Warrau – Origine del tabacco e dei poteri sciamanici

tessitrice-amaca

VARIANTE A

Un indio aveva da molto tempo come moglie una donna abile nel confezionare amache, ma che rimaneva sterile. Egli prese dunque una seconda sposa, dalla quale ebbe un figlio chiamato Kurusiwari. Ora, questo bambino stava sempre a importunare la fabbricatrice di amache e a disturbarla nel suo lavoro.
Un giorno, essa lo respinse bruscamente. Il bambino cadde e pianse, poi abbandonò la capanna senza che nessuno lo notasse, neanche i genitori che, coricati insieme in un’amaca, avevano certo altro a cui pensare.

Era tardi quando ci si preoccupò per lui. I genitori si misero a cercarlo, e lo trovarono in una capanna vicina, dove giocava con altri bambini.
I nuovi venuti si spiegarono, e così cominciò una conversazione coi loro ospiti. Quando però l’indio e la moglie decisero di andarsene, il figlio era scomparso di nuovo, e assieme a lui era scomparso anche un bambino della casa, che si chiamava Maturawari.
L’episodio si ripeté in un’altra capanna con lo stesso risultato. I due bambini se n’erano vespe-alveareandati, questa volta in compagnia di un terzo, chiamato Kawai-wari.

C’erano dunque sei genitori in cerca di tre bambini.
Passò un giorno, e la terza coppia desistette. Il giorno dopo, la seconda coppia fece altrettanto. I bambini, che si trovavano già molto lontano, avevano intanto fatto amicizia con le vespe. A quei tempi le vespe parlavano e non pungevano. Furono proprio questi bambini che ordinarono alle vespe nere di pungere, e a quelle rosse di dare perfino la febbre.

La prima coppia raggiunse infine i bambini in riva al mare. Essi si erano fatti grandi. Quando furono pregati di tornare a casa, il primo bambino, che era il loro capo, si rifiutò, asserendo che era stato maltrattato dalla matrigna e trascurato dai genitori. Questi piansero e supplicarono, senza però ottenere dal figlio niente di più che la promessa di comparire quando essi avessero costruito un tempio e l’«avessero chiamato» con del tabacco.
Dopo di che, i tre bambini attraversarono l’oceano, e i genitori tornarono al villaggio, dove il padre innalzò il tempio prescritto. Ma, per quanto egli bruciasse foglie di papaia, di cotone e di caffè, ciò non serviva a nulla: le foglie non erano abbastanza «forti».

A quell’epoca gli uomini non possedevano il tabacco, che cresceva in un’isola in mezzo all’oceano. Era chiamata «isola senza uomini», poiché vi abitavano soltanto donne.
Il padre, afflitto, inviò un trampoliere a cercare dei semi; esso non tornò, e gli altri due uccelli marini che mandò successivamente conobbero la stessa sorte. La guardiana del campo di tabacco li aveva uccisi tutti.

L’indio chiese consiglio al fratello, che gli procurò l’aiuto di una gru. Questa andò a dormire sulla spiaggia per partire di buon mattino. Un uccello-mosca, venuto a sapere della sua missione, propose di compierla da solo. Nonostante gli sforzi della gru per uccello-moscadissuaderlo, esso spiccò il volo all’alba.
Quando la gru, che aveva meno fretta, lo raggiunse, vide che l’uccello-mosca era caduto in acqua e correva il pericolo di affogare. Essa lo ripescò e se lo mise tra le cosce.

Così tutto andava bene per l’uccello-mosca, che viaggiava comodamente, ma quando la gru evacuò, esso si trovò la faccia insozzata. Decise allora di volare da solo e arrivò per primo.
La gru accettò di stare ad aspettarlo, mentre esso si impadroniva dei semi. L’uccello-mosca era così piccolo e così veloce che la guardiana del tabacco non riuscì a ucciderlo.

I due uccelli, che ora avevano il vento in poppa, volarono di conserva fino al villaggio, dove l’uccello-mosca consegnò i semi al padrone della gru, che li diede a sua volta al fratello insegnandogli come piantare il tabacco, lavorare le foglie e scegliere la corteccia adatta ad avvolgere la sigaretta. Gli ordinò anche di cogliere delle zucche e tenne solo quella che era cresciuta dalla parte orientale del tronco.
L’uomo si mise a cantare accompagnandosi con il sonaglio. Apparvero così il figlio e gli altri due bambini. Essi erano divenuti i tre Spiriti del tabacco, che rispondono sempre al richiamo del sonaglio. Il padre, infatti, era diventato a sua volta il primo sciamano, per aver pianto tanto la perdita del figlio ed essersi angustiato così grandemente.

***

VARIANTE B

Un indio di nome Komatari voleva avere del tabacco che, a quei tempi, cresceva in un’isola in mezzo al mare. Egli si rivolse dapprima a un uomo che viveva da solo sulla riva, e che a torto egli credeva fosse il signore del tabacco.
Un uccello-mosca prese parte alla loro discussione e propose di andare a cercare delle foglie di tabacco. Ma si sbagliò e portò dei fiori.
L’uomo della riva partì quindi alla volta dell’isola, riuscì a eludere la sorveglianza dei guardiani e tornò con la piroga piena di foglie e di rami, di cui Komatari colmò il cesto. Lo sconosciuto lasciò Komatari senza aver acconsentito a rivelare il proprio nome: toccava all’altro indovinarlo, quando fosse divenuto uno stregone.

foglie-tabacco

Komatari si rifiutò di dividere il tabacco coi compagni. Appese le foglie sotto il tetto della capanna e le affidò alla guardia delle vespe. Queste si lasciarono corrompere da un visitatore che offrì loro del pesce e rubò una parte delle foglie di tabacco.
Komatari se ne accorse, mandò via le vespe, tranne quelle di una specie di cui fece le sue guardiane. Poi disboscò un lembo di foresta per piantarvi i semi.

Ottenne allora da quattro Spiriti, che incontrò successivamente e che si rifiutarono tutti di dire il proprio nome, la zucca, le piume e la reticella che avrebbero guarnito il primo sonaglio, e i sassolini che l’avrebbero fatto risuonare.
Avvisati dall’eroe che il sonaglio, una volta finito, sarebbe servito a distruggerli, gli Spiriti si vendicarono suscitando le malattie. Ma fu fatica vana: grazie al sonaglio, Komatari guarì tutti i malati, tranne uno colpito troppo gravemente.

Sarà sempre così: lo stregone-guaritore conoscerà successi e fallimenti.
Naturalmente, Komatari sapeva ora il nome di tutti gli Spiriti. Il primo incontrato, che gli aveva dato il tabacco, si chiamava Wau-uno, «Gru bianca».

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Dedicati all’origine dei poteri sciamanici, questi due miti li considerano manifestamente sotto due aspetti complementari: comparsa degli Spiriti tutelari o espulsione degli Spiriti Rapp-sciamanomalefici. In entrambi i casi, la congiunzione o la disgiunzione si opera grazie alla mediazione dei sonagli e del tabacco, e tanto basta a farne due termini collegati.

Nei due miti la gru e l’uccello-mosca formano una coppia, e il valore rispettivo di ogni uccello si inverte a seconda che il mito consideri lo sciamanesimo sotto l’uno o l’altro aspetto.
Nel primo, l’uccello-mosca è superiore alla gru; nel secondo le è inferiore. Questa inferiorità si manifesta nella preferenza ingenua che, conformemente alla sua natura, esso dà ai fiori piuttosto che alle foglie e ai semi. In compenso, la superiorità di cui dà prova nel primo mito non è acquisita se non al prezzo di una smentita inflitta alla sua natura. Normalmente associato alla siccità e al buon odore, l’uccello-mosca rischia di affogare e ha il volto lordato di escrementi.

La «via del tabacco» passa per la lordura. Ricordandolo, il primo mito attesta la realtà oggettiva del cammino che, partendo dal miele (anch’esso al limite dello sterco e del veleno), ci ha condotti al tabacco.
Insomma, la via dell’uccello-mosca è stata la nostra, e la trasformazione graduale di miti sull’origine del miele in miti sull’origine del tabacco, si proietta doppiamente, e in miniatura, nei miti guayanesi che trasformano il più piccolo degli uccelli da consumatore di miele in produttore di tabacco.

Dei due miti, il primo è certamente il più complesso: lo seguiremo di preferenza all’altro.
Due donne vi svolgono una parte importante: una è un’abile artefice, ma sterile; l’altra è feconda.
In quanto alla prima, va ricordato che le migliori tessitrici, nella mitologia dei Tacana, che abbiamo accostato spesso a quella delle regioni settentrionali del Sudamerica, sono le femmine di bradipo sposate a esseri umani. La stessa indicazione risulta dal mito waiwai sull’origine della festa Shodewika: una volta solo gli indios e i bradipi sapevano confezionare i vestiti di corteccia.

bradipo-amaca

Come spiegare un talento a cui questo animale non sembra predisposto dalle proprie attitudini? La spiegazione risiede certo nel fatto che la posizione abituale del bradipo – che, con la testa in giù, si appende con le zampe a un ramo – evoca l’immagine dell’amaca.
Alcuni miti sull’origine del bradipo confermano che questa somiglianza non è passata inosservata: dicono infatti che il bradipo è un’amaca trasformata, o un uomo coricato nella sua amaca.

Ma due tratti significativi del primo mito permettono di spingersi più oltre sulla via dell’interpretazione: da un lato, il bradipo non vi è designato espressamente; dall’altro, la donna che lo sostituisce nella parte di buona tessitrice fa coppia con un’altra, qualificata feconda senza ulteriori precisazioni.

Il bradipo mangia pochissimo e defeca solo una volta o due alla settimana, per terra e sempre nello stesso posto. Queste abitudini non potevano non richiamare l’attenzione degli indios, che danno grande importanza al controllo delle funzioni d’escrezione.
Commentando l’usanza degli indigeni, che al risveglio provocano il vomito per eliminare ogni cibo che abbia soggiornato di notte nello stomaco, Spruce osserva che «di buon mattino gli indios hanno fretta di liberare lo stomaco più che di evacuare. In tutto il Sudamerica, ho notato che l’indio, che ha una dura giornata di lavoro davanti a sé e non molto da mangiare, preferisce ritardare l’evacuazione sino a notte fatta. Infatti, egli sa Goodman-amacacontrollare meglio dell’uomo bianco i suoi bisogni naturali, e sembra rispettare la stessa massima che un indigeno di San Carlos mi ha espresso in uno spagnolo approssimativo dicendo: Quien caga di mañana es guloso (chi defeca al mattino è un ingordo)».

I Tucano danno a questa relazione [tra feci e ingordigia] un senso più ampio e metaforico, quando proibiscono che il fabbricante di piroghe o di reti vada di corpo prima di aver terminato il lavoro, nel timore che lo strumento risulti bucato.
In questo come in altri campi, cedere alla natura significa mostrarsi cattivi membri della società. Ma allora può risultare, almeno sul piano mitico, che l’essere più capace di resistere alla natura sarà ipso facto il più dotato sotto il profilo delle attitudini culturali.

La ritenzione che, nella donna abile operaia del primo mito, è resa manifesta dalla sua sterilità, traspone in un altro registro – quello della funzione riproduttiva – la ritenzione che caratterizza il bradipo sul piano della funzione d’eliminazione.
Genitalmente costipata, ma buona tessitrice, la prima donna si oppone alla seconda, la cui fecondità sembra avere come contropartita l’indolenza, poiché la si vede scherzare in pieno giorno col marito.

Queste osservazioni ne suggeriscono altre due. In primo luogo, sotto l’aspetto della defecazione, c’è che il bradipo si oppone alla scimmia urlatrice che evacua in ogni momento dall’alto degli alberi.
Come indica il suo nome, questa scimmia urla, ma lo fa soprattutto quando cambia il tempo: «quando si ode la scimmia guaribá sulle colline, sulla terra pioverà», afferma il detto popolare, in accordo con la credenza dei Bororo che questa scimmia è uno Spirito della pioggia.
Parimenti, è un improvviso raffreddamento che incita il bradipo a scendere sulla terra per fare i suoi bisogni: «Quando soffia il vento, il bradipo cammina», dicono gli Arawak, e un naturalista ha potuto ottenere da un bradipo in cattività delle evacuazioni regolari ogni cinque giorni, bagnando con acqua fredda il suo posteriore.

Pertanto, la scimmia urlatrice e il bradipo sono animali «barometrici», ma uno dei quali fa onore al proprio stato con gli escrementi, l’altro con le urla. A titolo di modalità del scimmia-urlatricebaccano, queste urla sono una trasposizione metaforica della lordura.
Non è tutto. La scimmia urlatrice grida chiassosamente e nel branco, al sorgere e al tramonto del sole. Solitario, il bradipo emette di notte un grido debole e musicale «simile a un fischio che tenga il re diesis, per vari secondi». Secondo un vecchio autore, il bradipo grida di notte «ha, ha, ha, ha, ha, ha».

Se si tiene conto che, secondo i miti tacana, ogni violenza fatta al bradipo nell’esercizio normale delle sue funzioni d’eliminazione determinerebbe una conflagrazione universale, si sarà tentati di riconoscere, dietro l’aspetto acustico dell’opposizione della scimmia urlatrice e del bradipo – la prima dotata di un grido «terrificante» a detta degli Akawai, il secondo condannato a un fischio discreto secondo un mito baré – quella stessa fra il rombo, strumento «urlatore», e gli strumenti delle tenebre.

Veniamo ora al secondo punto. La natura dell’opposizione fra le due donne pone la prima, sterile e dotata unicamente dal punto di vista della cultura, in contrasto con la ragazza folle di miele dei miti del Chaco e della Guayana. A quest’ultima, l’altra donna appare omologa, in quanto si mostra altrettanto lasciva e feconda.
In compenso, e com’è naturale passando da miti sull’origine del miele a miti sull’origine del tabacco, la posizione del bambino piagnucolone, termine comune ai due gruppi, si inverte radicalmente.

Là il bambino è scacciato perché piange, qui viceversa piange perché è scacciato. Nel primo caso è la donna assimilabile alla ragazza folle di miele che lo scaccia, essendo infastidita dalle sue urla; nel secondo caso, la responsabile è la donna la cui funzione si oppone a quella della ragazza folle di miele, mentre quella che svolge questa parte rimane indifferente alle grida del bambino.
Infine, mentre il bambino piagnucolone «normale» resta accanto alla capanna e chiama la madre finché un animale congruente con la ragazza folle di miele – volpe o rana – lo rapisce, il suo simmetrico nel nostro mito si allontana volontariamente, e va a stringere amicizia con le vespe.

Tamani-sciamano

È difficile dire se le vespe in questione siano produttrici di miele, e perciò si oppongono agli animali rapitori, che i miti dichiarano ingordi di miele. Ma la dimostrazione è possibile in altro modo.
Notiamo anzitutto che in entrambi i miti, dove le vespe svolgono parti non molto diverse, trattano dell’origine dello sciamanesimo. Ora, lo stregone guayanese possiede un potere speciale sulle vespe, che egli disperde, senza esserne punto, battendo sul nido con la punta delle dita. Nei Kayapo, più a sud, si pratica un combattimento rituale contro le vespe.

Secondo i nostri due miti, le vespe divennero velenose in conseguenza delle relazioni particolarmente strette che avevano allacciato con gli sciamani o i loro Spiriti tutelari. Tale trasformazione, operata dal bambino piagnucolone nel primo mito e dall’eroe nel secondo, riproduce quella che un mito botocudo attribuisce all’irara, animale goloso di miele.
Sotto questa prospettiva, ritroviamo quindi un’opposizione fra le vespe – trasformate da un personaggio che fa le veci dell’irara del mito botocudo – e gli animali rapitori, che sono mangiatori di miele.

(Lévi-Strauss, Dal miele alle ceneri)