Primo Quadro … a carrozza u purtaje ind’a nu chiazzulle

Nussbaum-piazza

E tire nu jurne, tire n’ate jurn – fennette che i cavalle purtarane a carrozza ind’a nu chiazzulle arò ce steve tanta gente che chiacchierava…

Il Capocomico dice che nei primi due versi del poema di Parmenide, c’è già tutto Lacan … ma che qui non c’entra nessun lacaniano. È davvero strano il nostro Capocomico; dice che bisogna «offendere» i cristiani per ritrovare il proprio cristo faccia a faccia. Senza scuse di mezzo, senza catechismi, senza giri di parole. Dice che, se mai Lacan ha creduto di aver fatto una scoperta originale, è solo perché non ha mai letto questi due versi, se non nella goffa traduzione che circola nei libri dei «filosofi».

State a sentire! – dice ridacchiando. – Sentite un po’ come li «traducono» i Tedeschi, questi due versi. State a sentire che fine fanno in bocca ai novelli «Greci»! Ne fanno spuntare una «platonacea», una bella frase a effetto, uno di quei «detti» che essi stimano «poetici» dacché li hanno anestetizzati con le loro categorie. E allora eccoli a dire che le cavalle avrebbero tradotto il Poeta «sull’inclita via della dea». Ma quale? Ma dove?
Ah, no – essi ti dicono che non è il caso di fermarsi a pesare le parole, perché tanto il nocciolo della questione, della loro questione s’intende, sta tutto lì, chiuso nell’enigma dell’Essere. Che importanza può avere un attributo della via per cui viaggiano le cavalle?
Qualcuno, senza farsi tanti scrupoli, addirittura traduce: «sulla via Sacra». E buonanotte al secchio e … addio a Parmenide.

Tanto per cominciare, una è la Macchina in viaggio – ma a macchinarla sono sempre in due: dio e Mefistofele, direbbe Goethe. Ma basterebbe dire: il seno e la bocca. Due dea-che-allattamacchine per riprodurre l’Unico Eterno Allattamento. Per riprodurlo, e qui sta il bello!, non più sulla Via Lattea, ché quel «rango» noi tutti l’abbiamo perduto, bensì nel solo punto di convergenza tra il capezzolo della mamma e le labbra del poppante – il solo luogo possibile per rivedere un miraggio (comprendi l’apparizione sulla soglia di Matelda?), e insieme per ritrovare il principio di un Racconto, non attico, non platonico, non tedesco né europeo, ma focese, eleatico, stilnovistico e perciò, sia pure alla lontana, partenopeo.

Noi, ballerine alle prime armi, non ci capiamo granché delle stramberie che dice, specie quando filosofeggia – il nostro vecchio Capocomico. Siamo qui solo per imparare a danzare. Ma lui insiste a dire che, danzando, dovremo tutt’a un tratto «scendere dalle stelle»: da che eravamo corpi solo «dalla cintola in su», da che eravamo corpi «veggenti» in volo sopra i mondi, dice che danzando dovremo atterrare su una via trafficata, dice che dovremo incappare in un ingorgo chiassoso, niente di sacro, dice: anzi, se proprio vogliamo, è qualcosa di «demonico» che afferra il nostro corpo, e minaccia di divorarlo. Perciò – per difenderci dalle grinfie della sua potenza tellurica – dice che danzeremo come uccelli sui trampoli. Appena sfiorando la terra con la punta dei piedi.
Perché i nostri corpi, intanto, le cavalle in carrozza l’hanno trasportato su una pubblica via, tra le voci, le mille confuse voci di una Piazza. I nostri corpi non abitano più là – sulle nevose montagne del Caucaso. Adesso abitano, quale che sia la «città», in via dell’Orco Polifemo.

Dovremo aspettare che ce lo venga a dire Freud – che l’Es, l’Inconscio, parla, e che è Lui l’Ingannatore (decidete voi: dio o Mefistofele? il Gatto o la Volpe?) che ci trascina (carrozza e cavalle) nella trama dei suoi «si dice» per tutto il tempo che siamo «paralitici»? Chi altri mai ci ha «nutriti» sin dalla prima poppata? E chi, avrebbe detto un partenopeo di quei tempi, chi se non la nostra stessa Physis, ci ha guidati dalle «frasi» nitrite dalle cavalle, a grandi passi, fin qui dove si parla il linguaggio umano?
È Lei che ci ha portati in giro, Lei che, in braccio o in carrozzella, ci ha trasportati fin qui – sulla pubblica via dove ciascuno di noi dice: ecco, questo sono io! E lo dice solo quando si rivede, non già sulla Via Lattea – ché quel «tempo» è per sempre perduto – ma qui, nel Magritte-doppio-uomosolo punto di convergenza che un miraggio sa ricreare, a modo suo, tra due macchine già «svezzate», già cadute in preda a un «celibato» (è passato di qui Apollo e ci ha «segati»).

Insomma, se abbiamo capito bene, quello che il Capocomico ci chiede di danzare è la fine della Danza che danzavamo lassù, in braccio alla mamma. La fine della Parola nel momento e nell’atto stesso in cui la Parola precipita, assieme al balbettio del Veggente Tiresia, nel narcisismo congenito alla Chiacchiera Umana, e cessando di farfugliare, di sé dice che sta solo ora cominciando a parlare. Ora che parla la «volgare eloquenza».
Insomma: quando si dà inizio alle danze, dovunque e comunque siano danzate, è la fine della Danza (quando le aquile non volano più, avrebbe detto Zarathustra, se si fosse preso un po’ meno sul serio), è l’addio al Corpo Danzante che si dovrebbe celebrare.

E forse lo si farebbe, se non fosse che quell’addio, tutt’altro che «sacro» o «divino», è quanto per un vecchio orfico o pitagorico di scuola italica ci potesse essere di più «demonico».
Capisci? venire qui – sulla pubblica piazza – a fare il funambolo sospeso nel vuoto dei segni e delle parole! La Piazza è la Caverna di Polifemo.
Il Capocomico insiste: della via (ὀδός) dove lo trascinano le cavalle Parmenide ci dà due soli indizi: dice che è «chiassosa» (πολύφημος) e, insieme, è la via di un, o del, «demone» (δαίμων).

Recita il frammento 119 di Eraclito: ἦθος ἀνθρώπω δαίμων – il demone di ciascun uomo, la sua «eccezione», la sua «singolarità», in nient’altro consisterebbe, a detta di Eraclito, che nel suo ἦθος, «ethos». Ma cosa dobbiamo noi intendere per ἦθος?
Il dizionario etimologico ci ricorda che ἦθος sta per σφήθος, «sphethos» – e che è dunque composto di ή (σφή) + θος esattamente come il sanscrito sva-dhà: composto cioè dal pronome o aggettivo riflessivo di terza persona (sé, suo, suo proprio) e dal suffisso (θος, dhà) = «posto, posizione». Dalla stessa radice il latino ha coniato il verbo suesco (essere «consueto», «assuefatto» alla frequentazione del solito «posto», ossia di quel «posto» a cui si è portati da una ripetizione). E passa e spassa sott’a stu balcone …

Picasso-serenata

L’ἦθος è dunque la tana di ogni sui sibi se se – il rifugio in cui s’imbosca ogni «animale selvatico». A «guidarlo» alla tana è il suo «demone»: solo nella tana il suo «demone» ha qualcosa da fargli «vedere». L’ἦθος (la tana) è il «luogo mostruoso» in cui ciascun «cucciolo umano» è illuminato dal suo «demone» sì che possa «vedere» il mondo che le voci del Discorso Umano intorno a lui «mostrano». Perché in luogo della tana subentri la stalla, bisogna aspettare che l’animale sia addomesticato dal Discorso Umano: solo allora ἦθος prenderà il senso di luogo stabile, stabilità «culturale»: donde etica, usi e costumi, e quant’altro di «solito», di ripetitivo, di abituale, si vuole. Ed è allora, soltanto allora che si arriverà a far dire a Eraclito quello che non ha detto: che l’«etica» è quanto di «divino» sarebbe accordato all’uomo, quando invece si tratta solo di una banale, insensata, ripetizione.

Il «potere» della ripetizione è il potere dell’inconscio, dell’arte, del linguaggio: così scrive Deleuze. Ciò che si ripete è lo spostamento del «nessun dove», che è il solo posto dove un demone può scavare la Tana, trascinandola da un «qui e ora» all’altro. Ciò che si ottiene è un suo subdolo «trascinamento» nel Campo dei Miracoli – là dove un solo Nessuno a nessuno identico è conteso da due marpioni, quali il Gatto e la Volpe.
È nel campo della Parola che avviene il miracolo: da un solo Nessuno due «contendenti»: l’io e il Discorso Umano. Così divisi, il Mandriano e la Tessitrice, divisi da un fiume di parole si trovano costretti a rincorrersi tra le stelle, senza poter mai ricomporsi nel seno-bocca«nessun dove» da cui si sono disgiunti, e che comunque rimane il solo «posto» in cui possono incontrarsi: tra il capezzolo del seno e la bocca che allatta.

Una volta disgiunte, le due macchine ricadono ciascuna nella sua «solita» solitudine. Entrambe a fare una certa «diavoleria» per sedurre o ingannare l’altra.
È così: è stato un «doppio» demone, ora nella parte del Gatto, ora della Volpe, a suggerire a Nessuno dove seppellire i cinque zecchini d’oro avuti in dote da Mangiafoco! Solo se li seminerai nel Campo della Parola, potrai moltiplicarli per tutti i miracoli di cui la Parola pubblicamente si vanta.

Oh, se non ci fosse un piacere a ripetere la vanità di pubblicarsi, a ripetere quella prima esibizione del proprio corpo in cammino sui trampoli – non so dire da dove il Teatro, da dove la nostalgia della Danza con cui torniamo ogni volta a prenderci in giro per come siamo ridotti male … ora che sappiamo prosaicamente «camminare» in mezzo alla Gente.
Oh, se non ci fossero le ballerine a rinnovare la danza antica, se non ci fossero le gru e le cicogne a portare quaggiù bimbi e poeti di carne fresca, da dove pioverebbe mai un’altra piuma iperborea? E, mi domando, il mio «demone» sarebbe stato così cieco da scavarsi una tana sulla Pubblica Piazza, se attorno alla sua carrozza non fossero spuntate dal niente le Figlie del Sole?
È qui, sulla Pubblica Piazza, nella «volgare eloquenza» di una lingua, che il mio «demone», dacché le ha «viste», s’è messo di casa. Si è accasato precisamente in via Polifemo numero 13 (scusate la scaramanzia, ma tanti furono Ulisse e i suoi compari di sventura).