
Certamente a quest’ora sei coricata.
Nella notte potessi farmi Via Lattea,
argenteo fiume Okà.Non ho fretta,
con telegrammi lampo,
non è il caso di svegliarti
e disturbarti …il mare va a ritroso
il mare va a dormire.Come suol dirsi, l’incidente è chiuso.
La barca dell’amore s’è infranta
sugli scogli della vita quotidiana.
Fra te e me i conti tornano
ed è vano elencare
guai, offese e reciproci affanni.
Si uccise con un colpo di revolver, come l’Ivan Nov nel film Non nato per il danaro. Nel caricatore c’era una sola pallottola. Non ci fu un amico abbastanza premuroso da togliere via quella pallottola, e da andare a trovare il poeta, da telefonargli.
La casa dei Brik era luminosa. Di solito io ci andavo la sera.
Era giorno, molta luce, moltissima gente.
Seduta sui divani senza spalliere.
Persone che non si erano incontrate prima.
Aseev, Pasternak, Kataev, Oleša e gente dei giornali.
Nessuno della RAPP. Erano rimasti a casa a consultarsi, preparavano una dichiarazione.
Majakovskij giaceva con addosso una camicia celeste chiara, là sull’ottomana dai colori vivaci, vicino allo scialle messicano.
I Brik erano all’estero. Fu spedito un telegramma.
Il medico che seguì l’autopsia disse: «Guardate che cervello grande, che circonvoluzioni! Quanto è più interessante del cervello del celebre professore V. F.! Evidentemente la forma del cervello non è ancora decisiva».
Giacque nell’Unione degli scrittori. La bara era troppo piccola, si vedevano le scarpe solidamente ferrate.
Fuori era la primavera, un cielo da Žukovskij.
Non aveva inteso morire. A casa aveva altre paia di scarpe rinforzate col ferro.
Sopra alla bara, la parete inclinata d’uno schermo nero. Intorno, fari d’automobile.
La folla si riversava dalla Krasnaja Presnja, passava davanti alla bara, ridiscendeva verso l’Arbàt.
La città passava dinanzi al poeta: c’era chi portava con sé i figli, sollevavano i bambini, dicevano loro: «Questo è Majakovskij».
La folla invase la via Vorovskij.
Portò via la bara Michail Kol’còv. Lasciò la macchina, si distaccò dalla folla. La gente che accompagnava il poeta si disperse.
Vladimir morì dopo aver scritto una lettera al «Compagno Governo».
Morì circondando la propria morte di segnali luminosi, come il luogo di una catastrofe, dopo aver spiegato come perisce la barca dell’amore, come perisce un uomo, non per un amore infelice ma perché ha cessato di amare.
Ecco qui terminato l’elenco di guai, offese e affanni.
È rimasto il poeta, sono rimasti i libri.
La storia accetta la vita vissuta e l’amore che ci è necessario.
La storia accetta le parole di Majakovskij:
Conosco la forza delle parole,
conosco delle parole il suono a martello.
Non sono di quelle a cui applaude il palco.
Sono parole per cui le bare si slanciano
a camminare sui loro quattro piedini di quercia.
Succede che le buttino via senza stamparle senza pubblicarle.
Ma la parola galoppa con le cinghie tese,
fa risuonare i secoli e i treni strisciano
a leccare le mani callose della poesia.
(Šklovskji, Majakovskij)