Abbiamo accennato a due questioni:
a) la questione del rango tra il tempo dell’orologio e il tempo che già di solito ci è dato: il tempo dell’orologio, che si caratterizza come il susseguirsi di una serie di «ora», è il tempo più originario, o esso è una modificazione proveniente dal tempo che di solito già ci è dato?
b) l’altra questione circa l’«essere nel tempo» contiene innanzitutto una particolare difficoltà, in quanto attraverso il «nel» viene supposto che il tempo sia qualcosa come un contenitore, qualcosa di genere spaziale. Così, per es., Bergson dice che il tempo con cui calcoliamo sarebbe un tempo spazializzato, che questo tempo [calcolato] sarebbe spazio. Fino a qual punto questo sia un errore, lo dovremo ancora vedere.
Presumibilmente queste due questioni, del «rango più originario» e dell’«essere nel tempo», si co-appartengono.
La questione della differenza di rango si riferisce al rapporto tra il tempo dell’orologio, da un lato, e il tempo di solito a noi già dato.
Del tempo di solito a noi già dato, diciamo: «abbiamo tempo». Abbiamo visto la stranezza del fatto che ciò che, nel discorso dell’«avere tempo», significa tempo, diventa per noi propriamente chiaro quando riflettiamo su ciò che intendiamo nella locuzione «non avere tempo».
Ora o domattina presto – non ho tempo.
Quale carattere possiede la forma grammaticale di questa asserzione: «ora non ho tempo»? Si tratta di una negazione.
Ma vi è forse «negato» il tempo? il tempo è svanito?
Niente affatto.
Allora: è sì una negazione, ma limitata all’avere tempo per qualcosa di determinato; non è perciò una negazione nel senso che semplicemente neghi il tempo.
Posso dire: non ho tempo per andare a sciare, perché devo scrivere un saggio; così, nel «non avere tempo», il carattere dell’avere tempo per … salta agli occhi in modo particolarmente chiaro.
Poiché, però, ogni avere tempo è un avere tempo per qualcosa, noi diciamo: il tempo è accennativo (non significativo, in quanto significare potrebbe facilmente suggerire qualcosa come un simboleggiare). Il «tempo», di volta in volta inteso, accenna in quanto tale a un «per che cosa».
«Io non ho tempo» è dunque una negazione, e tuttavia non lo è. Il tempo per andare a sciare mi manca, ho sì tempo, ma non lo ho «d’avanzo per …». Per ciò, non ho tempo a mia disposizione, in un certo modo mi è tolto.
Quando neghiamo qualcosa in modo da non escluderlo semplicemente, ma, piuttosto, lo teniamo fermo proprio nel senso che ad esso manchi qualcosa, questa negazione si dice privazione. […]
Per giungere a pensare la «privazione», i pensatori greci hanno impiegato duecento anni. Solo Platone ha scoperto questa negazione in quanto privazione, e ne ha trattato nel suo Sofista. Questo accadeva in connessione con la consapevolezza che non ogni non-essente semplicemente non è, e che, piuttosto, si dà un non-essente che proprio in certo modo è.
Un tale non-essente nel senso della privazione è, per esempio, l’ombra, in quanto essa è un venire a mancare della pienezza di luce. Così anche il non esser sano, l’esser malato, è un modo privativo dell’esistere. […]
Chiariamoci ora ancora una volta, per guadagnare la base per una adeguata trattazione della questione del rango, i caratteri essenziali del tempo a noi già dato.
Di esso, abbiamo detto, in primo luogo che è costantemente un tempo per …, del tutto in generale, lo si può caratterizzare come tempo che avanza per …, come tempo applicabile per …, impiegare tempo a …
Il prendersi tempo per … prende tempo, ma non per conservare il tempo, bensì per impiegarlo per …
Quando riesce particolarmente difficile impiegare il proprio tempo per qualcosa, si dice che si sacrifica il proprio tempo. Altri, dal canto loro, il tempo lo sprecano, mentre noi ce lo prendiamo.
Anche se tutti questi diversi fenomeni dell’avere tempo non sono affatto ancora sufficientemente descritti in dettaglio, questo carattere del tempo, per cui esso è sempre tempo per qualcosa, l’abbiamo chiamato accennatività del tempo.
Oltre a questo carattere accennativo, il tempo possiede anche il carattere dell’«esser datato». Diciamo, per esempio: ora che parliamo tra di noi. Qui la «data», nel senso originario del termine in quanto ciò che è «dato», la «datità», ciò a cui il «dire ora» si riferisce, è il nostro colloquio.
In terzo luogo, lo «ora» del tempo a noi già dato non è puntiforme, bensì possiede sempre una certa ampiezza temporale, si riferisce a un «ora», per es. a stasera che parliamo l’un con l’altro. Possiamo perfino dire: ora, in questo inverno accade questa o quella cosa. In tal caso, l’«ora» possiede l’intera ampiezza della spanna temporale di un inverno.
In contrapposizione a ciò, secondo la rappresentazione usuale del tempo come una mera sequenza di «ora», l’«ora» è solo un «punto-ora». Si parla finanche di un punto di tempo.
In quarto luogo, l’«ora» datato, accennativo e dimensionato non è neanche mai innanzitutto un «ora» solo per me. Questa opinione erronea potrebbe imporsi in quanto, ogni volta, quello che dice «ora», sono io. Ma proprio l’«ora», detto da me ogni volta, è l’«ora» che noi diciamo, vale a dire, che noi tutti insieme comprendiamo senza retro-riferimento a un io che dica «ora» ogni volta.
È un «ora» che, per tutti noi, che qui parliamo l’un con l’altro, è accessibile comunemente in modo immediato. Non occorre la mediazione attraverso una riflessione sui singoli io di volta in volta dati, che prima, ciascuno per sé, dicono «ora», e poi solo successivamente si accordano l’un con l’altro sul fatto che essi intendono il medesimo «ora».
L’«ora», l’«adesso», dunque, non è qualcosa che innanzitutto già si trova nel soggetto [individuale], né esso si può rinvenire come un oggetto tra gli altri oggetti, come, per es., questo tavolo e questo bicchiere. Nondimeno, l’«ora», detto, è di volta in volta percepito insieme immediatamente da tutti i presenti. Questa accessibilità dell’«ora» la chiamiamo la pubblicità dell’«ora».
Questi caratteri dell’«essere datato», della accennatività, dell’ampiezza e della pubblicità spettano, tuttavia, non solo all’«ora», bensì anche ad ogni «allora» e a ogni «poi».
Con l’«allora» parliamo nel passato, col «poi» nel futuro, con l’«ora» nel presente. Passato, futuro e presente, li chiamiamo le dimensioni del tempo, senza già ora determinare più precisamente che cosa significhi qui «dimensione». Abitualmente, si parla di dimensioni in rapporto allo spazio tridimensionale. Del tempo, pensato come un susseguirsi di «ora» e rappresentato come una linea, si dice che esso sia unidimensionale, e che presente, passato e futuro non siano contemporanei come le dimensioni dello spazio, bensì sempre solo susseguentisi.
Visto così, può a tutta prima sembrare strano che noi parliamo di tre, se non addirittura di quattro dimensioni del tempo, dicendo che esse sarebbero contemporanee e non susseguentisi.
Manifestamente, però, queste dimensioni non hanno nulla a che fare con lo spazio. Tutt’e tre le dimensioni del tempo sono cooriginarie, giacché non si dà l’una senza l’altra, tutt’e tre per noi aperte cooriginariamente, ma non sono aperte nella stessa misura.
È normativa ora l’una, ora l’altra dimensione in cui ci impegniamo, in cui forse perfino siamo catturati. Con ciò, però, le altre due relative dimensioni non sono svanite, bensì solo modificate. Le altre dimensioni non soggiacciono a una mera negazione, bensì a una privazione.
Ora, per un momento, lasciamo stare la riflessione sul tempo, quale ci è dato abitualmente e rivolgiamoci ancora una volta al tempo dell’orologio, che solo apparentemente abbiamo già trattato a sufficienza.
Come sta la cosa col tempo dell’orologio? Che tempo è questo? È anch’esso un tempo che abbiamo? Lo abbiamo mediante l’orologio.
La volta scorsa, con grossolana approssimazione, abbiamo detto: il tempo dell’orologio non ci dà il tempo stesso, bensì solo il quanto tempo. Ma quale carattere possiede questo quanto tempo?
Il dato cronologico, per esempio: sono le dieci, non esaurisce il suo senso nel nominare un numero sul quadrante. Se dico: «sono le dieci», quel che ci interessa non è il numero dieci, bensì che sono le dieci di una mattinata in cui accade questo o quello, o si è combinato per questa o per quella cosa.
Alle diciotto è sera. Dunque, nel tempo dell’orologio constatato quotidianamente, non si tratta di mere differenze di numeri. Anche questo dato cronologico, apparentemente solo numerico, possiede carattere «qualitativo», intende il tempo come accennativo. Anche nel tempo dell’orologio, abitualmente constatato, non è, dunque, mai pensato un mero quanto, un quanto di tempo. Perfino in una gara di corsa, misurata con un cronometro a scatto, dove si calcola a centesimi di secondo, il dato cronologico di volta in volta significa sempre l’esser più veloce di un concorrente rispetto a un altro.
Esso intende il tempo occorso riguardo a una prestazione massima. Il più veloce detiene il record.
In inglese, record significa originariamente: annotazione, e precisamente una registrazione ufficiale. Solo più tardi il significato della parola si restringe infine a «record», l’annotazione del numero della prestazione nello sport.
La storia del linguaggio mostra ovunque una tendenza al restringimento e appiattimento dei significati delle parole. Come esempio serva la parola «roba (vecchia)». Originariamente, essa significa: vestiti, biancheria, masserizie, corredo, vuol dire propriamente ciò che è di gran valore; se qualcosa di simile viene rubato, si parla di «derubare», quando a non essere portata via è proprio la «roba» nel senso odierno, la roba senza valore.
(Heidegger, Seminari di Zollikon)