Due volte, all’inizio del quarto libro, Erodoto registra dei «si dice» e, la seconda, lo interpreta con buon senso.
Al capitolo 7, dopo aver riferito la suddivisione del regno scitico unitario di Colaxais fra i suoi tre figli, suddivisione operata, in base ai calcoli degli interessati, mille anni prima della campagna di Dario, egli conclude il racconto sulle origini con un rilievo inatteso che non riguarda le terre degli Sciti o quelle immediatamente successive, ma il confine del mondo:
Siccome il paese era vasto, Colaxais formò tre regni a vantaggio dei propri figli e assegnò un’estensione maggiore a quello dov’era conservato l’oro. Quanto a quello che si trova, verso Nord, al di sopra dei popoli confinanti col loro paese, [gli Sciti] dicono che vi è impossibile sia vedere sia muoversi oltre a causa delle piume che vi si trovano sparse: la terra infatti, come l’aria, è piena di piume che impediscono la vista.
Più avanti, dopo aver caratterizzato i popoli, talora strani, anzi mostruosi, che abitano oltre gli Issedoni, lo storico si sofferma a lungo sugli effetti, comuni a tutti i paesi di cui ha appena parlato, del grande freddo e dei lunghi inverni.
In particolare egli dice che l’inverno di otto mesi non assomiglia «agli inverni che hanno luogo negli altri paesi»: quello che può cadere d’acqua in questa stagione non merita che se ne parli, mentre, nel corso delle estati, estati d’altronde fredde, non smette mai di piovere.
Anche l’epoca dei tuoni è sfasata in rapporto a quel che si conosce «altrove», ossia in Grecia: è in estate, non in primavera o in autunno, che il tuono si fa sentire, ma fortemente; e soprattutto, «se il tuono si produce in inverno, è considerato come un prodigio».
Dopo qualche parola sugli effetti dannosi che le basse temperature provocano agli equini, dopo una breve digressione consacrata alle giumente dell’Elide, Erodoto conclude questo piccolo trattato sul freddo tornando sulle piume iperboree, di cui offre un’interpretazione.
Riguardo alle piume di cui gli Sciti dicono che l’aria è piena e che rendono impossibile vedere e procedere nella regione estrema [= Nord] del continente, ecco qual è la mia opinione. Nelle terre situate al di sopra [= a Nord] del paese che ci interessa, nevica in continuazione e, com’è naturale, meno in estate che in inverno. Ora, chiunque abbia visto coi suoi occhi cadere una neve fitta lo sa: la neve somiglia alle piume. Proprio a causa di questo tipo d’inverno le parti del continente orientate a Nord non sono abitate ed è per immagine, a indicare la neve, che gli Sciti e i loro vicini parlano così di piume.
(Erodoto, Storie, 4: 31)
[…] Quanto alle piume del Nord, i commentatori moderni volentieri si complimentano con Erodoto per aver saputo demistificare quella che, tutto sommato, sarebbe solo una banale metafora: le piume per i fiocchi di neve. Eppure, qualche dubbio rimane, se non altro per l’esistenza di una tradizione analoga attestata sul Caucaso. Gli Abkhazi, per giustificare la bipartizione mitica del loro paese, ricorrono pur essi alle «piume», ma – per così dire – secondo l’altitudine, e non più secondo la latitudine. Questa tradizione permette loro di comprendere perché loro stessi si trovino ad abitare le vallate mentre le montagne sono disabitate, inabitabili. Dicono: non sempre è stato così.
Gli Osseti, i Circassi e gli Abkhazi pensano che a fianco dei Narti e dei loro nemici, i Giganti, sia esistito un tempo un popolo di uomini piccoli piccoli a stento visibili fra l’erba, ma dotati di una forza straordinaria. In Ossezia, sono i Bytsentæ, «i Bcen» talvolta considerati come un ramo della famiglia di Donbettyr, il genio delle Acque.
I Circassi occidentali li chiamano Spey, i Cabardini Yesp, gli Abkhazi C’an. Una delle loro figlie, come s’è visto, gioca un ruolo importante nel ciclo dei Narti: la donna in miniatura che sposa l’eroe osseto Hæmyts e che, offesa, abbandona suo figlio o subito dopo il parto, o in condizione di feto, è della loro razza. I rapporti fra questi piccoli uomini e i Narti sono buoni. Tutt’al più, una tradizione abkhaza vuole che questa felice intesa sia stata preceduta da un periodo di ostilità del quale non si sa nulla.
I Narti sono scomparsi da questo mondo. Alcuni racconti, soprattutto osseti e circassi, narrano la loro fine in modi diversi, ma non si sono dati pensiero del destino finale dei loro alleati d’un tempo, quegli «uomini piccoli» che sono pur essi scomparsi.
Solo gli Abkhazi ne fanno il racconto commovente che qui di seguito si legge.
***
In tempi molto antichi vivevano su queste montagne dei nani appartenenti alla razza dei C’an. Vivevano di allevamento, e per se stessi e per i loro armenti avevano costruito recinti.
Era ancora il tempo felice quando non esisteva né pioggia, né neve, né vento, né freddo, e non c’era differenza tra la notte e il giorno, e il sole brillava in un cielo senza nuvole. A quelle altezze che oggi sono abitabili solo durante i tre mesi estivi, i C’an non provavano assolutamente i morsi del freddo. Essi ignoravano l’uso del ferro, non si nutrivano che di latticini forniti dal loro bestiame e di carne cruda. Attingevano l’acqua nei ruscelli che sgorgavano da sorgenti sotterranee.
A differenza dei Narti, questi montanari erano fieri e indipendenti, e non ammettevano niente che avesse l’aria di asservirli. Non sopportavano il disprezzo e volevano che li si trattasse da pari a pari.
Non conoscevano, e non volevano conoscere nessun altro che i Narti. Neanche gli esseri celesti. Concepivano tuttavia un Dio onnipotente, che abitava nelle grandi altezze. Avevano anzi nutrito un nipote o un figlio di questo dio, che era così diventato loro parente di latte.
Questa relazione con Dio, essi non l’avevano voluta. Gli erano d’altra parte superiori in intelligenza e lui aveva invece voluto scoprire il loro punto vulnerabile.
Un giorno dunque, mentre erano seduti in assemblea nei loro recinti, un piccolo bambino straordinario discese all’improvviso dal cielo in una culla d’oro [secondo altri, in un carro]. Da brava gente qual erano, l’accolsero con gioia e l’allevarono con molta cura e premura.
Il bambino crebbe, non di giorno in giorno, ma di ora in ora, e raggiunse la grandezza che si addice a un figlio di Dio.
Trascorso qualche tempo, abbandonò i parenti che l’avevano nutrito e risalì al cielo. È per questo motivo o per un altro? Sta di fatto che i C’an cominciarono ad agire come se tutto fosse loro permesso sulla terra.
Presuntuosi, indocili nei confronti di chicchessia, si abbandonavano ad atti ignobili, criminali, e non tenevano conto né di Dio né degli uomini.
«Dio – dicevano. – Ma cos’è Dio? in alto il cielo, in basso noi!».
Spinsero così l’empietà e la prepotenza così lontano da giungere a guastare le sorgenti. Fiumi impetuosi si disseccavano dacché i C’an si erano insediati sulle loro rive. Orinavano solo con la faccia rivolta al cielo, in segno di disprezzo verso Dio. Nei giorni di festa, impiegavano per il loro tiro al bersaglio i piccoli tini di legno dove conservavano il latte acido. Si mettevano nudi per tirare peti sul latte – di cui buttavano il più lontano possibile la crema che si formava in superficie nel paiolo di rame. Si spalmavano di formaggio fresco e imitavano il tuonare del cielo battendo su una pelle di bue secca.
Tutto questo irritò Dio al massimo: «Vi farò vedere io – pensò – cosa significa non voler riconoscere Dio!». E decise di infliggere loro il castigo che le loro bestemmie e la loro mancanza di fede meritavano. Non sapeva però come comportarsi.
Un giorno, mandò suo nipote, o forse suo figlio, che era stato figlio di latte dei C’an, e lo incaricò di farsi rivelare da loro stessi il mezzo del loro annientamento.
L’inviato di Dio trovò sulla terra i C’an seduti in cerchio nei loro recinti, e domandò al vegliardo, loro capo: «A quel che sembra, non avete paura di niente. Esiste al mondo una forza capace di vincervi?».
Essi risposero: «Una sola cosa può essere la fine per noi, il fuoco. Se dei fiocchi d’ovatta ricoprono tutta la terra come una neve spessa e se una scintilla vi cade, li incendia e brucia l’universo assieme a loro, allora soltanto noi cesseremo di esistere. Non temiamo altro».
Così istruito, il giovane uomo scomparve.
Qualche tempo dopo, il gran padre tre volte centenario dei C’an pascolava il suo gregge e, come sua abitudine, prendeva il fresco all’ombra proiettata dalla lunga barba di un caprone (giudicate voi cosa poteva essere un caprone munito di una barba simile!).
Improvvisamente notò che la barba del caprone, che di solito pendeva dritta fino a terra, cominciava a muoversi in modo strano. Era il vento, che Dio mandava sulla terra per la prima volta! Una grande angoscia prese il vecchio saggio e tutti i C’an avvertirono che una terribile minaccia passava su di loro.
«Figli miei – gridò il vegliardo, chiamandoli vicino a sé – abbiamo dunque allevato quest’uomo per la nostra sventura. Egli ci ha inviato la rovina. Non possiamo farci più niente, la nostra fine è giunta».
Così disse loro il vegliardo, mostrando il caprone di cui il vento nascente faceva fremere la barba sempre più forte: «No, non è per il nostro bene – soggiunse – che questo vento fa ondeggiare la barba del caprone!».
Il vento cresceva sempre più. Spingeva nuvole nere che coprivano il sole. E le nuvole cominciarono a riversare sulla terra fiocchi di ovatta bianca. Lo spessore di questa specie di neve fu ben presto di due sagene. Allora il tuono rombò e balenò la folgore. Una scintilla della folgore incendiò l’ovatta. Altri dicono che Dio mandò il fuoco e che il fuoco bruciò l’ovatta. In un attimo, tutt’intorno non rimase che cenere.
I C’an, essi pure, bruciarono. Questo il terribile destino riservato loro dall’orgoglio e dalla presunzione. Sopravvissero solo quelli che, trovandosi vicino a fiumi o a sorgenti, si buttarono in acqua. Ma anche questi non furono salvati che parzialmente, perché dopo non poterono riacquistare la loro forma umana: una volta entrati nel regno delle acque, furono trasformati in rane (le rane, infatti, erano in principio creature dotate di ragione). Qualche altro riuscì a nascondersi in caverne o nelle cavità degli alberi. Costoro furono trasformati in vermi e serpenti.
***
Il racconto abkhazo e la leggenda narrata da Erodoto sull’origine degli Sciti rispondono allo stesso interrogativo: solo che il primo formula per l’altitudine (vallate e pianure, alta montagna) quello che la tradizione scitica estende in latitudine (steppe del Sud, grande Nord). E le due risposte sono analoghe: qui le basse terre sono state date da Dio agli Abkhazi in seguito all’estinzione dei C’an, là le steppe sono diventate il dominio del figlio di Zeus e dei suoi discendenti; qui le alte montagne, un tempo fertili e abitate, sono state rese deserte da una punizione, la «neve d’ovatta» incendiata dalla folgore di Dio; là il Grande Nord è, da sempre, reso inabitabile da una fatalità, la «neve di piume».
Non si pretende, beninteso, che si tratti di una stessa e unica leggenda a due stadi di evoluzione diversi. Solamente la concordanza lascia pensare che il motivo della falsa neve, ostile all’uomo, distruttrice o inibitrice degli insediamenti umani (o di analoghe installazioni) era ai tempi di Erodoto ed è rimasto fino ai nostri giorni familiare ai popoli delle coste settentrionali e orientali del Mar Nero, che hanno tutti l’esperienza, talvolta dura ma sempre sopportabile, dell’autentica neve d’acqua.
Lascia di conseguenza pensare che le piume del cap. 7 di Erodoto, anche se il Greco ha ceduto alla tentazione di razionalizzarle, costituiscono, scrupolosamente trasmessa, una rappresentazione mitica dei suoi informatori e non, come egli crede, una metafora insipida.
Lascia infine pensare che Erodoto, siccome ha voluto smitizzare queste piume e farle rientrare nell’ordine naturale, ha trascurato qualche racconto drammatico sull’origine – origine dell’inabitabile – che equilibrava il racconto sull’origine – origine del popolamento scitico – che egli al contrario ha sviluppato.
Il racconto abkhazo dà un’idea di quello che poteva essere un racconto di questo genere: piume e ovatta sono egualmente combustibili.
Il racconto abkhazo è quindi più ricco, più immaginoso, del «fatto» che Erodoto tratteggia e vuole spiegare secondo la ragione: le piume del Grande Nord agiscono da sé, attraverso quelle specie di cuscini con cui chiudono gli occhi e impediscono le gambe. All’analogo fastidio che dovevano causare i fiocchi di ovatta, sulle cime del Caucaso si aggiunge il complementare, il fuoco, e, oltre al fuoco, la collera di potenze invisibili.
Per essere quello che Erodoto pensa che siano, una spiegazione razionale, durevole, sempre attuale (e in linea di principio verificabile) della desolazione delle terre iperboree e dell’impossibilità in cui gli uomini si trovano di penetrarvi, bisognava che le piume non bruciassero.
Forse bruciavano nel mito riferito ad Erodoto, ma che Erodoto ha mascherato dietro la sua osservazione scientifica.
Un dettaglio sembra favorire questa ipotesi: durante il loro inverno di otto mesi, che riempiva anche loro di tremende tempeste e di spessi tappeti di neve, gli Sciti non amavano affatto che scoppiasse un temporale. Non sappiamo cosa propriamente temevano da una tale minaccia.
Un mito relativo al Grande Nord non riuniva forse pericolosamente una «neve» infiammabile e il fuoco del cielo?
(Dumézil, Storie degli Sciti)