Non dobbiamo cedere, nemmeno per un momento, all’illusione di poter una volta finalmente spiegare, e con ciò liquidare, un archetipo. Nemmeno il migliore tentativo di interpretazione è altro che una traduzione più o meno riuscita in un altro linguaggio figurato (il linguaggio, intanto, già di per sé non è altro che metafora). Nel migliore dei casi si continua a sognare il mito, dandogli una forma moderna.
Quel che lo possa spiegare o interpretare è sempre fatto per la nostra anima, e da esso derivano le adeguate conseguenze per il nostro benessere. Giacché l’archetipo – non bisogna dimenticare – è un organo psichico che si ritrova in tutti.
Una cattiva interpretazione significa un congruo comportamento cattivo e perciò dannoso nei riguardi di quest’organo. Il danneggiato è però, in fondo, sempre il cattivo interprete.
L’«interpretazione» dovrebbe quindi riuscire sempre in modo da conservare il senso funzionale dell’archetipo, cioè da garantire un sufficiente e appropriato contatto della coscienza con l’archetipo. Quest’ultimo è, infatti, un elemento strutturale psichico e, come tale, una parte costitutiva vitale e indispensabile dell’economia psichica.
L’archetipo rappresenta o personifica determinati fatti della primitiva psiche oscura, delle vere invisibili radici della coscienza.
Quale importanza elementare abbia il contatto con queste radici, ce lo dimostra la preoccupazione dello spirito primitivo per i rapporti con certi fattori «magici» i quali non sono altro che appunto ciò che noi chiamiamo archetipi.
Questa forma primitiva della religio costituisce tuttora l’essenza efficace di ogni vita religiosa, e così sempre sarà, qualunque forma questa vita possa assumere in avvenire.
Per l’archetipo non esiste alcun surrogato «ragionevole», come non esiste per il cervello e i reni. Gli organi del corpo si possono studiare dal punto di vista anatomico, istologico ed evolutivo. A ciò corrisponde rispettivamente la descrizione e lo studio storico-comparativo della fenomenologia archetipica.
Il senso di un organo del corpo risulta però unicamente ed esclusivamente da una posizione di problema teleologica. Si presenta quindi la questione: qual è la finalità biologica dell’archetipo?
Come la fisiologia risponde a un’analoga domanda riguardante il corpo, è la psicologia che deve rispondere alla domanda riguardante l’archetipo.
Constatazioni come «il motivo del fanciullo è un residuo del ricordo della nostra prima infanzia» e simili, non fanno che aggirare la questione. Se invece noi, modificando leggermente la frase, diciamo «il motivo del fanciullo è l’immagine di certe cose della nostra infanzia che abbiamo dimenticate», siamo già più vicini alla verità.
Siccome però, nel caso dell’archetipo, si tratta sempre di un’immagine appartenente all’intera umanità e non solo all’individuo, è forse più giusto dire: il motivo del fanciullo rappresenta l’aspetto «infanzia» precosciente dell’anima collettiva.
Non è sbagliato prendere anzitutto questa tesi in senso storico, in analogia con determinate esperienze psicologiche che dimostrano come certi settori della vita individuale possano rendersi autonomi e personificarsi fino a creare la possibilità di una auto-contemplazione: per esempio, uno vede se stesso da bambino.
Simili esperienze visionarie – avvengano pure in sogno o veglia – sono legate, secondo quanto dice l’esperienza, alla condizione che precedentemente sia avvenuta una dissociazione fra lo stato del presente e lo stato del passato.
Dissociazioni di questo genere avvengono a causa di incompatibilità: per es. le condizioni presenti sono venute in contrasto con le condizioni dell’infanzia. Ci si è forse staccati violentemente dal proprio carattere originario, per adottare una «persona» corrispondente all’ambizione.
Con ciò si è diventanti «an-infantili» e artificiosi e si sono perdute le proprie radici. E questa è l’occasione favorevole per confrontarsi in modo veemente con la verità originaria.
Visto che l’umanità non ha cessato, finora, di pronunciarsi continuamente nei riguardi del fanciullo divino, forse abbiamo ragione di estendere l’analogia individuale anche alla vita dell’umanità; e così arriveremmo al risultato che probabilmente l’umanità incorre sempre in contraddizioni con le proprie condizioni d’infanzia, vale a dire col suo stato originario, incosciente ed istintivo, ed è minacciata dal pericolo inerente a una simile contraddizione che è, del resto, condizione della visione del «fanciullo».
La pratica religiosa, cioè la continua ripetizione in racconto e in forme rituali dell’evento mitico, mira quindi a riportare nella coscienza l’immagine dell’infanzia e tutto ciò che le è connesso, per impedire la rottura con le condizioni originarie.
(Jung, La psicologia dell’archetipo «fanciullo», in Jung-Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia)