Caucaso – Il figlio senza nome di Uryzmæg

nevose-montagne

Vi fu un’annata cattiva presso i Narti. Senza speranza, senza coraggio, le mani vuote, sentivano arrivare la gelida morte. La valorosa gioventù narta era talmente abbattuta e impotente che, dal mattino alla sera, sonnecchiava sulla Grande Piazza. Non riuscivano a far altro che ricordare la vita passata: «In quel posto ho compiuto la tale impresa, ho ricevuto la tale parte del bestiame conquistato …».
Nessuno parlava più ormai di prendere le buone spade, gli archi e le frecce. Peggio ancora: la cagna di Syrdon si aggirava in mezzo a loro, leccando le labbra dell’uno, rosicchiando le scarpe di un altro, strappando la cintura di un terzo … insomma, non si poteva immaginare niente di più penoso.

Un giorno, Uryzmæg andò nella piazza. Che spettacolo! La valorosa bella gioventù narta giaceva a terra, come i morti su un campo di battaglia, e la cagna di Syrdon che faceva su di loro i suoi bisogni!
Il suo cuore di Narto ebbe un fremito, scaraventò sulla cagna il suo bastone d’avorio e il bastone si ruppe in due. Egli raccolse i pezzi, tornò a casa adirato, gettò via i pezzi del bastone e si lasciò cadere così pesantemente sulla sua sedia d’avorio che questa si sfasciò sotto di lui.

«Perché aggrotti l’arco delle sopracciglia? Perché ti butti così sulla tua sedia d’avorio, signore della mia testa? Che ti è successo?», gli domandò Satana.
«Nessuno mi ha offeso, ma può esserci qualcosa di più desolante? Per mancanza di nutrimento i nostri giovani sono all’estremo della debolezza. Si trascinano nella Grande Piazza e dormono di un sonno che non è da loro. La cagna spudorata di Syrdon si aggira vecchio-chitarratra loro, a uno leccando le labbra, rosicchiando le scarpe all’altro, strappando la cintura a un terzo. Non hanno più la forza di cacciarla. Ah! padrona, darei molti giorni della mia vita perché potessero mangiare a sazietà, perché il loro sangue ritrovasse il suo posto e il loro cuore la sua forza!».
«Perché desolarti? – disse Satana. – Va’, invitali tutti, e io li accoglierò come se fossero un solo ospite. Guarda, le nostre riserve sono ricche d’ogni sorta di cibi e di bevande».

E Satana condusse Uryzmæg a una prima dispensa: era piena di pasticci di carne. In una seconda: si ammucchiavano bottiglie piene. In una terza: dall’alto in basso, pile di spalle e di cosce di animali …
«Vi ho messo – lei disse – tutto quanto i Narti mi mandarono come parti d’onore in occasione dei loro grandi banchetti».
Il volto di Uryzmæg si illuminò: «Se è così – disse – preparati. Abbiamo più di quanto i Narti potrebbero divorare in una settimana».
Chiamò il banditore, lo fece mangiare ben bene e gli disse: «Va’ e grida nel villaggio: “Chi ha la forza di camminare cammini, e chi non ha la forza, lo si porti! Chi ha un bambino in culla, porti la culla; Uryzmæg, della famiglia degli Æhsærtæggatæ, offre un banchetto e vi invita!”».

Il banditore fece il suo dovere: «Narti – gridò – chi ha la forza di camminare cammini, e chi non ha la forza, lo si porti! Chi ha un bambino in culla, porti la culla; Uryzmæg, della famiglia degli Æhsærtæggatæ, offre un banchetto e vi invita!».
Sentendo questa chiamata, i Narti si precipitarono e si riunirono, grandi e piccoli, nella casa di Uryzmæg. Furono portate le tavole e, per una settimana, non smisero di mangiare.

A un certo punto, il fuoco si spense. Uryzmæg si alzò per andare nella legnaia a prendere dei ceppi. Mentre si accingeva a prenderli, l’aquila nera dalle grandi penne della Montagna Nera piombò su di lui, lo afferrò tra gli artigli e lo depose sulla cima di un grande scoglio in mezzo al mare.
Uryzmæg si lamentò della sua disgrazia, della sorte che lo attendeva: non una montagna, non un albero, solo l’acqua azzurra …
Mentre era seduto sullo scoglio, scrutando l’orizzonte, si fece sera. Nell’oscurità, in fondo aquila-scoglioall’acqua, egli scorse una luce: «Qualsiasi cosa accada – si disse – bisogna assolutamente che io sappia cos’è!». E si lasciò scivolare lungo lo scoglio.

Si ritrovò davanti a una porta. L’aprì e accorsero tre fanciulle, ben fatte e una più bella dell’altra: «Sii il benvenuto, Uryzmæg – dissero quelle lietamente. – Sii il benvenuto, parente! Entra, entra, sii nostro ospite!».
Lo fecero entrare. Una vecchia era seduta nella stanza.
«Pace e felicità a questa casa!», disse Uryzmæg.
«Sii felice e sii il benvenuto», rispose la donna, e lo fece sedere su una sedia d’avorio. Uryzmæg osservava, girando gli occhi da ogni parte: il pavimento era di vetro azzurro, i muri di madreperla, e la stella del mattino brillava al soffitto. Egli era molto sorpreso di vedere una casa così bella sul fondo del mare e si rese conto di essere capitato dai Donbettyrtæ.

Nella casa giocava un bambino. Correva qua e là con movimenti così agili che l’occhio non poteva seguirli. Il cuore di Uryzmæg si allargò ed egli rimase a contemplarlo: «Felice – si diceva – il padre di questo bambino!».
«Quale buona stella o quale sventura ti conduce in questo paese? – disse la vecchia a Uryzmæg. – Da molto tempo desideravamo vederti».
Uryzmæg riprese coraggio: non era perduto senza scampo giacché aveva ritrovato dei parenti e questi, chiaramente, erano felici di vederlo. Raccontò per quale avventura era giunto da loro.

Le fanciulle si diedero da fare preparando il pranzo dell’ospite. Recarono un ariete fulvo che presentarono a Uryzmæg perché lo sgozzasse egli stesso. Accesero il fuoco e non tardarono a porre davanti a lui una tavola ben imbandita.
Secondo l’usanza dei Narti, Uryzmæg toccò la spalla dell’ariete con la punta della sua spada e pregò. Quando ebbe finito di pregare, chiamò il bambino: «Vieni, piccolo! Assaggia, mio sole!».
Il bambino accorse. Arrivando davanti a Uryzmæg inciampò, cadde in avanti e la spada gli trafisse il cuore. Crollò, simile a un bel fiore splendente, e dopo qualche convulsione la sua giovane anima se ne andò.

Uryzmæg e quelli della casa rimasero costernati. Le fanciulle trasportarono in un’altra War. 1943.stanza il cadavere del bambino.
«Che disgrazia! Perché questo infortunio?», diceva tra sé Uryzmæg, e non toccava più i cibi serviti sulla tavola.
La vecchia gli disse: «Mangia qualcosa, Uryzmæg. Quanto è successo è senza rimedio. Dio aveva stabilito questa morte per questo momento …».
Ma come avrebbe potuto mangiare? Pieno di tristezza si alzò e se ne andò, lasciando le donne a piangere il bambino morto. Ritornò nel luogo dove lo aveva deposto l’aquila nera dalle grandi penne. Subito questa apparve, lo afferrò fra i suoi artigli potenti, lo portò via e lo rimise presso la legnaia. Là, Uryzmæg prese una grossa bracciata di legna e la portò in casa.

I Narti continuavano a far festa, e nessuno fece attenzione al suo ingresso né alla sua tristezza.
Egli sedette al suo posto e disse: «Che cosa vi fa piacere, un racconto dei tempi passati, o una storia nuova?».
«No, niente vecchi racconti! Dicci una storia nuova!».
«Ebbene, sapete che è cosa è accaduto poco fa quando mi sono alzato? Sono andato alla legnaia. Mentre mi accingevo a raccogliere della legna, l’aquila nera dalle grandi penne della Montagna Nera è piombata su di me, mi ha sollevato e mi ha portato verso il mare. Là, essa mi ha deposto su uno scoglio. Non sapevo che fare quando, verso sera, vidi una luce che brillava in fondo all’acqua, sotto una pietra. Mi lasciai scivolare, deciso a sapere che cos’era quella luce, e mi trovai davanti a una porta. Aprii. Tre belle fanciulle accorsero. Con dimostrazioni di gioia mi augurarono il benvenuto e mi introdussero nella casa. Che casa: un pavimento di vetro azzurro, muri di madreperla, e la stella del mattino al soffitto! All’interno, c’erano una vecchia e un bambino. Per festeggiarmi, recarono un ariete fulvo. Quando tutto fu pronto, mi portarono la carne, io pregai secondo l’usanza, poi chiamai il bambino perché l’assaggiasse per primo. Il bambino accorse, inciampò e la mia spada gli trafisse il cuore. Potete facilmente immaginare la nostra desolazione. Incapace di mangiare, oppresso dal dolore, andai fino allo scoglio dove l’aquila mi aveva deposto. In quel momento, l’aquila nera dalle grandi penne giunse con rapido volo, mi prese tra gli artigli e mi riportò alla nostra legnaia …».

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Satana era nella stanza vicina. Udendo questo racconto, si dilaniò le guance, si strappò le trecce, e cominciò i lamenti funebri: «Non ridete di me – disse – o buoni, vecchi capi! Perdonatemi se piango gridando davanti a voi. Avevo affidato segretamente il mio unico tesoro ai miei parenti, i Donbettyrtæ … Uryzmæg non ne sapeva niente: era in spedizione quando è nato il bambino. Ma ecco che l’ha incontrato e, di sua propria mano, l’ha mandato tra i morti! Come vivremo, chi ci sosterrà nella nostra vecchiaia?».

Tristi, i convitati se ne tornarono a casa senza rumore.
Uryzmæg divenne molto cupo. Non rideva più, non rispondeva più. Errava, la testa bassa tra le spalle alzate. Andava nella Grande Piazza, dove si trovava la pietra azzurra che fa dimenticare le sventure, e vi si sdraiava sopra, il viso verso il suolo. Passò così un lungo periodo della sua vita.
Poi i vecchi Narti gli dissero: «A che serve addolorarti così? Una disgrazia simile può capitare a qualunque padre …».
Allora Uryzmæg rise di se stesso e ritrovò la vitalità di un tempo. Chi sa quanto tempo passò? In ogni caso il narto Uryzmæg riprese a offrire banchetti.

I Donbettyrtæ seppellirono il corpo del bambino, e la sua anima volò nel Paese dei Morti. Là, il suo seggio fu il ginocchio di Barastyr stesso, re dei morti. Il ragazzo si desolava e si preoccupava perché, sulla terra, nessuno pensava a lui.
Barastyr gli chiese un giorno: «Perché sei triste, figlio mio?».
«È da molti anni che sono nel Paese dei Morti – egli rispose. – Mio padre Uryzmæg si Ghirlandaio-vecchio-bambinopreoccupa degli estranei, ma non di me. Io non ricevo alcuna offerta funeraria e mi trovo qui più abbandonato degli altri morti. Te ne prego, Barastyr, permettimi di uscire dal Paese dei Morti. Se non mi curo io di me stesso, mio padre continuerà a dimenticarmi. Ti do la mia parola: non appena avrò ottenuto l’offerta annuale che mi spetta, tornerò qui».

«Vorrei poterti accontentare – rispose Barastyr – ma quello che chiedi è impossibile. Appena i morti sapranno della tua partenza, neanche uno ne rimarrà qui: già adesso stento a custodirli».
«Troverò rimedio a questo. Ferrerò a rovescio il mio cavallo castrato. Se, sulla mia traccia, i morti si affrettano verso la porta, di’ loro: “Guardate: se le impronte sono volte verso l’esterno, non vi trattengo, ma se sono volte verso l’interno, non avete ragione di insorgere e di disobbedire”».

Barastyr acconsentì. Il ragazzo ferrò il suo cavallo a rovescio e uscì dal Paese dei Morti. Gli altri morti si precipitarono sulle sue tracce e si diressero verso la porta.
«Dove andate?», domandò loro il guardiano della porta.
«Poiché qualcuno è potuto uscire – risposero – neanche noi resteremo qui».
«Informatevi prima, poi deciderete! Guardate le impronte!».
I morti guardarono: le impronte erano volte verso l’interno e ognuno tornò al suo posto.

Il figlio senza nome di Uryzmæg, il fanciullo che i Donbettyrtæ avevano allevato, giunse al villaggio dei Narti. Si recò alla vecchia casa di suo padre e chiamò. Satana comparve sulla porta.
Egli le disse: «Cerco Uryzmæg, per partire insieme in spedizione. L’aspetterò sulla collina, nel pascolo comune».
Satana rientrò e disse: «Mio povero uomo, ci si fa beffe della tua vecchia testa. C’è alla porta una specie di aborto, ce non si distingue nemmeno dall’arcione della sua sella, che ti cerca e ti invita a una spedizione guerresca! Dice che ti aspetterà sulla collina, nel pascolo comune …».
«Preparami presto tutto quello che occorre, padrona. Certo, quelli che mi vedranno partire in tale compagnia si burleranno di me, ma io ho una regola che non infrangerò e sono troppo vecchio per cambiare. Finché la luce della vita sarà nei miei occhi, compirò ciò che ritengo un obbligo. Fino a oggi, Uryzmæg non ha mai allontanato chiunque venisse a cercarlo. Né lo farà adesso!».

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A Satana dispiaceva che Uryzmæg partisse in spedizione con quel ragazzo. Quando venne la sera, preparò tre focacce al miele e pregò: «Dio degli dèi, mio Dio! Se mi hai creata per qualche cosa, riversa in una notte la neve e la pioggia che dovrebbero cadere in sette anni, scatena tormenta e tempesta! Fammi questa grazia, affinché quel nano trovi la morte che si merita, e il nostro vecchio resti a casa!».
Subito il cielo si copre, comincia a piovere, e tutta la notte precipitano le nevi, i ghiacci eterni, poi le tormente e le tempeste riempiono il paese: non ci si vede più da casa a casa.

Intanto, all’alba, Uryzmæg sella il suo cavallo pezzato Ærfæn e si mette in cammino. Fendendo la neve, arriva con molta fatica ai piedi della collina. Egli osserva: sulla collina non c’è neve e il ragazzo dorme in cima, la coperta sopra, la pellanda sotto, con la sella per cuscino. Intorno a lui, nello spazio di sette aree da trebbiare, l’erba verde è alta fino alla vita, e il suo cavallo pascola.
«Spirito o Genio, non so, in ogni caso la cosa è strana», si dice Uryzmæg e, salendo sulla collina, ferma il cavallo accanto al ragazzo.
«Ehi, ragazzo – dice – in piedi! La strada è lunga e la giornata corta. Bisogna partire!».

Il ragazzo si alza, si prepara rapidamente, salta in sella e tutt’e due partono, davanti Uryzmæg, sul suo cavallo pezzato Ærfæn, il ragazzo dietro, sul suo cavallo castrato.
E vanno, e vanno … tormente e tempeste non si calmano. Il cavallo pezzato di Uryzmæg fende col petto la neve, che talvolta gli ottura le froge. Dietro di lui, il cavallo del ragazzo cavalle-neviavanza brucando sulla nera terra … Ærfæn non è belo a vedersi, si sfiata …
Allora il ragazzo dice a Uryzmæg: «Mi si biasimi pure! Passerò per primo e, d’ora in poi, non si giudichi vergognoso che il più giovane faccia altrettanto!».
Appena fu davanti, ecco che la neve si sciolse al fiato del suo cavallo per uno spazio di sette aree da trebbiare e, nella sua scia, il cavallo di Uryzmæg camminò sulla terra nera.

Quando ebbero camminato per qualche tempo, Uryzmæg disse: «Ragazzo, eccoci in spedizione; decidiamo: dove andremo? chi attaccheremo?».
«Conducimi in un paese che non hai ancora toccato».
«In verità, c’è ancora un paese di questo genere, quello di Terk-Turk. Non ce n’è un altro così ricco al mondo: bestiame minuto, bestie con le corna, cavalli, vi si trovano in sì gran numero che i loro pastori non possono guidarli. Ma non è facile per gli audaci penetrarvi. Bisogna passare il mare, poi affrontare i guardiani degli armenti: un puledro tutto di ferro, un lupo dalle fauci di ferro, un avvoltoio dal becco di ferro».
«È là che dobbiamo andare – disse il ragazzo. – Tentiamo la nostra fortuna. Chissà? forse riusciremo».

Giunsero sulla riva del mare. Fecero entrare nell’acqua i loro cavalli che si dimenarono come pesci e, in un baleno, approdarono sull’altra riva. Il ragazzo lavò accuratamente il suo cavallo, prese della colla senz’acqua, lo spalmò con quella e lo fece rotolare su della ghiaia grossa; lo spalmò di un altro strato di colla e lo fece rotolare su della ghiaia fine – e l’animale diventò grande e grosso come una montagna.
Quando furono vicini agli armenti di Terk-Turk, scesero da cavallo. Il ragazzo scavò due fosse, una per sé, l’altra per Uryzmæg e il suo cavallo.

«Uryzmæg – disse – il mio cavallo si batterà con il puledro di ferro. Si batteranno dapprima coi loro zoccoli posteriori, facendo cozzare l’acciaio dei loro ferri, e ne uscirà un fuoco tale che la crosta della terra si arroventerà. Sta’ attento: non cercare di guardare, altrimenti ti accadrà una disgrazia. Poi si affronteranno a morsi e si batteranno coi loro zoccoli anteriori. Il soffio delle loro bocche produrrà un vento tale che la crosta della terra sarà strappata per lo spessore di un palmo. Ascoltami bene: non muoverti dal tuo posto, altrimenti sarai trascinato per rocce e boschi. Quando verrà il tuo cavallo-ferromomento, ti avvertirò io stesso».

Il puledro di ferro e il cavallo castrato non si risparmiarono. Dai fuochi dei loro ferri sprizzavano tali fiamme che la crosta della terra si arroventò. Uryzmæg non poté trattenersi, alzò la testa al di sopra della fossa e la sua lunga barba prese fuoco.
Il ragazzo si precipitò, la spense e disse: «D’ora innanzi, vi sia una nuova usanza: si porterà la barba della lunghezza che ti è rimasta!».

Il puledro di ferro e il cavallo castrato smisero di urtare i loro zoccoli posteriori; si affrontarono a morsi e con gli zoccoli anteriori. Si alzò un vento tale che la crosta della terra fu strappata per lo spessore di un palmo. Uryzmæg non poté trattenersi, alzò la testa al di sopra della fossa, e il vento gli portò via la calotta del cranio.
«Sventura a me! – gridò il ragazzo. – L’anziano che accompagno non avrà più che una metà di cranio!».
Balzò fuori dalla sua fossa, prese al volo la calotta, la rimise sulla testa di Uryzmæg e disse: «D’ora innanzi, che le calotte dei crani narti non si lascino più staccare!». Perché, fino a quel momento, ogni Narto poteva levare via la calotta del suo cranio, rasarla con comodo, e rimetterla a posto.

Il duello dei cavalli non era ancora finito che già balzava su di loro il lupo dalle fauci di ferro. Il ragazzo scoccò una freccia e – tale sia la sorte di chi ti maledice! – il lupo cadde morto stecchito. Il ragazzo gli tagliò un orecchio, che tenne con sé. Intanto l’avvoltoio dal becco di ferro si avventava a sua volta. Senza perder tempo il ragazzo lanciò un’altra freccia e l’avvoltoio cadde in un battito d’ali. Il ragazzo gli tagliò la testa e la nascose.
Il puledro di ferro e il cavallo castrato continuavano a infierire. Il puledro mordeva il castrato, ma la bocca gli si riempiva di pietre e di ghiaia. Alla fine, fu più forte il castrato: il puledro si abbatté sulle ginocchia.

Subito il ragazzo prese la propria sella, la gettò sul puledro e gli saltò in groppa.
«Ehi, Uryzmæg – disse – affrettati a portar via il bestiame di Terk-Turk. Io devo avvisare i suoi padroni!».
«Faremmo meglio ad andarcene prima che ci inseguano: è la regola delle razzie», disse Uryzmæg.
«No, l’onore me lo proibisce. Non sarebbe degno portar via il bottino senza dare l’allarme!».

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Fece galoppare il puledro di ferro fino al luogo in cui il popolo di Terk-Turk festeggiava e gridò: «Allarme, Terk-Turk! Vi rubano gli armenti!».
I più giovani riferirono la notizia ai più vecchi. Questi dissero: «Deve trattarsi di qualcuno che cerca da mangiare e da bere. Andate a invitarlo, lo accoglieremo come un ospite».
I giovani si affrettarono verso il ragazzo e lo invitarono al banchetto. Egli scese dal cavallo, lo legò al palo e si presentò davanti ai vecchi. Percorrendo la tavola con lo sguardo, tirò fuori la testa del falco dal becco di ferro e l’orecchio del lupo dalle fauci di ferro. Gettò la sua testa sulla tavola, l’orecchio davanti ai giovani e disse: «Vecchi, voi mancate di teste: eccovene una. Ed ecco per voi, giovani, l’orecchio che vi spetta di diritto. E guardate, legato al palo, il vostro puledro di ferro».

Gli uomini radunati fecero la faccia scura: perduti, i guardiani sui quali si basava tutta la loro fiducia! Il ragazzo uscì in fretta, saltò sul puledro di ferro e corse a raggiungere Uryzmæg.
All’uscita del villaggio, cosa vede? Una vecchia dai capelli grigi seduta tra sei tumuli e che si lamenta volta a volta davanti a ognuno …
«Cos’è questo strano spettacolo?», si disse il ragazzo.
Ma già la vecchia gli parlava: «Scendi, e prendi il mio seno nelle tua labbra prima che essi rispondano all’allarme: possono spuntare da un momento all’altro … Avevo sette figli, ma sei mi sono stati tolti e sono in questi tumuli, mandati nel Paese dei Morti per mano del nemico, mentre difendevano gli armenti di Terk-Turk. A vederti, è chiaro che tu sei un grande predatore, e che la battaglia con te sarà dura. Il mio ultimo figlio Dix-vedovaaccorrerà davanti agli altri e ti attaccherà fieramente. Ma, per me, per la vedova che sono, conservamelo! Che il mio unico figlio sia per te sacro come un ospite!».

Il ragazzo saltò giù dal puledro di ferro e corse a prendere nelle sue labbra il seno della vedova. Le diede la sua parola, la sua parola di Narto, di non far nulla al figlio per riguardo a lei. La vecchia donna gli indicò come riconoscerlo tra gli inseguitori.
Egli rimontò in sella e a tutta velocità raggiunse Uryzmæg.
Fecero attraversare il mare al loro bottino. Avanzavano già sull’altra sponda quando un cavaliere spuntò dietro di loro.
«Va’, va’, Uryzmæg, col nostro bottino. Io mi occuperò di quelli che ci inseguono».

Il cavaliere era già vicinissimo: «Cane, figlio d’un cane! – gridò. Sai di chi è il bestiame che porti via? Avvicinati, se sei un uomo!».
E le frecce passavano come mosche intorno al ragazzo. Questi rispose: «Ho dato la mia parola a tua madre, ho preso il suo seno nella mia bocca, l’ho chiamata madre … non attaccarmi, lascia che continui la mia strada».
L’uomo non lo ascoltò. Siccome si faceva troppo minaccioso, il ragazzo gli lanciò una freccia che, passando tra il corpo e i vestiti, lo fece cadere da cavallo e lo inchiodò al suolo. L’uomo ebbe un bel prendere e scuotere la freccia, quella non si mosse.
Il grosso degli inseguitori lo trovò in queste condizioni. Anch’essi afferrarono la freccia senza riuscire a strapparla via. Non poterono liberare il loro compagno che tagliando il suo vestito con una spada.

Ben presto iniziò il combattimento tra gli inseguitori e il ragazzo. Egli ne uccise la metà, e il fiume del loro sangue trascinò via i loro corpi. I sopravvissuti capirono di non essere all’altezza e tornarono indietro.
Uryzmæg e il ragazzo spinsero il loro bottino fino al villaggio dei Narti. Là, si arrestarono nella Piazza delle Spartizioni, e il ragazzo disse a Uryzmæg: «Tu sei il più vecchio, tocca a te dividere il bottino!».
«Io non lo spartirò: sei stato tu a conquistare tutte queste bestie».
Allora il ragazzo fece uscire dal branco un bue bianco, che legò a parte con una corda di seta. Di tutto il resto fece tre parti e disse: «Ecco per prima la parte del più vecchio: ti spetta. La seconda, quella del compagno, è ancora tua. La terza, la mia, te la lascio. Quanto a questo bue, che ti serva per farmi l’offerta funeraria annuale. Tu onori tutti i morti del mondo. Non c’è che il mio nome che non pronunci mai, il nome di tuo figlio che di tua mano hai mandato tra i morti nella casa dei Donbettyrtæ».

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Rimontò sul suo cavallo castrato, disse addio a Uryzmæg e partì per il Paese dei Morti. Gli occhi pieni di lacrime, Uryzmæg gridò: «Guardami ancora una volta …».
Ma il ragazzo non si volse: «Non ho più tempo», rispose.
Uryzmæg condusse a casa l’immenso branco e, appena fu a portata di voce, gridò a Satana: «Il fanciullo che faceva la tua gioia, che non ti saziavi di vedere, padrona, è quello con cui ho fatto questa spedizione!».

Satana lasciò Uryzmæg e corse all’inseguimento del ragazzo. Quando stava per raggiungerlo, gridò: «O tu che eri la mia gioia, tu che io non mi saziavo di vedere, permettimi di contemplarti ancora una volta, volgi verso di me il tuo viso …».
Il ragazzo non si volse. Gridò soltanto: «Non ho più il tempo, il sole tramonta …».
Satana capì che egli non l’avrebbe guardata più. La sventurata pregò: «Dio degli dèi, mio Dio, se sai vedere nel cuore di una madre, prolunga obliqui, sulle montagne, gli ultimi raggi del sole!».
E sulle montagne, il sole morente si attardò.

Intanto, il ragazzo arrivava alla soglia del Paese dei Morti. Gridò al guardiano della porta: «Apri la porta!».
«Troppo tardi – rispose il guardiano – il sole è tramontato».
«No, c’è ancora tempo: in alto, sulla montagna, il sole brilla ancora».
Il guardiano aprì la porta. Nell’entrare, il ragazzo si volse verso Satana. Lei vide un lembo della veste, intravide il volto, e gli gettò il suo anello. L’anello andò a infilarsi da solo sul dito del ragazzo, che entrò con quello tra i morti. Là, egli riprese il suo posto sulle ginocchia di Barastyr.
Satana se ne tornò a casa. Con il bue bianco, fecero in onore del ragazzo un grande banchetto funerario e distribuirono ai Narti indigenti il resto del bottino.

(fonte: Dumézil, Il libro degli Eroi)