Jung – La psiche oscura e l’inconscio collettivo

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In aderenza alla propria storia, la psicologia che all’inizio era metafisica, poi studio delle funzioni sensoriali, più tardi studio della coscienza e delle sue funzioni, ha identificato il proprio soggetto con la coscienza e i contenuti di coscienza, ignorando completamente l’esistenza di una psiche non cosciente.
Benché diversi filosofi, come Leibniz, Kant e Schelling, avessero chiaramente accennato al problema della psiche oscura, fu un medico che, in base alle sue esperienze storico-naturali e mediche si sentì indotto a rilevare come l’inconscio costituisse una base essenziale della psiche. Questi fu C. G. Carus, il grande predecessore di Ed. von Hartmann.

Nei tempi più recenti fu di nuovo la psicologia medica ad accostarsi senza presupposti filosofici al problema dell’inconscio. Da numerose ricerche particolari risultò chiaramente che la psicopatologia delle nevrosi e di molte psicosi non poteva fare a meno dell’ipotesi di una parte oscura dell’anima, precisamente dell’inconscio.
Identico è il caso per la psicologia del sogno che è una vera «terra di mezzo» fra la psicologia normale e quella patologica. Sia nel sogno, sia nei prodotti delle psicosi si sono riscontrate innumerevoli connessioni che non trovano confronto se non nelle associazioni d’idee mitologiche (o, eventualmente, in certi prodotti poetici che spesso rivelano influssi non sempre coscienti dei miti).

Se un esame scrupoloso di tutti i singoli casi avesse portato al risultato che nella loro maggioranza si trattasse di cognizioni dimenticate, il medico non si sarebbe presa la Tanguy-preferenzabriga di intraprendere indagini estensive sui parallelismi individuali e collettivi.
In realtà però i mitologemi tipici sono stati osservati proprio nei casi di individui presso cui cognizioni di quel genere erano assolutamente escluse e per i quali anche erano impossibili le derivazioni indirette da idee religiose eventualmente conosciute o da metafore del linguaggio parlato.
Simili risultati hanno reso necessaria la supposizione che si trattasse di reviviscenze «autoctone» indipendenti da ogni tradizione e, nello stesso tempo, dell’esistenza di elementi strutturali mito-poetici della psiche inconscia.

Nel caso di questi prodotti non si tratta mai (o perlomeno molto di rado) di miti formati, bensì piuttosto di elementi mitici che per la loro natura tipica si possono chiamare «motivi», «immagini arcaiche», «tipi» o (come li ho chiamati io) «archetipi». L’archetipo del fanciullo è l’esempio appropriato.
Oggi si può senz’altro enunciare la tesi che gli archetipi compaiono nei miti e nelle favole, come pure nel sogno e nei prodotti di fantasia psicotici. Il loro veicolo è, ad ogni modo, nel primo caso un complesso di significati coerente e ordinato che si può comprendere, mentre nel secondo caso è una sequela perlopiù incomprensibile e irrazionale di immagini, che va definita delirante ma che tuttavia non è priva di un latente contenuto di significato.

Nell’individuo gli archetipi si presentano come involontarie manifestazioni di processi inconsci, la cui esistenza e il cui significato possono essere constatati soltanto indirettamente; nel mito invece si tratta di formazioni tradizionali di un’età perlopiù incalcolabile. Queste risalgono a un mondo primitivo contraddistinto da presupposti e condizioni che noi possiamo osservare presso i popoli primitivi attuali.
I miti, in questo grado, costituiscono normalmente una dottrina della tribù, che si tramanda, per via di narrazione, di generazione in generazione.

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La forma spirituale primitiva si distingue da quella incivilita soprattutto per il fatto che in essa la coscienza è meno sviluppata dal lato estensione e dal lato intensità. Precisamente funzioni come il pensare e il volere ecc., non sono ancora differenziate, bensì pre-coscienti, cosa che per esempio nel pensare si manifesta nel fatto che non si pensa coscientemente, bensì i pensieri semplicemente si presentano.
Il primitivo non può affermare che egli pensa, solo che «in lui si pensa». La spontaneità dell’atto cogitativo non dipende casualmente dalla sua coscienza, bensì dal suo inconscio. Ugualmente, egli è incapace di un cosciente sforzo di volontà e deve porsi prima, o venir posto, nello «stato d’animo primitivo»: di qui i suoi rites d’entrée et de sortie.

La sua coscienza è minacciata da un inconscio strapotente e da questo deriva la sua paura d’influssi magici che potrebbero intralciare le sue intenzioni, ed è perciò che egli si trova circondato da potenze sconosciute alle quali in qualche maniera deve adattarsi. Dato il cronico stato crepuscolare della sua coscienza, spesso è quasi impossibile stabilire se egli ha soltanto sognato una cosa o l’ha realmente vissuta.
L’auto-manifestazione dell’inconscio, coi suoi archetipi, sorpassa dovunque i limiti della coscienza e il mitico mondo degli antenati, per esempio l’aljira o bugari degli Australiani ha un’esistenza equivalente se non superiore a quella della natura materiale.

Non è il mondo a noi noto che parla dal suo inconscio, bensì l’ignoto mondo della psiche di cui noi sappiamo che essa copia soltanto in parte il mondo empirico, mentre d’altra parte essa lo forma anche, in virtù del presupposto psichico. L’archetipo non proviene ali-ai-piedidai fatti fisici, esso esprime piuttosto come l’anima sente il fatto fisico: e l’anima si comporta perlopiù in modo così autonomo, che essa nega la realtà palpabile e giunge ad affermazioni che sono in aperto contrasto coi fatti.

Lo spirito primitivo non inventa i miti: li vive. I miti sono, originariamente, rivelazioni dell’anima pre-cosciente, involontarie testimonianze di processi psichici inconsci e tutt’altro che allegorie di processi fisici.
Allegorie di questo genere non sarebbero che giochi oziosi di un intelletto non scientifico. I miti, invece, hanno un significato vitale. Essi non esprimono soltanto, ma sono essi stessi a costituire la vita psichica della tribù primitiva che si disgrega e tramonta, non appena viene a perdere la sua eredità mitica, come un uomo che perda la propria anima.

La mitologia di una tribù è la sua religione viva e la perdita di questa è sempre e ovunque, anche presso l’uomo incivilito, una catastrofe morale. La religione però è un rapporto vivo con processi psichici che non dipendono dalla coscienza, ma si svolgono, di là da questa, nell’oscurità dello sfondo psichico.
Molti di questi processi sorgono, è vero, dietro a un’occasione data dalla coscienza, ma nessuno per un arbitrio cosciente. Altri sembrano nascere spontaneamente, vale a dire senza cause che si possano riconoscere e dimostrare nella coscienza.

La psicologia moderna considera i prodotti dell’attività fantastica inconscia come auto-raffigurazioni di processi dell’inconscio o testimonianze della psiche inconscia su se stessa.
Si distinguono due categorie di simili prodotti.
Primo: fantasie (inclusi in esse i sogni) di carattere personale che risalgono indubbiamente ad esperienze, dimenticanze, rimozioni personali e perciò si possono spiegare interamente in base all’anamnesi individuale.
Secondo: fantasie (inclusi in esse i sogni) di carattere non personale che quindi non si possono far risalire alla «preistoria» individuale, né spiegare da acquisizioni individuali. L’analogia più stretta per questa seconda categoria di formazioni fantastiche si trova nei tipi mitologici.

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È perciò da supporre che esse corrispondano a certi elementi strutturali collettivi (e non personali) dell’anima umana in generale e, come gli elementi morfologici del corpo umano, si trasmettano in via ereditaria.
Benché la tradizione e la diffusione per migrazione abbiano la loro parte, vi sono tuttavia, come si è detto sopra, casi molto numerosi che non si possono spiegare con una derivazione di questo genere, ma ci costringono ad ammettere un rivivere «autoctono». Tali casi sono così frequenti che non si può fare a meno di ammettere l’esistenza di uno strato-base psichico-collettivo. Io ho denominato questo strato l’inconscio collettivo.

I prodotti di questa seconda categoria somigliano talmente ai tipi strutturali dei miti e delle favole, che li si deve considerare affini ad essi. È dunque assolutamente possibile che ambedue, tipi mitologici e tipi individuali, nascano da condizioni molto simili.
Come si è detto, i prodotti di fantasia della seconda categoria (come del resto anche quelli della prima) sorgono in uno stato di degradata intensità di coscienza (in sogni, deliri, allucinazioni, visioni, ecc.). In simili stati cessa quell’inibizione che la concentrazione di coscienza esercita sui fatti inconsci, e, di conseguenza, il materiale fino allora inconscio, precipita, come attraverso porte laterali, nello spazio della coscienza. Questa maniera di prodursi costituisce la regola.

(Jung, La psicologia dell’archetipo «fanciullo», in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia)