Le tradizioni buddhiste raccontano di una singolare «predica» del Buddha: un giorno, davanti alla folla radunata dei suoi discepoli, egli, in silenzio, levò in alto un fiore. Questa fu la celebre «predica del fiore».
Sotto l’aspetto puramente formale anche in Eleusi avveniva qualcosa di simile quando in silenzio veniva mostrata una spiga recisa.
Anche se la nostra interpretazione della testimonianza sulla contemplazione di questo simbolo fosse errata, resterebbe pure il fatto che nel corso delle esperienze misteriche appariva una spiga e che questa specie di «predica senza parole» era l’unico insegnamento di cui sappiamo sicuramente che aveva luogo in Eleusi.
Tuttavia la differenza tra le due prediche è più caratteristica della loro somiglianza. Nel caso del Buddha si tratta della via unica dell’individuo, procedendo sulla quale questi raggiunge la propria salvezza. Il Buddha in principio aveva scoperto, per una grande rivelazione, la verità: tutti gli uomini sono originariamente in possesso della sapienza, della virtù e della forma dell’Uno che è. E come gli uomini, così anche ogni altra cosa è Buddha: le cose, le piante, gli alberi e il mondo terrestre tutto quanto. Dopo, egli predicò questa verità per quarantacinque anni.
Con la «predica del fiore» egli trascese la parola. Il suo ammutolimento doveva essere la rivelazione più profonda della verità, perché un siffatto silenzio doveva comprendere in sé tutto e diventare la fonte di tutta la dottrina. Fatto caratteristico: a eccezione di un solo discepolo, nessuno capì la «predica del fiore».
Al contrario, in Eleusi – secondo quanto è possibile sapere – si tratta di una visuale comune sul piano della quale tutti immediatamente capiscono: capiscono nel senso di una visione e intuizione immediata. Non era necessario superare prima la parola.
Non sappiamo se i riti di iniziazione in Agra e in Eleusi richiedessero molte parole: è difficile che vi rientrasse una predica. Vi ricorrevano giochi rituali, ma non c’è alcuna testimonianza che ricordi un «discorso». Era una via d’iniziazione essenzialmente priva di parole, e conduceva a un sapere che non era necessario né possibile formulare a parole.
Dobbiamo supporre che nella storia dei misteri eleusini vi sia stato un periodo in cui la spiga, quali che siano state le circostanze che accompagnavano la sua esibizione, era come trasparente agli occhi di coloro che partecipavano alla festa misteriosa.
Noi dobbiamo anzi partire come da un assioma dal fatto che tale trasparenza faceva parte della festa misterica, della sua celebrazione e delle esperienze che da essa derivavano. Sarebbe inconcepibile che in nessun tempo si fosse trovato un senso in ciò che nei misteri veniva contemplato con la più profonda devozione: lo si trovava in modo naturale non appena si adottava la comune visuale degli iniziati – iniziati non per mezzo di parole.
Non meno istruttiva è un’altra differenza. Il fiore che il Buddha alzava, mostrandolo ai discepoli in luogo di una predica, era l’allusione più generica all’idea che tutte le cose erano Buddha e tutte le cose erano rivelatrici mute della verità come ora lo era lui stesso. Era un significativo e pur tuttavia misterioso gesto del Buddha, che forse si potrebbe interpretare anche diversamente.
La spiga di Eleusi invece è la sintesi di un determinato aspetto del mondo: l’aspetto Demetra. Le due dèe [Demetra e Core] e le loro vicende sono, rispetto a questo simbolo, le variazioni più sviluppate, più spiritualmente modellate, mentre la nascita quale evento divino è un’altra specie di sintesi.
Il Buddha forse avrebbe potuto levare in alto, sempre nello stesso senso, anche qualche altra cosa, una pietra o un pezzo di legno. In Eleusi le sintesi simili a boccioli e le complete figure di dèe formano un gruppo unico, del tutto determinato e di senso coerente. Esse sono reciprocamente ben delimitate le une di fronte alle altre, tuttavia nello stesso tempo si compenetrano a vicenda.
Né meno determinata è la radice comune che le unisce. Tutto, un chicco di grano come la dea madre e figlia, rivela la stessa visione: la visione, se mi è lecito ripetere l’espressione, dell’«abisso del seme».
Ogni chicco di frumento e ogni fanciulla porta quasi in sé tutta la sua discendenza: un’infinita serie di madri e figlie insieme.
«Infinita serie»: l’espressione naturalmente è altrettanto moderna quanto l’«abisso del seme». Essa ci ricorda le «infinità» di Pascal, l’infinità nella direzione dell’infinitamente piccolo.
Non sciolta in questa maniera, bensì sintetizzata in chiare figure, appare in Eleusi questa realtà unica e completamente determinata: l’infinità della vita organica superindividuale.
L’iniziato vedeva questo destino superindividuale che egli doveva subire; non ne veniva redento, ma vi rimaneva, protetto e felice, raggiungendo un sapere senza parole.
Se vogliamo capire, almeno approssimativamente, l’esperienza eleusina, dobbiamo distinguerla non solo da quella indo-buddhista, bensì anche da quella europea moderna. Dobbiamo cogliere quanto più vivamente possibile la sua paradossalità. Lì si sperimentava un destino superindividuale, quello degli esseri organici, come destino proprio.
Il Greco era cosciente non tanto dell’«abisso» – l’«abisso del seme» – che gli si apriva in se stesso, quanto dell’esistenza in cui quell’abisso sfociava.
La «serie infinita» significa qui, appunto, esistenza infinita: «esistenza» semplicemente. Si viveva questa, l’esistenza quasi come seme del seme, quale esistenza propria.
Il sapere intorno a questa non diventava pensiero discorsivo o parola. Se lo fosse diventato, si sarebbe rivelata tutta la paradossalità dell’esperienza: «subire» il superindividuale, e insieme possedere l’esistenza quale «esistenza propria»…
Contemplazione e contemplato, sapere ed essere, qui come anche altrove nel modo di pensare e di esistere dei Greci, si fondono in un’unità. E si pretende anche una posizione privilegiata per chi vede e sa, nei confronti dell’esistenza: beato chi ha visto cose siffatte – dicono i poeti – egli avrà dopo la morte una sorte diversa da quella degli altri. Egli avrà personalmente la perpetuità che logicamente spetta al seme impersonale del seme, cioè anche all’essere organico che non vede e che non sa, ove per un simile essere essa veramente significhi una «perpetuità».
Nel sapere senza parole e nell’essere, i primi due elementi menzionati della paradossalità – avere, per proprio destino, un destino superindividuale, e per propria esistenza l’esistenza – non sono vere e proprie contraddizioni. Quali esseri organici, tutti provano in realtà tutt’e due le cose.
Solo la terza contraddizione sembra effettivamente insolubile, la convinzione che il pieno e felice possesso dell’esistenza quale «propria esistenza» tocca esclusivamente a chi in Eleusi «ha visto» e sa.
La dipendenza dell’essere dal sapere trascende l’unità greca dell’essere e del sapere. Questa convinzione, nella sfera della fede nella propria perpetuità, è più generalmente umana.
Su questa convinzione riposa l’istruzione data dalle tavolette sepolcrali orfiche, secondo cui il defunto deve scegliere la sorgente di Mnemosine, della memoria, e non quella di Lete, dell’oblio. E su di essa riposa anche – per citare un esempio buddhista – l’intero Libro dei morti tibetano.
Si tratta solo di uno stolto attaccamento alla coscienza? O forzare il passaggio al sapere senza parole non significa pure un punto culminante dell’esistenza, che separa effettivamente i partecipi di quella «visione» dai non partecipi, distinguendoli per sempre?
(Kerényi, Kore, in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia)