Lacan – La psicoanalisi è un umanesimo?

Hattori-nirvana

Quello che Freud ha fin da allora definito come principio di piacere è un principio di costanza. C’è un altro principio, di cui i nostri analisti teorici sanno che farsene quanto un pesce di una mela, il principio di Nirvana.
È notevole vedere, sotto la penna di un autore come Hartmann, i tre termini – principio di costanza, principio di piacere, principio di Nirvana – assolutamente identificati, come se Freud non si fosse mai mosso dalla categoria mentale nella quale tentava di ordinare la costruzione dei fatti e come se parlasse sempre della stessa cosa.
Ci si domanda perché d’un tratto avrebbe chiamato principio di Nirvana l’aldilà del principio di piacere.

All’indizio dell’Al di là Freud rappresenta i due sistemi e mostra che ciò che è piacere nell’uno si traduce in pena nell’altro, e inversamente.
Ora, se ci fosse simmetria, reciprocità, accoppiamento perfetto dei due sistemi, se i processi primario e secondario fossero davvero il rovescio l’uno dell’altro, essi farebbero tutt’uno, e sarebbe sufficiente operare sull’uno per operare anche sull’altro.
Operando sull’io e sulla resistenza, si toccherebbe allo stesso tempo il fondo del problema. Freud scrive Al di là del principio di piacere proprio per spiegare che non ci si può attenere a questo.

In effetti, la manifestazione del processo primario a livello dell’io, nella forma del sintomo, si traduce come dispiacere, sofferenza e, tuttavia, torna sempre.
Questo solo fatto deve attirare la nostra attenzione. Perché il sistema rimosso si Picasso-lucemanifesta con insistenza? Se il sistema nervoso è destinato a raggiungere una posizione di equilibrio, perché non ci arriva?
Queste cose, quando le si esprime così, sono l’evidenza stessa.

Ma appunto, Freud era un uomo che quando aveva visto qualcosa una volta – e sapeva vedere, e per primo – non mollava l’apertura. È questo che fa il valore prodigioso della sua opera. Beninteso, appena aveva fatto una scoperta, immediatamente si esercitava su di essa quel lavoro di roditore che si produce sempre su ogni specie di novità speculativa, e tende a far rientrare tutto nella routine.
Guardate la prima grande nozione originale da lui apportata sul piano puramente teorico, la libido, e il rilievo, il carattere irriducibile che le dà dicendo – la libido è sessuale.

Per farci intendere ai giorni nostri, bisognerebbe dire che ciò che Freud ha addotto è che il motore essenziale del progresso umano, il motore del patetico, del conflittuale, del fecondo, del creatore nella via umana, è la lussuria. E già in capo a dieci anni c’era Jung a spiegare che la libido erano gli interessi psichici. No, la libido, è la libido sessuale. Quando parlo della libido, è della libido sessuale.

Quello che tutti riconoscono come la svolta tecnica dell’analisi, l’aver messo al centro la resistenza, era fondata e si è mostrata feconda, ma si prestava a una confusione teorica – operando sull’io, si credeva di operare su una delle due metà dell’apparato.
È in questo momento che Freud ricorda che l’inconscio non può essere raggiunto come tale, e si fa intendere in modo paradossale, doloroso, irriducibile al principio di piacere. Riporta così in primo piano l’essenza della sua scoperta che si tende a dimenticare.

Avete letto l’Al di là del principio di piacere? Se uno di voi vuol dirci ciò che ha letto in questo testo, gli do la parola.

O. MANNONI: – Domanderei volentieri un chiarimento su un punto che mi mette un po’ in imbarazzo. Sembra, quando si legge Freud, che egli mantenga due aspetti della compulsione di ripetizione. Nell’uno, si tratta di riprendere uno sforzo fallito per tentare di farlo riuscire – il che appare come una protezione contro il pericolo, contro il trauma. surreal-puparoNell’altro, sembra che si ritorni a una posizione più confortevole, perché si è mancata la posizione che, in una prospettiva evoluzionistica, è posteriore. Non ho trovato che queste due posizioni si accordino alla fine, o almeno ho mancato l’accordo, e sono imbarazzato da questa difficoltà.

Ci sono due registri che si frammischiano, si intrecciano: una tendenza restituiva e una tendenza ripetitiva e fra le due, non dirò che il pensiero di Freud oscilla, perché non c’è un pensiero meno oscillante del suo, ma si ha proprio l’impressione che la sua ricerca ritorni su se stessa.
Si crederebbe che ogni volta che va troppo lontano nell’altro senso, si fermi per dire – ma questa non è semplicemente la tendenza restituiva?
Ma ogni volta constata che questo non basta e che, dopo la manifestazione della tendenza restituiva, resta qualche cosa che si presenta a livello della psicologia individuale come gratuito, paradossale, enigmatico e propriamente ripetitivo.

Infatti, secondo l’ipotesi del principio di piacere, l’insieme del sistema deve sempre ritornare al suo stato di partenza, operare in modo omeostatico, come si dice ai giorni nostri.
Come mai accade che ci sia qualcosa che, da qualsiasi parte la si prenda, non rientra nel movimento, nel quadro del principio di piacere?
Ogni volta Freud tenta di far rientrare in questo quadro i fenomeni che rileva e, di nuovo, l’esperienza gli impone di uscirne. Sono i fatti più paradossali a essere i più istruttivi. In fin dei conti, è il fatto massiccio della riproduzione nel transfert a imporgli la decisione di ammettere come tale la compulsione di ripetizione.

O. MANNONI: – La mia questione tendeva a chiarire questo punto: la compulsione di ripetizione nel secondo senso lo obbligava a rimaneggiare la prima concezione, o sono sovrapposte come distinte? Non ho ben chiaro se questo lo faceva ritornare sull’idea che ci fosse una restituzione pura e semplice, o se al contrario aggiungesse alla riproduzione pura e semplice, una compulsione ora …

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È proprio per questo che è portato direttamente alla funzione dell’istinto di morte. Qui, esce dai limiti del suo disegno.

HYPPOLITE: – Perché lo chiama istinto di morte? Si ha l’impressione di qualcosa di terribilmente enigmatico, si ha l’impressione che citi fenomeni eterogenei che, semplicemente, non rientrano nel quadro del suo disegno. Quale rapporto c’è fra la parola istinto di morte e i fenomeni al di là del principio di piacere? perché chiamarlo istinto di morte? Questo apre immediatamente a prospettive di cui alcune sembrano assai strane, come il ritorno alla materia.

O. MANNONI: – Avrebbe fatto meglio a chiamarlo anti-istinto.

HYPPOLITE: – Una volta che l’ha chiamato istinto di morte, questo lo conduce di colpo a scoprire altri fenomeni, ad aprire prospettive che non erano implicate in ciò che lo spingeva a battezzarlo istinto di morte.

È esatto.

HYPPOLITE: – È un prodigioso enigma, il ritorno alla materia, e un po’ vago a mio avviso. Si ha l’impressione di trovarsi in presenza di una sequenza di enigmi, e il nome stesso che dà loro, istinto di morte, è un salto in relazione ai fenomeni che ha spiegato, un salto prodigioso.

BEJARANO: – Ho la stessa difficoltà a cogliere questo salto. Ha l’aria di dire che gli istinti Ernst-pietàdi conservazione della vita vanno alla morte, dice insomma che la morte è voluta dagli istinti di conservazione. Ciò mi sembra altrettanto specioso che dire, trasponendo, che il fuoco, cioè il calore, è il freddo. Non colgo perché lo chiami istinto di morte.

HYPPOLITE: – Non è che ci sia qui una filosofia un po’ confusa? Finisce per dire che la libido tende a formare gruppi sempre più legati gli uni agli altri e organici, mentre l’istinto di morte tende a riportare agli elementi.

Non si ha l’impressione del vago. A leggere il testo, si ha l’impressione che Freud segua, direi, una sua piccola idea. C’è qualcosa che lo tormenta. E alla fine riconosce lui stesse il carattere straordinariamente speculativo di tutto il suo sviluppo o, più esattamente, dell’interrogare in tondo.
Torna senza sosta sulle sue basi di partenza, fa un nuovo cerchio, ritrova di nuovo il passaggio, infine finisce per superarlo, e avendolo superato riconosce che lì c’è qualcosa che in effetti esce interamente dai limiti del disegno, e non può assolutamente fondarsi sul riferimento all’esperienza.
Infine afferma che questa articolazione gli è sembrata degna di essere comunicata per il fatto che è portato necessariamente verso questa problematica.

HYPPOLITE: – Si ha l’impressione che, per lui, i due istinti di vita e di morte siano uno solo nell’inconscio, ma che sia grave quando le componenti si separano. C’è qui qualcosa di molto bello, di molto sorprendente, di mescolato, esattamente come un bambino che vi abbraccia graffiandovi – del resto lo dice esplicitamente. È vero, in ciò che si chiama l’amore umano c’è una parte di aggressività, senza la quale non ci sarebbe che impotenza, che può arrivare però fino all’uccisione del partner, e una parte di libido, che sfocerebbe in un’impotenza effettiva se non ci fosse la parte di aggressività. Se questo va insieme, produce l’amore umano. Ma quando si decompone, quando una delle componenti funziona da sola, allora appare l’istinto di morte.

Questo è a livello di ciò che chiamiamo l’immediato e che è dato nell’esperienza psicologica dell’individuo, diciamo perfino, andando lontano con un’immagine che rende il nostro pensiero, a livello della marionetta.
Ma qui Freud si interessa di sapere da quali fili è manovrata la marionetta. Ecco ciò di Magritte-umanesimocui parla quando parla di istinto di morte o di istinto di vita.

Questo mi riporta alla questione che ho creduto dovervi porre dopo il nostro incontro di ieri sera – la psicoanalisi è un umanesimo? È la stessa questione che pongo quando domando se l’autonomous ego va nel senso della scoperta freudiana. La questione di sapere qual è la parte di autonomia che c’è nell’uomo – è di sempre, ed è la preoccupazione di tutti. Che cosa porta Freud a questo proposito? È, sì e no, una rivoluzione? E allo stesso tempo si presenta la terza questione che ponevo ieri sera – che cosa c’è di nuovo, se li poniamo sullo stesso registro, da Hegel a Freud?

HYPPOLITE: – C’è molto.

Certamente non vi risponderò fin da oggi in modo completo, perché ci sono dei passi da fare e forse un lungo cammino. Cercherò solamente di situare anzitutto a modo mio il senso di ciò che poco fa ho chiamato la piccola, o grande, idea di Freud, mentre è lì che oscilla, gira intorno alla funzione dell’istinto di morte.
È molto sorprendente che gli scienziati di laboratorio continuino a mantenere il miraggio, dell’individuo, del soggetto umano – e perché lui fra tutti gli altri? – che è veramente autonomo, e che ha da qualche parte in lui, nella ghiandola pineale o altrove, un manovratore, l’omino che è nell’uomo, che fa funzionare l’apparecchio. Ebbene, è a questo che il pensiero analitico tutt’intero ritorna ora, tranne qualche eccezione.

Si parla di ego autonomo, di parte sana dell’io, di io che bisogna rinforzare, di io che non è sufficientemente forte per potervisi appoggiare per fare un’analisi, di io che deve essere l’alleato dell’analista, l’alleato dell’io dell’analista, ecc.
Vedete questi due io, a braccetto, l’io dell’analista e quello del soggetto di fatto subordinato all’altro in questa sedicente alleanza. Niente ci dà il pur minimo inizio dell’esperienza, e in effetti si produce esattamente il contrario – è a livello dell’io che si producono tutte le resistenze. Ci si domanda veramente da dove potrebbero partire se non da questo io.

Saunders-carrozzina

Oggi non ho il tempo di estrarre qualche testo dalle mie carte, ma un giorno lo farò e vi citerò dei paragrafi apparsi di recente in cui si dispiega con compiacimento, con la soddisfazione del riposo finalmente conquistato, l’idea molto semplice, semplice come dire buongiorno, che in questo bravo piccolo soggetto ci siano delle cose buone, che ci sia una sfera senza conflitti in cui la libido è neutralizzata, delibidizzata, in cui l’aggressività stessa è desaggressivizzata. È come Archimede – se gli si dà il suo piccolo punto fuori dal mondo, lo può sollevare. Ma questo piccolo punto fuori dal mondo non esiste.

Bisogna vedere fino a che punto la questione si estende. Si estende fino a questo – la psicoanalisi è un umanesimo? – che mette in discussione una delle premesse fondamentali del pensiero classico, a partire da una certa data del pensiero greco.
L’uomo, si dice, è la misura di tutte le cose. Ma dov’è la sua misura propria? Ce l’ha in se stesso?

HYPPOLITE: – Non crede – è quasi una risposta alla sua questione sulla quale ho riflettuto per una parte della notte, ma che ricade in ciò che lei dice – che in Freud ci sia un profondo conflitto fra un razionalista – per razionalista intendo qualcuno che pensa che si potrà razionalizzare l’umanità, e ciò va dal lato dell’io – e un tutt’altro uomo, infinitamente distaccato dal guarire gli uomini, avido di un sapere di tutt’altra profondità, e che a ogni istante si oppone a questo razionalista? Nell’Avvenire di un’illusione, Freud si domanda cosa capiterà quando se ne saranno andate tutte le illusioni. E qui l’io, l’io rinforzato, umano, agente, interviene. Si vede un’umanità liberata. Ma in Freud c’è un personaggio più profondo. La scoperta dell’istinto di morte non è forse legata a questo personaggio profondo, che il razionalista non esprime? Ci sono due surreal-senza-ritornouomini in Freud. Di tanto in tanto, vedo il razionalista, ed è il lato dell’umanista – ci sbarazzeremo di tutte le illusioni, cosa resterà? Poi c’è lo speculativo puro, che si scopre dal lato dell’istinto di morte.

Sta qui l’avventura di Freud come creatore. Non credo affatto che per lui ci sia conflitto. Potremmo dirlo solo se l’aspirazione razionalistica fosse incarnata in lui da un sogno di razionalizzazione. Ora, per quanto lontano abbia potuto spingere nell’Avvenire di un’illusione per esempio, o nel Disagio, il suo dialogo con l’utopismo einsteniano, di Einstein quando esce dalla sua geniale matematica, per ritrovarsi a livello delle banalità …

HYPPOLITE: – C’è una certa grandezza nel materialismo di Freud.

Anche le banalità hanno la loro grandezza. Non credo che Freud sia a questo livello.

HYPPOLITE: – È per questo che mi piace, perché non è a questo livello. C’è qualcosa di ben più enigmatico.

Nel Disagio nella civiltà sa vedere dov’è la resistenza. Per quanto lungi si introduca, non dico il razionalismo, ma la razionalizzazione, salterà per forza da qualche parte.

HYPPOLITE: – È quanto di più profondo c’è in Freud. Ma in lui c’è anche il razionalista.

Il suo pensiero merita di essere qualificato, al più alto grado, e nel modo più deciso, di razionalistico, nel senso pieno del termine, e da un capo all’altro.
Questo testo così difficile da penetrare attorno al quale giriamo, presentifica le esigenze più vive, più attuali di una ragione che non abdica davanti a niente, che non dice – Qui comincia l’opaco e l’ineffabile. Egli entra, e quand’anche avesse l’aria di perdersi nell’oscurità, continua con la ragione. Non credo vi sia in lui abdicazione alcuna, prosternazione finale, che rinunci mai a operare con la ragione, che si ritiri sulla montagna pensando che tutto va bene.

HYPPOLITE: – Certo, va fino alla luce, anche se questa luce, la più totale, deve essere antitetica. Per razionalismo, non ho voluto dire che egli arrivasse a una nuova religione. Al contrario, l’Ausführung è una religione contro la religione.

La sua antitesi, chiamiamola così, è proprio l’istinto di morte.
È un passo decisivo nel cogliere la realtà, una realtà che oltrepassa di molto quella che chiamiamo così nel principio di realtà.
L’istinto di morte non è un’ammissione d’impotenza, non è l’arresto davanti a un irriducibile, un ineffabile ultimo, è un concetto. Cercheremo ora di fare qualche passo per arrivarci.

(Lacan, Il Seminario: 2)

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Breton-cadavre-exquis

Forse fu tornando dai ricchi pascoli di Terk-Turk – forse mi confondo, forse fu solo dopo l’invasione dei Turchi – che il visconte Medardo di Terralba si ritrovò «vivo e dimezzato».
La vecchia saggia, la balia Sebastiana ci mise in guardia: «Attenti, ché di Medardo è ritornata la metà cattiva!».
Del visconte intero, che tristezza!, avanzava solo un idolo retrivo. Dell’altro pezzo nessuno aveva più memoria.

Il cieco e il paralitico, scusate se insisto. È del corpo spezzato, non di chissà quale trauma immaginario di Narciso, che dovremmo occuparci quando diciamo «l’inizio». Dovremmo parlare del corpo frammentato, diviso, squartato o fatto a pezzi – secondo il poco sobrio costume sciamanico.

Il paralitico, il Veggente – se vuoi dargli un nome, chiamalo Tiresia, perché sarà accecato il giorno che vedrà la Dea Nuda al bagno, e da quel giorno non gli resterà che la cieca virtù di vaticinare quanta vita resta da vivere a quel Narciso a cui avrà passato il testimone – insomma, l’Ambulante è u guagliuncielle in carrozza. Freud chiama questa sua stagione [della carrozzella] «processo primario».
Al cieco che per tutto questo tempo l’ha portato a spasso – all’Altro di cui le cavalle o i delfini, la carrozza o la nave, furono i veicoli antichi – subentra un bambino che cammina sulle sue gambe – «processo secondario». Adesso, il visconte ritorna dalla guerra – o forse no, forse davvero è stato negli opimi pascoli di Manitù, a vedere il Chagall-scala-Giacobbemondo dall’alto, e ora che ritorna su una gamba e una stampella – è un’altra stagione: come per Dioniso è una «seconda nascita».

Succede a volte – ai narcisisti, ai secondogeniti Giacobbe – di azzopparsi a salire su per una certa arrampicata, dovendo essi riconquistare l’antico rango perduto, il rango del tempo senza orologio, del tempo che fu prima della Prima Ora.
Succede a volte che, senza volerlo, si manifesti in loro un sintomo – succede che nella «metà che avanza» ancora è all’opera, e insiste e si ripete qualcosa di antico, qualcosa di paralitico, qualcosa – a volte – di paradiso.

La balia Sebastiana esagera: sì, è vero, nel «processo secondario» non avanza che la pena del «primo», e questo è un vero inferno. Però, è solo da quest’inferno che, a volte, si rivede attraverso le doglie d’un sintomo il paradiso. Nel cuore della pena d’averlo perduto, a volte, si cela una gioia. No, che dico? – un Nirvana. No, neanche. È difficile crederci: si tratta solo di una cancellazione della metà di se stessi … per cominciare a poter contare.

Narciso deve essersi oscurato a se stesso, per stupirsi così tanto nel rivedersi. Deve essersi escluso dal conteggio, per incontrarsi solo nel ritorno del suo proprio doppio immaginale.
Ma che sciocchezza fu aver creduto che Eco non c’entrasse nella sua matematica! Essersi immaginato fuori dal mondo, per tutto il tempo che il Mondo lo portava a spasso! Essersi dimenticato d’essere stato, altro che visconte, un burattino qualunque – una marionetta, lo dice pure il Dottore.

Dici paralitico, dici Volpe, dici marionetta – è sempre lo stesso problema: chi è che ne manovra i fili? chi è il suo «egemone», la sua Guida?
Abbiamo detto: è il [demone] cieco, il Gatto, Mangiafoco.
Avremmo dovuto dirlo subito (ma tanto chi avrebbe capito?): è il Socio, Lui, l’Altro, il Mondo, forse la Natura stessa, forse la Specie, forse l’Eterno Femminile che ci tiene in braccio, che «sempre ci leva in alto», forse è l’Anima, forse l’Inconscio. Chi dirà mai l’ultima parola?
Ma poco importa.

Chagall-sogno-Giacobbe

Importante è cominciare a mettersi nella prospettiva d’immaginare che il paralitico e il cieco sono due Personaggi, e che per tutta una stagione, per tutto il tempo del «processo primario», il paralitico va, e non può che andare, dove è portato.
Mi domando se mai gli capiterà un’altra occasione di fare proprio e solo ciò per cui è portato.
È portato a mantenere l’«autonomia» del suo sguardo. Ma è proprio ciò che gli capita di perdere, appena comincia a camminare sulle sue gambe. Ora che può finalmente andare dove gli pare e piace (appresso a Lucignolo, per esempio), si scopre invece a dover reggere lui, come Atlante, il mondo sulle spalle. E a doverlo portare dove Lui, il Mondo, l’Inconscio, vuole – a rincorrere i suoi miti, le sue favole, le sue idee.

Ma se c’è un mito che più di tutti merita qui di essere smontato e rimontato – è il mito del nostro corpo. Il mito della sua autonomia narcisistica – della sua donchisciottesca illusione di bastare a se stesso diventando di se stesso il segno.
Allora sì che Sebastiana avrebbe ragione a dire: «State attenti! ché il Segno è sempre del Diavolo, è sempre cattivo!».
Non siamo bastati e mai basteremo a noi stessi. E questo vuol dire «fame e amore». Siamo sempre stati in due. Solo che, appena l’abbiamo saputo, è finita la pacchia!
Aveva ragione Tiresia: Narciso vivrà fino a che non saprà di se stesso.