Foucault – Don Chisciotte e la nuova pazzia dell’Occidente

Con i loro giri e rigiri le avventure di don Chisciotte tracciano il limite: in esse hanno termine i giochi antichi della somiglianza e dei segni; in esse già nuovi rapporti si stringono. Don Chisciotte non è l’uomo della stravaganza ma piuttosto il pellegrino Ocampo-Don-Chisciottemeticoloso che fa tappa davanti a tutti i segni della similitudine. È l’eroe del Medesimo. Non riesce ad allontanarsi dalla familiare pianura che si stende attorno all’Analogo, proprio come non riesce ad allontanarsi dalla sua angusta provincia. Incessantemente la percorre, senza mai varcare le frontiere nette della differenza né raggiungere il cuore dell’identità. Egli stesso è fatto a somiglianza dei segni.

Lungo grafismo magro come una lettera, eccolo emerso direttamente dallo sbadiglio dei libri. L’intero suo essere non è che linguaggio, testo, fogli stampati, storia già scritta. È fatto di parole intersecate; è scrittura errante nel mondo in mezzo alla somiglianza delle cose.
Non del tutto però: nella sua realtà di povero hidalgo può infatti divenire il cavaliere soltanto ascoltando da lontano l’epopea secolare che formula la Legge. Il libro è più il suo dovere che la sua esistenza. Senza posa deve consultarlo per sapere che fare e che dire e quali segni dare a se stesso e agli altri per mostrare che la sua natura è la stessa del testo dal quale è uscito.
I romanzi di cavalleria hanno scritto una volta per tutte la prescrizione della sua avventura. E ogni episodio, ogni decisione, ogni impresa saranno segni del fatto che don Chisciotte è realmente somigliante a tutti i segni da lui ricalcati.

Ma se vuole essere loro somigliante è perché deve dimostrarli, è perché ormai i segni (leggibili) non somigliano più agli esseri (visibili). Tutti quei testi scritti, tutti quei romanzi stravaganti sono appunto senza uguali: nessuno al mondo è mai stato ad essi somigliante; il loro linguaggio infinito resta in sospeso senza che alcuna similitudine arrivi mai a riempirlo; possono bruciare tutti e per intero, la figura del mondo non né resterà cambiata.
Somigliando ai testi di cui è il testimone, il rappresentante, l’analogo reale, don Chisciotte deve fornire la dimostrazione e farsi portatore del segno indubitabile che dicono il vero, che sono il linguaggio del mondo.

surreal-don-chisciotte-sancio

Gli tocca adempiere la promessa dei libri. È suo compito rifare l’epopea, ma in senso inverso: questa narrava (pretendeva narrare) gesta reali, promesse alla memoria; don Chisciotte invece deve colmare con la realtà i segni, senza contenuto, della narrazione.
La sua avventura sarà una decifrazione del mondo: un percorso minuzioso per rilevare sull’intera superficie della terra le figure che mostrano che i libri dicono il vero. La prodezza deve diventare prova: consiste non già nel trionfare realmente – è per questo che la vittoria è in fondo irrilevante – ma nel trasformare la realtà in segno. In segno attestante l’esatta conformità dei segni del linguaggio alle cose stesse. Don Chisciotte legge il mondo per dimostrare i libri. E non fornisce a sé prove diverse dal luccichio delle somiglianze.

Tutto il suo cammino è una ricerca delle similitudini: le più tenui analogie vengono sollecitate come segni assopiti che occorre risvegliare perché riprendano a parlare. Le greggi, le fantesche, le locande somigliano ai castelli, alle dame, agli eserciti. Somiglianza ogni volta delusa che trasforma la prova cercata in derisione e lascia per sempre vuota la parola dei libri.
Ma la non-similitudine stessa ha il proprio modello da essa servilmente imitato: lo trova nella metamorfosi dei maghi. Per cui tutti gli indici della non-somiglianza, tutti i segni che mostrano che i testi scritti non dicono il vero, somigliano al gioco dell’incantesimo don-chisciotte-e-sancio-pancia-paintche introduce con l’astuzia la differenza nell’indubitabile della similitudine.
E poiché questa magia è stata prevista e descritta nei libri, la differenza illusoria da essa introdotta non sarà mai altro che una somiglianza stregata. Un segno supplementare quindi del fatto che i segni somigliano alla realtà.

Don Chisciotte traccia il negativo del mondo del Rinascimento; la scrittura ha cessato di essere la prosa del mondo; le somiglianze e i segni hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità; sono soltanto quello che sono; le parole vagano all’avventura, prive di contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere.
La magia, che consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze segrete sotto i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio perché le analogie sono sempre deluse.
L’erudizione che leggeva come un testo unico la natura e i libri è rimandata alle sue chimere: deposti sulle ingiallite pagine dei volumi, i segni del linguaggio non hanno più come valore che la tenue finzione di ciò che rappresentano. La scrittura e le cose non si somigliano. Tra esse, don Chisciotte vaga all’avventura.

Eppure il linguaggio non è divenuto del tutto impotente. Detiene ormai nuovi poteri, che gli sono propri. Nella seconda parte del romanzo don Chisciotte incontra personaggi che hanno letto la prima parte del testo e che riconoscono in lui, uomo reale, l’eroe del libro.
Il testo di Cervantes si ripiega su se medesimo, sprofonda nel proprio spessore, diventa per sé oggetto della propria narrazione. La prima parte delle avventure svolge nella seconda la funzione assunta all’inizio dai romanzi di cavalleria. Don Chisciotte deve essere fedele al libro che egli è realmente diventato; ha il dovere di proteggerlo dagli errori, dalle contraffazioni, dalle contaminazioni apocrife; deve aggiungere i dettagli omessi; deve serbare la sua verità.

Ma, per quanto lo riguarda, questo libro non l’ha letto e non deve leggerlo, dal momento che lo è in carne e ossa. Egli che, a furia di leggere libri, era divenuto un segno errante in don-chisciotte-libroun mondo che non lo riconosceva, eccolo divenuto, suo malgrado e senza saperlo, un libro che detiene la sua verità, annota esattamente tutto quello che egli ha fatto e detto e veduto e pensato, e che consente infine di riconoscerlo, tanto somiglia a tutti i segni la cui scia incancellabile esso ha lasciato dietro di sé.

Tra la prima e la seconda parte del romanzo, nell’interstizio tra i due volumi, e in virtù del loro solo potere, don Chisciotte ha acquistato la sua realtà.
Realtà che deve solo al linguaggio e che resta tutta quanta interna alle parole. La realtà di don Chisciotte non è nel rapporto tra parole e mondo, ma nella tenue e costante relazione che i segni verbali intrecciano da sé a sé.
La finzione delusa delle epopee è divenuta il potere rappresentativo del linguaggio. Le parole si sono chiuse sulla loro natura di segni.

Don Chisciotte è la prima delle opere moderne poiché in essa si vede la crudele ragione delle identità e delle differenze deridere all’infinito segni e similitudini, poiché il linguaggio, in essa, spezza la sua vecchia parentela con le cose, per entrare in quella sovranità solitaria da cui riapparirà, nel suo essere scosceso, solo dopo che è diventato letteratura; poiché la somiglianza entra così in un’età che per essa è quella dell’insensatezza e dell’immaginazione.

Una volta attuata la separazione tra similitudine e segni, due esperienze possono costituirsi e due personaggi emergere e fronteggiarsi. Il pazzo, inteso non come malato, ma come «devianza» costituita e alimentata, come funzione culturale indispensabile, è divenuto, nell’esperienza occidentale, l’uomo delle somiglianze selvagge.
Questo personaggio, nella forma in cui compare nei romanzi o nel teatro dell’età barocca, e in quella entro la quale si è istituzionalizzato a poco a poco fino alla psichiatria del XIX secolo, è colui che si è alienato nell’analogia. È lo sregolato burattinaio del Medesimo e dell’Altro; prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici, riconosce gli estranei; crede di smascherare e impone una maschera-pazziamaschera. Inverte tutti i valori e tutte le proporzioni, perché crede continuamente di decifrare dei segni: per lui gli orpelli fanno un re.
Nella percezione culturale che si è avuta del pazzo fino alla fine del XVIII secolo, esso è il Differente solo nella misura in cui non conosce la Differenza; non vede ovunque che somiglianze e segni della somiglianza; tutti i segni per lui si somigliano e tutte le somiglianze valgono come segni.

All’altro estremo dello spazio culturale, ma vicinissimo per la sua simmetria, il poeta è colui che, al di sotto delle differenze nominate e quotidianamente previste, ritrova le parentele sepolte delle cose, le loro similitudini disperse.
Sotto i segni stabiliti, e loro malgrado, afferra un altro discorso, più profondo, che richiama il tempo in cui le parole scintillavano nella somiglianza universale delle cose: la Sovranità del Medesimo, così difficile da enunciare, cancella nel suo linguaggio la distinzione dei segni.

Di qui indubbiamente, nella cultura occidentale moderna, il fronteggiarsi della poesia e della follia. Ma non è più il vecchio tema platonico del delirio ispirato. È il segno di una nuova esperienza del linguaggio e delle cose. Nei margini di un sapere che separa gli esseri, i segni e le similitudini, e al fine di limitarne il potere, il pazzo si rende garante della funzione dell’omosemantismo: raccoglie tutti i segni e li colma di una somiglianza che non cessa di proliferare.
Il poeta garantisce la funzione contraria: assolve alla funzione allegorica; sotto il linguaggio dei segni e il gioco delle loro distinzioni ben ritagliate, si pone all’ascolto dell’«altro linguaggio», quello, senza parole né discorso, della somiglianza.

Il poeta fa venire la similitudine fino ai segni che la dicono, il pazzo carica tutti i segni d’una somiglianza che finisce col cancellarli.
Situati sull’orlo estremo della nostra cultura e vicinissimi alle sue divisioni essenziali, essi si trovano così, l’uno e l’altro, in quella «situazione al limite» – posizione marginale e profilo profondamente arcaico – in cui le loro parole incessantemente trovano il loro potere di estraneità e la risorsa della loro contestazione.
Fra loro si è schiuso lo spazio d’un sapere nel quale, in virtù di una rottura essenziale nel mondo dell’Occidente, non si avrà più da fare con similitudini, ma con identità e differenze.

(Foucault, Le parole e le cose)