Credo che per Hegel, tutto sia sempre là, tutta la storia è sempre attualmente presente, in modo verticale. Altrimenti sarebbe una storiella puerile. E ciò di cui si tratta con il sapere assoluto, che in effetti sta lì, fin dai primi idioti di Neanderthal, è che il discorso si richiuda su se stesso, che sia del tutto d’accordo con se stesso, che tutto quello che può essere espresso nel discorso sia coerente e giustificato.
È qui che vi fermo. Andiamo passo passo, ma è meglio andare piano per andare lontano. Questo ci porterà a ciò che cerchiamo – al senso, all’originalità di ciò che Freud porta rispetto a Hegel.
Nella prospettiva hegeliana, il discorso compiuto – indubbiamente, a partire dal momento in cui il discorso sarà giunto al suo compimento, non ci sarà più bisogno di parlare: le chiamano le fasi post-rivoluzionarie, ma lasciamo andare – il discorso compiuto, incarnazione del sapere assoluto, è lo strumento del potere, lo scettro e la proprietà di coloro che sanno. Niente implica che tutti vi partecipino. Quando i dotti – è più che un mito, è il senso stesso del progresso del simbolo – sono arrivati a chiudere il discorso umano, allora lo possiedono, e a quelli che non lo hanno, i bravi, i gentili, i libidinosi, non rimane che fare del jazz, ballare, divertirsi. Io lo chiamo padronanza assoluta.
Nel sapere assoluto, resta nell’uomo un’ultima divisione, un’ultima separazione, ontologica, per così dire. Hegel ha superato un certo individualismo religioso che fonda l’esistenza dell’individuo nel suo tête-à-tête unico con Dio mostrando che la realtà, per così dire, di ciascun umano è nell’essere dell’altro. In fin dei conti c’è alienazione reciproca e, insisto, irriducibile, senza uscita.
Che cosa c’è di più stupido del padrone primitivo? È un vero padrone. Abbiamo vissuto abbastanza a lungo per accorgerci dei risultati che dà, quando prende gli uomini, l’aspirazione alla padronanza. L’abbiamo visto durante la guerra, l’errore politico di chi ha l’ideologia di credersi padrone, di credere che basti allungare la mano per prendere. I Tedeschi avanzano su Tolone per prendere la flotta – vera storia da padroni.
La padronanza è interamente dal lato del servo, perché lui elabora la sua padronanza contro il padrone. Ora, questa alienazione reciproca, sì, deve durare fino alla fine. Immaginate quanto sarà poca cosa il discorso elaborato per chi si diverte al caffè dell’angolo con il jazz. E a qual punto i padroni vorrebbero andar con loro. E gli altri, al contrario, a considerarsi dei miserabili, delle nullità, e a pensare – com’è fortunato il padrone nel suo godimento di padrone! – mentre invece, beninteso, sarà totalmente frustrato. Credo proprio che Hegel ci porti qui, all’ultimo limite.
Hegel è ai limiti dell’antropologia. Freud ne è uscito. La sua scoperta è che l’uomo non è del tutto nell’uomo. Freud non è un umanista. Cercherò di spiegarvi perché.
Parliamo di cose elementari. Freud è un medico, ma è nato circa un secolo più tardi di Hegel e nell’intervallo sono capitate molte cose che non hanno mancato di avere delle incidenze sul senso che si può dare alla parola «medico». Freud non è un medico come Esculapio, Ippocrate o san Luca. È un medico, insomma, che non è più un medico, così come noi stessi siamo un tipo di medici che non sono assolutamente più nella tradizione di ciò che è sempre stato il medico per l’uomo.
È molto buffo, comporta un’incoerenza veramente strana che si dica – l’uomo ha un corpo. Per noi ha un senso, è anzi probabile che abbia sempre avuto un senso, ma più per noi che per chiunque altro, perché, con Hegel e senza saperlo, dato che tutti sono hegeliani senza saperlo, abbiamo spinto estremamente lontano l’identificazione dell’uomo col suo sapere, che è un sapere accumulato.
È proprio strano che esso sia localizzato in un corpo, una stranezza che non si può minimizzare, malgrado si passi il tempo a batter le ali vantandosi di aver reinventato l’unità umana, che quell’idiota di Cartesio aveva ritagliato.
È del tutto inutile fare grandi dichiarazioni sul ritorno all’unità dell’essere umano, all’anima come forma del corpo, a colpi di tomismo e di aristotelismo. La divisione è fatta una volta per tutte. Ecco perché i medici dei giorni nostri non sono i medici di una volta, tranne quelli che passano il tempo a figurarsi temperamenti, costituzioni e altre cose del genere. Il medico di fronte al corpo ha l’atteggiamento di un tale che smonta una macchina. Si facciano pure dichiarazioni di principio, questo atteggiamento è radicale. Freud è partito da qui, questo era il suo ideale – fare dell’anatomia patologica, della fisiologia anatomica, scoprire a cosa serve questo apparecchietto complicato che è lì incarnato nel sistema nervoso.
Questa prospettiva, che scompone l’unità del vivente, ha certo qualcosa di disturbante, di scandaloso, e tutta una direzione di pensiero tenta di opporvisi – penso al gestaltismo e altre elaborazioni teoriche di buona volontà, che vorrebbero far ritorno alla benevolenza della natura e all’armonia prestabilita.
Naturalmente, niente prova che il corpo sia una macchina; ci sono anzi tutte le probabilità che non sia affatto così. Ma il problema non sta qui. L’importante, è che sia così che qualcuno ha affrontato il problema. L’ho nominato poco fa il soggetto in questione, è Cartesio. Non era solo, poiché ci son volute parecchie cose per poter cominciare a pensare il corpo come una macchina. In particolare, c’è voluto che ce ne fosse una che, non solo funzionasse da sola, ma che incarnasse in modo sorprendente qualcosa di completamente umano.
Certo, nel momento in cui accadeva, nessuno se ne rendeva conto. Ma oggi siamo a una certa distanza. Il fenomeno si situa abbastanza prima di Hegel. Hegel, che in tutto questo aveva una ben piccola parte, è forse l’ultimo rappresentante di una certa antropologia classica, ma in fondo, in rapporto a Cartesio, è quasi indietro.
La macchina di cui parlo è l’orologio. È raro, ai giorni nostri, che un uomo si meravigli a lungo di cos’è un orologio. Louis Aragon ne parla nel Paesano di Parigi in termini quali solo un poeta può trovare per salutare una cosa nel suo carattere di miracolo, quella cosa che, dice, persegue un’ipotesi umana, che l’uomo ci sia o non ci sia.
C’erano dunque degli orologi. Non erano ancora così miracolosi: si è dovuti attendere a lungo dopo il Discorso del metodo perché ce ne fosse uno vero, uno buono, con pendolo, quello di Huyghens. Ce n’erano già che andavano a peso e che, anno più anno meno, incarnavano tuttavia la misura del tempo. Evidentemente, è stato necessario percorrere un certo spazio nella storia per renderci conto a qual punto è essenziale al nostro esserci, come si dice, sapere il tempo. Si ha un bel dire che questo tempo non è forse il vero, si svolge però nell’orologio, che funziona da solo come un grande. Non vi consiglierò mai abbastanza la lettura di un libro di Cartesio che si chiama Sull’uomo. Questo Uomo non vi costerà molto, non è un’opera delle più stimate, vi costerà meno del Discorso sul metodo, caro ai dentisti. Sfogliatelo, e controllate che cosa cerca Cartesio nell’uomo: l’orologio.
Questa macchina non è ciò che si pensa volgarmente. Non è puramente e semplicemente il contrario del vivente, il simulacro del vivente. Che essa sia stata fatta per incarnare un qualcosa che si chiama il tempo e che è il mistero dei misteri, deve metterci sulla strada. Che cosa è in gioco nella macchina? Che un certo Pascal alla stessa epoca si sia messo a costruire una macchina, ancora molto modesta, per fare delle addizioni, indica che la macchina è legata a funzioni radicalmente umane. Non è un semplice artificio, come si potrebbe dire di sedie, tavoli e altri oggetti più o meno simbolici tra i quali abitiamo senza accorgerci che sono il nostro stesso ritratto. Le macchine sono un’altra cosa. Che va ben più lontano verso ciò che noi siamo realmente di quanto non suppongano quelli stessi che le costruiscono.
Hegel stesso si è creduto una specie di incarnazione dello Spirito nel suo tempo, e ha sognato che Napoleone fosse la Weltseele, l’anima del mondo, l’altro polo, più femminile, più carnale, della potenza. Ebbene, ambedue si sono distinti per avere completamente misconosciuto l’importanza di quel fenomeno che cominciava a spuntare ai loro tempi – la macchina a vapore. Eppure Watt non era poi così lontano, e c’erano già delle cose che funzionavano da sole, delle piccole bombe nelle miniere.
La macchina incarna la più radicale attività simbolica dell’uomo, ed era necessaria perché le questioni si ponessero – in mezzo a tutto ciò può darsi che non lo notiate – al livello stesso a cui le poniamo noi.
C’è in Freud una cosa di cui si parla e di cui non si parla in Hegel, è l’energia. Ecco la preoccupazione maggiore, la preoccupazione che domina. […]
Fra Hegel e Freud c’è l’avvento del mondo della macchina.
L’energia è una nozione che può apparire solo nel momento in cui ci sono le macchine. Non che l’energia non ci sia da sempre. Però la gente che aveva degli schiavi non si è mai accorta che si potevano stabilire delle equazioni fra il prezzo del loro nutrimento e ciò che facevano nei latifundia. Non si trova nessun esempio di calcolo energetico nell’utilizzazione degli schiavi. Non si è mai stabilita la minima equazione quanto al loro rendimento. Catone non l’ha mai fatto. Ci sono volute le macchine per accorgersi che bisogna nutrirle. Di più, che bisognava farne la manutenzione. E perché? Perché tendono a rovinarsi. Anche gli schiavi, ma non ci si pensa, si crede che sia naturale che invecchino e crepino. E più in là ci si è accorti, cosa mai pensata prima, che gli esseri viventi si mantengono da soli, in altri termini: che rappresentano degli omeostati.
A partire da qui, cominciate a veder spuntare la biologia moderna, che ha come caratteristica di non far intervenire mai nozioni riguardo alla vita. Il pensiero vitalistico è estraneo alla biologia. Il fondatore della biologia moderna, Bichat, morto prematuramente e la cui statua orna la vecchia facoltà di medicina, l’ha espresso nel modo più chiaro. Era un personaggio che aveva conservato una vaga credenza in Dio, ma era estremamente lucido – sapeva che si era entrati in un nuovo periodo e che ormai la vita si sarebbe definita in rapporto alla morte. Ciò converge con quello che sto spiegandovi, il carattere decisivo del riferimento alla macchina per quanto riguarda la fondazione della biologia.
I biologi credono di consacrarsi allo studio della vita. Non si capisce perché. Fino a nuovo ordine, i loro concetti fondamentali dipendono da un’origine che non ha niente a che fare col fenomeno della vita, che nella sua essenza resta completamente impenetrabile. Il fenomeno della vita continua a sfuggirci, checché si faccia e malgrado le reiterate riaffermazioni che ci stiamo avvicinando sempre più. I concetti biologici le restano totalmente inadeguati, il che non impedisce che conservino tutto il loro valore. […]
La biologia freudiana non ha niente a che vedere con la biologia. Si tratta di una manipolazione di simboli per risolvere questioni energetiche, come lo rivela il riferimento omeostatico, che permette di caratterizzare come tale non solo l’essere vivente, ma anche il funzionamento dei suoi apparati principali. È attorno a questa questione che gira tutta la discussione di Freud – energeticamente, che cos’è lo psichismo? Sta qui l’originalità di ciò che in lui si chiama pensiero biologico. Non era biologo, non più di chiunque fra noi, ma ha messo l’accento sulla funzione energetica lungo tutta la sua opera.
Se arriviamo a rivelare il senso di questo mito energetico, vedremo uscire ciò che era, fin dall’origine e senza che lo si comprendesse, implicato nella metafora del corpo umano come macchina. Vediamo manifestarsi qui un certo aldilà del riferimento interumano, che propriamente è l’aldilà simbolico. Ecco ciò che studieremo e potremo allora sicuramente comprendere quella specie di aurora che è l’esperienza freudiana.
Freud è partito da una concezione del sistema nervoso secondo la quale esso tende sempre a ritornare a un punto di equilibrio. È partito da qui, perché allora era una necessità che si imponeva allo spirito di ogni medico di quell’era scientifica che si occupasse del corpo umano.
Freud ha tentato di edificare su questa base una teoria del funzionamento del sistema nervoso, mostrando che il cervello opera come organo-tampone fra l’uomo e la realtà, come organo omeostatico. E allora va a finire, a inciampare, sul sogno. Si accorge che il cervello è una macchina per sognare. Ed è nella macchina per sognare che ritrova ciò che c’era da sempre e di cui non ci si era accorti, cioè che è a livello del più organico e del più semplice, del più immediato e del meno maneggiabile, a livello del più inconscio, che si rivelano e si sviluppano interamente il senso e la parola.
Da qui la rivoluzione completa del suo pensiero e il passaggio all’Interpretazione dei sogni. Si dice che egli abbandona una prospettiva fisiologizzante per una prospettiva psicologizzante. Non si tratta di questo. Egli scopre il funzionamento del simbolo come tale, la manifestazione del simbolo allo stato dialettico, allo stato semantico, nei suoi spostamenti, bisticci, giochi di parole, sciocchezze che funzionano da sole nella macchina per sognare. E deve prendere partito su questa scoperta, accettarla o disconoscerla, come hanno fatto tutti gli altri che le erano altrettanto vicini.
È una svolta tale che non ha capito affatto cosa gli capitava. Gli ci sono voluti ancora vent’anni di un’esistenza già molto avanzata al momento di questa scoperta, per poter ritornare sulle sue premesse e cercare di ritrovare quello che vuol dire sul piano energetico. Ecco ciò che gli ha imposto l’elaborazione nuova dell’aldilà del principio del piacere e dell’istinto di morte.
(Lacan, Il Seminario: 2)